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giovedì, agosto 12, 2010

Dal caos all'unità

In questi giorni romani, in cui la principale attività è lo studio della Fenomenologia della Musica, tornando al canto mi piace trasferire qualche concetto, a riprova della vicinanza tra queste Arti, che parlano la stessa lingua.
La Fenomenologia della Musica celibidachiana ci insegna che la Musica si può dare nel momento in cui il caos di milioni di note scritte anche dal più grande compositore (e già non è da tutti cogliere che si tratta di un caos, per la maggior parte delle persone quello stato primitivo è già musica) si può trasformare in un'unità. Il compito della trasformazione compete alla nostra coscienza, ma quello è un lavoro "automatico" che compie indipendentemente dal nostro stato di competenza, ed è anche piuttosto soggettivo; in alcuni musicisti è un fatto istintivo, così come in alcuni cantanti è innato il mettere il suono sul fiato, possedendone le caratteristiche fisiche. Dunque, trasferendo il concetto, noi possiamo dire che chi inizia lo studio del canto si trova in un caos, avallato dal nostro istinto di conservazione e difesa della specie, in cui il fiato non è in alcuna relazione con la laringe (o corde vocali) e con le forme e gli spazi sopraglottici, responsabili dell'amplificazione e dell'articolazione. Lo studio del canto si può dire con semplicità che consista nel mettere ordine in questo caos, e, più precisamente, di mettere in relazione i tre apparati affinché ciascuno possa dare il meglio di sé con il minimo impegno. Anche questo compito è svolto dalla coscienza, che deve ricevere tutte le informazioni possibili, ovviamente corrette, per poterlo svolgere. Dobbiamo anche constatare che il caos piace! Il livello basso è più comune, appartiene a una massa più grande di individui, e dunque a più popolo, mentre un livello alto di Arte, dove una determinata qualità e quantità di fiato è perfettamente rapportata al suono che si vuole ottenere, in altezza, timbro, intensità e volume, e trova la giusta forma e proporzionato spazio ad accoglierlo, dove il caos si è trasformato in un'unità sonora, non viene da tutti accettato, perché la mente delle persone è inquinata dal comune intendere, che ritiene impossibile un livello artistico di perfezione, riservato a una sfera divina. In realtà questo è possibile, pur essendo un traguardo difficilissimo da raggiungere, e deve partire da un'esigenza di elevazione da parte del soggetto che ritiene possibile tale traguardo (se non lo si ritiene possibile è inutile iniziare quel percorso, perché è precluso fin dall'inizio; il Maestro non può e non deve far opera di convincimento), in tempi mai brevissimi, ed è ciò che indichiamo come "flusso mentale operante", cioè il corpo, o meglio alcune parti di esso - in questo caso l'apparato fonatorio - a disposizione della mente. Il corpo, che essendo "animale" risponde prioritariamente ai comandi di una mente istintiva, materiale e occupata da problemi contingenti legati alla sopravvivenza e alle poche esigenze di relazione umana, viene invece indotto a rispondere, senza togliere la priorità vitale, a un bisogno di tipo spirituale, artistico, che può arrivare sino al limite estremo di un'esigenza superiore ai limiti del corpo, cioè divinizzarsi, diventare spirito puro, il che non è possibile, ma quel limite imposto è da considerarsi perfezione, in quanto "non oltre", non superabile dalla condizione umana. E' un limite allo stesso tempo soggettivo e oggettivo. E' soggettivo in quanto due o più soggetti che abbiano raggiunto quel limite, avranno caratteristiche diverse: di classe di appartenenza, di colore, di intensità, di volume, di estensione, ecc., ma quel livello di perfezione non è più graduabile, è lo stesso, e il loro linguaggio, a quel punto, sarà lo stesso. Il limite del linguaggio, che è un problema enorme nel caotico mondo del canto, come in tutti i campi artistici, può identificarsi solo nel momento in cui si raggiunge lo stesso livello. Il vero Maestro conosce tutti gli stadi evolutivi, non si trova su una torre d'avorio beandosi del proprio stato di perfezione, ma al contrario scende fino al livello più basso (sconosciuto ai tanti cantanti che hanno fatto una carriera più per disposizione che per studio) identificandosi con l'allievo alle prime armi, e sapendolo trarre da quella condizione in virtù della spazialità della sua condizione, che essendo "unica", cioè non essendo più suddivisa nei tre o più stadi fisio-anatomici del corpo, saprà sempre indicare la strada più breve e più adatta a quel soggetto (ed ecco quindi la futilità di un metodo) per portarlo nel regno dell'Arte fonica. Nonostante ciò i tempi, a meno che non si tratti di un soggetto particolarmente fortunato, non potranno mai essere brevi. Ciò che può costituire un serio ostacolo al raggiungimento di un obiettivo così elevato, è l'ego. In primo luogo occorre soffermarsi sul principio che un'Arte non è esibizione, non è celebrità e dunque manifestazione esteriore, caduca. L'Arte è per la Storia, è per l'umanità, è per gli altri, e l'ego può solo rappresentare un inquinante, un filtro che impedisce di vedere lontano; la fase più dura di una seria ma "pesante" scuola è quella detta anche della "doccia di chiodi", durante la quale il Maestro dovrebbe cercare di minare, sgretolare anche fino all'annientamento, quell'ego che si pone come un muro sulla strada dell'apprendimento. Questo non significa rinunciare alle gioie e agli aspetti di relazione e di esternazione di qualsivoglia tipo (anche se il Maestro che ha conquistato con sacrificio quel traguardo, potrà risultare un po' ascetico e inavvicinabile), ma con la coscienza di un sapere non superficiale, non destinato all'happening, ma a un evento che lasci un segno in chi è presente.

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