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domenica, gennaio 30, 2011

Banalità...

Stavo riflettendo: se una persona del tutto digiuna di canto leggesse qualche commento su questo argomento e vedesse scritto: "canto sul fiato", potrebbe chiedere: "perché, con cos'altro si può cantare?". La domanda è talmente ovvia da risultare imbarazzante. Eppure viene utilizzata con gran pompa da gran parte degli insegnanti... (indipendentemente dai risultati). Ma la curiosità dell'estraneo può non finire qui! Cosa significa: cantare "sul" fiato? è forse possibile che il suono o la pronuncia possano essere divisi dalla corrente aerea? E nuovamente la risposta è: assolutamente no!
Cosa possiamo dire in proposito?
Beh, è abbastanza semplice: il fiato, quel fiato che quando noi espiriamo semplicemente esce senza alcun ostacolo, nel canto incontra prima di tutto la laringe e le corde vocali, e questo ostacolo rompe il flusso aereo, e quindi abbiamo la gola e mille altre possibili interferenze che impediscono quel risultato finale, che definiamo canto sul fiato, che è paragonabile all'emettere semplice fiato.
Analogamente, la pronuncia viene eseguita dall'apparato articolatorio, che è l'insieme di ossa, cartilagini, muscoli e mucose che compongono lo spazio oro-faringeo, che con i propri movimenti è in condizione di comporre i numerosi fonemi di cui siamo capaci; ancora una volta il fiato viene "rotto" e costretto a percorsi impropri; questo fa sì che la pronuncia venga avvertita in bocca, più o meno indietro, ma la verità è che essa è parte integrante del suono, e quando il suono sarà davvero provocato dal flusso aereo, la pronuncia starà "dentro" lo stesso, e sarà avvertita come "sopra", ma solo perchè libera e più leggera rispetto a quella avvertita normalmente in bocca.

Aggiungo: quando noi parliamo, la nostra voce non la sentiamo forse "fuori" di noi? Questo è assolutamente normale; e allora perché, invece, il canto vorremmo interiorizzarlo?

sabato, gennaio 29, 2011

L'insostenibile leggerezza del Belcanto

Ebbene sì, questa frase, citazione di un celebre romanzo, dà proprio il quadro di una condizione peculiare del canto sul fiato e ancor più del belcanto dell'antica scuola italiana che noi perseguiamo. La leggerezza del canto sul fiato, apparentemente vuoto, che alla base, cioè nel percorso interno, non sembra acquisire corpo, timbro, potenza, e che quindi appare di una leggerezza impalpabile, può risultare "insostenibile" per due ragioni: una di ordine psicologico, perché è molto difficile da accettare, ritenuta impossibile, ma anche sul piano fisico, perché mentre sembra incomprensibilmente esile nel centro, fatti pochi semitoni si manifesta come peso incredibile per il nostro diaframma, che la rifiuta con reazione fisica, finché non sarà superata grazie all'esercizio, ma ancora in modo emotivo-psicologico, che porterà il soggetto a togliere pronuncia e posizione per ridurne la pressione. Vale appena la pena ripetere per l'ennesima volta che in realtà ciò che non "sembra", in realtà si manifesta in tutta la sua potenzialità fuori del nostro corpo, e timbro, e intensità potranno scatenarsi quando si riuscirà a evitare qualunque resistenza e vincolo muscolare e parlare NEL fiato, come fosse solo un pensiero, senza alcun movimento.

giovedì, gennaio 27, 2011

La voce degli altri (4)

Ho letto un libro del didatta Antonio Juvarra. Non esprimo pareri generali sulla sua scuola, ma in questo libro trovo una serie di indicazioni che non solo condivido, ma che ritengo illuminanti. Ho deciso pertanto di riportare qui quelle che mi sembrano decisamente valide e complementari agli scritti di questo blog. Elencherò in seguito, per coerenza, quelli che non condivido o ritengo ambigui o di difficile comprensione.

Il libro si intitola "Riflessioni figurate sul canto", Armelin Musica - Padova - 2002

35: "solo il suono puro può funzionare da scintilla che accende il fiato, lo trasforma in energia sonora e fa accadere il canto [...]";
44: "Nel canto non si produce un suono ma si ri-produce il suono che abbiamo immaginato e presentito...";
54: "Possiamo tentare di camminare "scientificamente", azionando direttamente o consapevolmente i singoli muscoli coinvolti in questa funzione (e cammineremo male) oppure indirettamente e "sinteticamente", lasciando semplicemente che l'idea del camminare si traduca in azione "come normalmente facciamo". Non possiamo invece neppure immaginare di poter comandare direttamente alle corde vocali di compiere i 440 movimenti al secondo, necessari per realizzare l'idea della nota "La", o di far sì che i sordi, intonazione a parte, imparino a cantare. Questo ci fa capire come la concezione scientifico-meccanicistica, considerata "realistica" quasi per definizione, sia molto più irreale e impraticabile di quella "idealistica", considerata invece in base a un analogo implicito pleonasma, confusa e fantasiosa."; 55: "la scienza serve a dimostrare che il miracolo del canto a risonanza libera, detto "sul fiato" è anche una precisa realtà fisica, ma non può, in quanto tale, suscitarlo.";
72: [...]"rinunciando a gonfiare (l'io e la voce), si riesce a penetrare e a partecipare a una realtà superiore. Poiché essa non è in partenza già tangibile ed evidente, ma nascosta e quasi incredibile, non si tratta di scambiare due cose concrete di eguale valore, ma di porsi nell'atteggiamento di chi accetta di perdere tutto in cambio di niente. Solo in un secondo momento quel 'tutto' si rivelerà come un tronco morto e quel 'niente' come il seme vivo, divenuto albero. In questa dimensione la grandezza non è più fatta di pesantezza e autoalimentazione, ma di levità ed elevatezza.";
73: "'Da una maschera d'oro è coperto il volto della verità'. Anche il cantante, attratto dalla superficie dorata del suono 'impostato', non si accorge dello schermo che in tal modo lo separa dal suono vero.";
74: "Se si 'fanno' i suoni, si rimane attaccati ad essi. Se invece si orienta l'attenzione verso di essi, non c'è attaccamento, ma semplice contatto, come tra un oggetto e il raggio di luce che l'illumina.";
79: "L'arte del canto si rivela infine come l'arte di togliere la gravità e scoprire la luce del suono. I mezzi per compiere quest'alchimia sono, oltre alla creazione della parola, i due elementi senza i quali la dimensione umana non sarebbe neppure concepibile: la respirazione come continua osmosi interno/esterno e la percezione dello spazio.";
81: "Non 'fare' il tenore (o il baritono, o soprano, ecc.) ma ritrovare se stessi e, se si è tenore (o br, o sp, ecc.) naturalmente lo si sembrerà (perchè lo si è).";
82: "Io individuale=suono timbrato. Io universale=essenza pura del suono. Il primo è una costruzione mentale fatta delle immagini che vogliamo gli altri abbiano di noi, il secondo è l'emergere dal niente della nostra natura più vera, intima e inconfondibile. Il suono del primo tipo, mummificando la mobilità vitale con cui si manifesta il secondo, era detto dai belcantisti, in senso negativo, 'in maschera', cioè simulacro esterno, e quindi falso.";
93: "L' 'altezza' intesa come qualità aerea e lievito del suono, non si ottiene pensando di indirizzare il suono in alto [...] ma alleggerendolo di quegli elementi pesanti che gli impediscono di galleggiare naturalmente. Una volta alleggerito e nebulizzato correttamente, il suono da solo trova l'altezza ideale. [...].";
98: "Avvio del suono dolce, senza aggressività, dopodichè può esserci intensificazione senza irrigidimento.";
99: "'Rinforzare è rendere il suono più puro e intenso, 'sforzare è rendere il suono più grosso e roboante.";
107: "Due sono i fiati nel canto: uno vistoso, che fa 'idrante' al suono, spingendolo, e un altro, nascosto, che gli fa da 'cuscino' o da 'tappeto volante', sostenendolo [...]"; [nota: più che spingendolo direi: alimentandolo]
131: "Molte sono le gabbie che imprigionano il suono. Ce n'è una dorata, che in molti cantanti pazientemente si costruiscono e a cui compiaciuti danno il nome esoterico di 'maschera'.";
133: "Il concetto di 'colonna di fiato' sottolina l'armonia globale su cui si basa la giusta emissione: non azioni muscolari localizzate, quindi né cavità settoriali, per quanto 'avanti' o 'in maschera', 'a sbadiglio' o 'a sorriso', ma intercomunicazione fluida ed eliminazione di ogni compartimento stagno.";
134: "la colonna del fiato è ciò che è l''anima' per gli strumenti ad arco: un ponte sonoro che collega il 'fondo' respiratorio e la 'tavola armonica' del sistema articolatorio e di risonanza.";
135: [...]"il cantante dalla sua posizione 'dietro le quinte' del corpo, percepisce il suono giusto non tanto come suono, quanto come fiato imbevuto di suono, con un effetto e un rapporto fiato/suono paragonabile alla nebulizzazione di uno spray. Se la sensazione interna è invece quella di un suono troppo concreto, pieno e presente, privo insomma di quella percentuale di aria che lo rende lievitato e souffé, il livello estetico e funzionale del suono è inevitabilmente inferiore.";
137: [...]"i suoni più reali non sono i suoni concreti, 'pieni', 'timbrati', ma quelli 'elevati', 'depurati', 'lievitati' o 'levitati'.";
138: "non l'erezione di un gorilla che si gonfia e batte il petto portando la propria forza in trionfo, ma l'elevazione di un Cristo che risorge aprendo le braccia all'umanità, è ciò che rende meglio lo spirito di quella postura nobile da cui scaturisce negli acuti l'energia 'alta' che esalta al massimo tutte le qualità del suono, senza degradarle ad urlo.";
145: "l'attacco del suono è spesso un attacco al suono. Questo tipo di attacco è attaccamento, frutto della paura, che priva il canto e il cantante della libertà del vero distacco. Sfociando nel suono, invece di attaccarlo o attaccarvisi, e lasciandosi da esso invadere e pervadere, si crea una fusione tra l'immanenza dell'attacco e la trascendenza del distacco.";
147: "Quando, stanchi di cercare una sicurezza, finalmente troviamo una libertà, stanchi di cercare il suono in una qualche zona anatomica, improvvisamente siamo da esso trovati, ecco che la meraviglia suscitata dall'apparizione, anche per pochi attimi, della verità ci fa esclamare: "tutto qui? Ma non sto facendo niente!"[...];
166: "I seguaci dell'affondo si comportano come chi, avendo scoperto che un albero affonda le radici nella terra, cercasse di sotterrare anche il tronco e la chioma. I seguaci della voce in maschera come chi cercasse di portare alla luce anche le radici. [spoggio, ndr] Il canto sul fiato si radica nel profondo del respiro ma finisce in alto sulla cresta luminosa dell'onda di energia, quella che Lauri Volpi chiamava 'la cima del soffio'.";
177: "... passando da una nota all'altra, il fiato/suono deve continuare a fluire liberamente, come, cambiando marcia, il motore e le ruote continuano a girare. Questa indipendenza tra emissione ed articolazione dei vari suoni dà la sensazione di lasciar risuonare l'eco della voce, di parlare sfruttando l'onda della nota precedente, addirittura di cantare in playback, perché l'articolazione, non più associata a singoli impulsi di attivazione fonatoria, da motore si fa timone della voce...";
179: "Nel mondo del canto nessun espediente tecnico, per quanto demenziale (e purché "segreto") appare così risibile da non riuscire a creare una 'tecnica', un 'maestro' e una 'scuola'.";
182: "Degenerazioni nordiche dell'appoggio: non più 'galleggiar cantando', ma 'defecar cantando'.";
183: "l'unico diaframma con cui molti cantanti hanno a che fare è quello, da loro stessi creato, che li separa per sempre dal suono vero.";
188: "E' incredibile che molte scuole di canto ancora si basino su una rudimentale, inconfessata concezione idraulico-balistica della voce che 'stringi-stringi' (è proprio il caso di dirlo...) si riassume nella seguente idea-immagine: un tubo ricurvo a doppia uscita (nasale e orale) da cui bisogna buttar fuori (o comunque avanti) un oggetto che è il suono. Se questo non esce o rimane in gola (?!), il suono è definito, per antonomasia, 'indietro'. Per farlo uscire, occorre esercitare in basso una pressione sui mantici del fiato (e questo sarebbe l'appoggio) oppure 'vomitarlo' allargando la gola...";
191: "... Paradosso (e nemesi) del grande critico, divenuto (anche lui!!?) insegnante di tecnica vocale: avere impresso nella mente il suono giusto e nel corpo tutto il contrario; non 'cantare' per non tradirsi.";
194: "Quelli che... colorano di grigio l'arcobaleno perché così è più omogeneo, quelli che immobilizzano la voce, perché così è più uguale, quelli che la affondano perché così è più piena, quelli che la impiccano perché così è più in maschera, quelli che la spingono perché così è più avanti, ....";
202: "la foniatria ha rapporto col canto come la ginecologia con l'eros, la meteorologia con la Pastorale di Beethoven, la topografia e l'orografia con l'Infinito di Leopardi, la speleologia con la Vergine delle Rocce di Leonardo.";
204: "Ammesso che la scienza sappia come la voce funziona, non è detto che sappia come farla funzionare e questo è ciò che la distingue dall'arte. D'altra parte, per il semplice fatto di sapere come funziona un pianoforte, un accordatore non assurge ipso facto al rango di pianista. [o insegnante di pianoforte, ndr]";
212: "Perché si canta? Per esaltare il proprio io vocale, separandolo e distinguendolo dagli altri. Oppure per farlo partecipe di una superiore dimensione di bellezza, che è extrasoggettiva.";
214: "Si può 'servire' ai tavoli o sull'altare; in entrambi i casi il servizio è rivolto agli altri. Quello svolto dai cantati è invece spesso un self service, un servire a se stessi squallidi piatti di autocompiacimento o di autoidolatria.";
220: "Nell'espressione drammatica il primo rischio è quello di voler essere più otello di Otello, in quello musicale di essere più verdiani di Verdi. E' il momento in cui, per intensificare l'espressione della realtà, se ne fa la caricatura. Questo squilibrio concettuale ed espressivo diventa subito squilibrio tecnico-vocale, con conseguenze disastrose sulla voce.";
241: "[...] la 'maschera': essa non è da intendere come magico amplificatore della voce, sede materiale delle risonanze frontali e nasali dove convogliare il suono, ma come visualizzazione esterna del suono 'staccato dalla gola' e che si autosostiene al di sopra di un certo livello di guardia, percezione mentale della dimensione alta della voce.";
256: "Togliere la pienezza del suono , lasciando che nello spazio vuoto rimasto vibri la sua anima luuminosa.";
270: "lì vicino a dove parliamo [...] sta il misterioso accesso all'emissione libera, il suo "apritisesamo". Ma noi non ci crediamo perché troppo 'semplice' e continuiamo a cercarlo lontano [...].";
280: "il suono timbrato è spesso un suono artificiale, la cui brillantezza è ottenuta per addizione e non ricavata per sottrazione (cioè per purificazione). [...]";
282: "La quantità di vibrazioni percepite nella zona della maschera non è direttamente proporzionale alla correttezza dell'emissione, anzi in molti casi è esattamente il contrario. Così in un motore un numero alto di giri non determina di per sè la velocità della macchina [...];
283: "Quando si spinge è perché inconsapevolmente dando colpi con i muscoli [...] si ferma il movimento passivo, inerziale, della corde vocali (canto sul fiato) e si compensa imprimendo un movimento attivo. Insomma si frena e poi si accelera, o più precisamente, si accelerà perché si è, senza saperlo, azionato il freno.";
294: "'Pronuncia alta' significa non abbasssare la posizione per pronunciare, attuare cioè una pronuncia così essenziale e leggera da non ostacolare la sintonizzazione del suono puro, dopodichè l'impressione è che i due elementi(pronuncia ed emissione) si fondano (parlare sul fiato) e che quindi la pronuncia sia alta. [...] La 'voce uguale' non è una voce staticamente rigida, ma fluidamente viva.";
297: "E' interessante notare come la tecnica di emissione ideale sia designata come "parlare sul fiato" e non semplicemente come 'cantare' o 'parlare' e neppure 'declamare' sul fiato. Questo significa che contrariamente a quanto succede nel declamato e nella recitazione del teatro di prosa, nel canto di alto livello, detto 'sul fiato' , i movimenti articolatori non diventano impulsi che agiscono direttamente sulla quantità di voce emessa, indurendo i muscoli dell'appoggio, ma rimangono indipendenti dall'emissione, esattamente come in uno strumento ad arco la diteggiatura è indipendente dall'arcata. Il compito di amplificazione del suono è affidato non ai 'singoli' colpi declamatori, ma alla risonanza libera, per cui chi canta, più che cantare, assiste e sovrintende al proprio canto. Di qui l'impressione di parlare semplicemente o di cantare in playback.";
304: "Se invece di pro-nunciare, retro-nunciamo, rimaniamo senza volante [si veda la nostra individuazione delle labbra come timone e briglia della voce ndr]. In questo caso per non andare fuori strada dobbiamo costruirci dei binari [i binari cui accenna il m° A.J. in questo caso si riferiscono al lato faringeo della gola, mentre noi parliamo saltuariamente di binari esterni alla bocca], ciò che limita drasticamente le possibilità di movimento, ma che non impedisce a molti cantanti di optare entusiasti per questa soluzione di ripiego trasformando sè stessi, se non in 'ventriloqui' in 'faringoloqui'.";
341: "Occorre sì'cantare come si parla', ma come si parla realmente, non come immaginiamo che si parli. [...]";
345: "E' l'intenzione di 'parlare' e non di cantare che, nell'avvio del suono dà alla voce quella purezza e semplicità che la fa risuonare liberamente, senza spinte e senza zavorre. Per contro, l'intenzione di cantare suscita quasi sempre un surplus di energia che appesantisce l'emissione. Per questo, paradossalmente, l'invito a non cantare ha come effetto un cantare meglio.";
360: "Educazione dell'emissione sul fiato: trasformare una barca a remi in una barca a vela."
365: "Il suono 'alto' si ottiene eliminando le zavorre che gli impediscono di stare naturalmente in alto, e le zavorre si eliminano togliendo le tensioni muscolari che 'istintivamente' aggiungiamo, ritenendole necessarie.";
367: "[...] Il mito delle cavità nasali di amplificazione è così potente da lasciare i suoi seguaci indifferenti anche alla semplice constatazione empirica che cantando a bocca chiusa, la potenza del suono non solo non aumenta, ma diminuisce drasticamente. Questi 'mugolatori' sono talmente fanatici della loro fede che, se in possesso di un motorino, ne bucherebbero subito la marmitta (altra cavità di assorbimento) per trasformarlo in 'cavità di assordamento'....";
382: "Il suono non va mai 'tenuto', ma 'lasciato': lasciato vibrare, galleggiare, risuonare, ecc. [...]";
385: "[...] il suono è guidato grazie alla vitalità e motilità dei muscoli facciali che usiamo per sorridere (da cui il concetto di maschera, che per altro non indica una speciale cavità di risonanza, ma il semplice piano frontale della pronuncia essenziale che sola rende possibile la sintonizzazione dei suoni puri).
388: "Se mille Otelli, Leonore ed Edgardi non avesssero mai proferito sul palcoscenico le loro parole, quale sarebbe lo spirito e l'accento con cui le diresti? Pensa: sei qui, tu, solo, il primo al mondo a far risuonare nell'aria le fatidiche parole "Ah si, ben mio...", "Ah, l'amore ond'ardo...".";
401: "Spesso cerchiamo il suono giusto in base a quello che immaginiamo esso sia. Ma se lo conoscessimo già non avremmo bisogno di cercarlo. [...] E' così che ci sfugge il suono vero, quando casualmente ci si presenta davanti: non siamo in grado di riconoscerlo...";
402: "'Aletheia': la verità in greco non è indicata positivamente, ma negativamente, cioè come svelamento, scoperta, risultato indiretto e sconosciuto di un togliere. Ugualmente nel canto il suono vero non si trova cercandolo direttamente, ciò che ci induce a inventarlo artificialmente (attribuendogli le caratteristiche che immaginiamo debba avere), ma togliendo ciò che lo ricopre e lo nasconde.";
416: "Il declamato pseudoverista non è che la lotta che il cantante deve ingaggiare col proprio corpo per far uscire la voce, compensando con la forza le distorsioni acustiche e gli squilibri muscolari da lui stesso prodotti. Che poi tutto questo diventi 'espressione drammatica' è un fatto vero, ma solo nel senso limitato del dramma personale del cantante, in lotta con la propria voce.";
419: "La respirazione fisicamente e psichicamente significativa avviene a bocca aperta. Non a caso si parla di 'boccata d'aria' e non di 'nasata d'aria'....";
424: "Si galleggia 'sulla cima el soffio' come voleva Lauri Volpi, e non semplicemente sul fiato, se si distende il corpo con l'inspirazione e se si 'affilano' le parole, rimanendo sciolti. Le 'parole piccole' galleggiano sul fiato, le 'parole grosse' invece 'affondano'...";
473: "Quando si inspira occorre già concepire la nota con la mente. Dopodiché non bisogna far altro che lasciare che il fiato esca e cominciare il suono non con un colpo o con una spinta, ma sul fiato. Il suono sul fiato è il solo ch...e si possa aumentare o diminuire. Quando vado sugli acuti è come se dentro fossi vuota. C'è solo la colonna del fiato che vibra. La gola non esiste, è completamente rilassata e il fiato funziona da solo. Quando le c.v. vibrano in modo rilassato non si stancano mai. Occorre assumere un atteggiamento di abbandono. Quando si 'appoggia' occorre avere una sensazione di altezza e mantenerla anche scendendo. Tutto meravigliosamente alto. In questo modo si sorvola il passaggio senza sentirlo. Magda Olivero.";
479: "[...] Le verità si scoprono, i surrogati si inventano.";
484: " Come il seme è contenuto nel frutto acerbo o marcio e il fuoco nel centro di pianeti ghiacciati, così il suono puro e luminosto è contenuto nel suono sguaiato e gridato. La sua nascita è appunto una parto-separazione dal contrario che lo contiene.";
488: "Non avere gola cantando, non avere ego vivendo.";

Sono ben poche le frasi che non condivido in toto o che trovo controproducenti o di equivoca intepretazione, ma non starò a citarle. Trovo, dopo una seconda rilettura, solo che se è affermato in modo mirabile tutto ciò che riguarda il canto sul fiato, è difficile capire come si arrivi a questo straordinario risultato! Quindi come si "doma" l'instinto, come si superano i duri ostacoli che egli ci pone...
Questo da un lato, poi ci sono aspetti non secondari che qui vengono del tutto ignorati, o appena sfuggiti, come il problema dei registri e delle classificazioni.

martedì, gennaio 25, 2011

Mettere il turbo alla voce

Un mio allievo ha pronunciato questa frase in un momento "di grazia". E' un concetto che avevo già intuito in passato, anche se mai scritto. E' vero, quando si riescono a superare il vincolo e le resistenze fisiche, e si riesce a cantare sul fiato, realmente e SOLO sul fiato, è come se partisse un turbo, cioè la voce prende non solo potenza, ma anche velocità. La velocità del suono nell'ambiente crea un effetto di compressione dell'aria che la rende molto risonante e occupa ogni anfratto.
L'attacco del suono è come una scintilla a qualche centimetro di distanza dalla bocca, leggermente sopra, e questa scintilla, piccolissima, senza corpo, è come se creasse una fiammata. La cosa realmente incredibile, è la leggerezza, la totale mancanza di attività muscolare, che fa sentire la voce come vuota, come inconsistente, ma allo stesso tempo incredibilmente piena di suono, e con un consumo d'aria minimo. Quando si avverte questo stato, ci si accorge che è come avere una piccolissima fuga d'aria, è come se la voce potesse durare all'infinito, perché, nel contempo, è come se il corpo non sentisse l'esigenza di nuovo fiato. Davvero uno stato di "trascendenza", come se il corpo non ci fosse più, avesse perso ogni esigenza, come fosse l'aria esterna a suonare, con il nostro semplice pensiero.
... ma quanta concentrazione, quanto lavoro, per raggiungere quella straordinaria semplicità...!

Riporto una frase del M° Antonietti, riportata nel trattato:
"La voce deve uscire dalle labbra leggera ed aerea, sprigionarsi ed apparire senza peso, morbida, pulita e deve conquistare l'uditorio. Deve essere vibrante nell'aria dell'ambiente e deve penetrare in ogni anfratto, in ogni palco, in ogni angolo, limpida e comprensibile. Deve poter avvolgere, conquistare, sconcertare e rapire il pubblico, portarlo via nel sublime, superando ogni e qualsiasi difficoltà, rendendo partecipe tutti, come se il canto fosse prodotto da un flusso mentale che conquista e sovrasta ogni attimo. La voce deve uscire dalla bocca come un ventaglio largo e verticale, come fosse emessa in un sogno, che porta nel sogno tutto ciò che la circonda, deve staccarsi dall'umano ed entrare in una sorta di trascendenza, come se cantasse un angelo. Ogni fibra dell'esecutore deve sprigionarsi nell'estasi e cancellare ogni e qualsiasi gradualità tecnica, ogni traccia di fatica. La voce deve diventare pensiero puro, e come tale deve corrispondere alla interpretazione e all'espressione del volto, del sentimento, e deve strappare letteralmente l'uditorio dalle poltrone; solo così incontreremo l'Arte, solo così si manifesta l'Arte, solo così l'Arte può essere intesa tale."

Devo aggiungere, purtoppo, che queste parole sono sempre vissute come "belle parole", perché acquistano significato solo nel momento in cui vengono vissute, il che, come si comprenderà, avviene davvero di rado.

domenica, gennaio 23, 2011

Esempi dell'esempio

http://www.youtube.com/watch?v=ahvMqNOJjZc

Farò qualche commento su alcune esecuzioni presenti su youtube.
Ovviamente Schipa la fa da padrone, però attenzione, ce ne sono più versioni; quella che ho postato, preceduta dalle famose e celebrate "Violette", è la migliore; ne esiste un'altra decisamente peggiore, con portamenti e altre "sporcature" non all'altezza del grande maestro che conosciamo.
Questa è vocalmente superba. Rispetto all'analisi compiuta anche lui tende a spianare un po' tutto; proposte e risposte pressoché sullo stesso piano, punto massimo poco valorizzato. Rifare poi tutto da capo con lo stesso testo ha poco senso. Comunque per chi studia canto questo rimane l'esempio insuperato che si possa trovare tra i grandi.

- il video di Kraus è stato rimosso -

Alfredo Kraus è un ottimo vocalista, dunque la sua esecuzione è senz'altro tra le più interessanti. Intanto esegue le due strofe, e nella seconda porta anche qualche variazione, per quanto discutibile. Sul piano vocale c'è solo da lamentare una indecisione di intonazione, qualche affettazione negli attacchi e alcune accentazioni, per altro non eccessive, fuori luogo. L'aspetto meno nobile riguarda quello strettamente musicale; basterebbe il fatto che la seconda ripetizione è fatta più piano e in rallentando, come se il brano finisse! E la ripetizione del "fredde e sorde", è eseguita in modo quasi identico, giusto un po' rallentata. Insomma, non c'è un pensiero realmente fondato.

Anche peggio la versione di Gobbi, che non sto a linkare; forti e piani senza alcuna logica, al di là della voce.

L'esecuzione di Renato Bruson è accompagnata dall'organo, non si sa perché. Anche lui ripete tutto da capo a fondo senza cambiare strofa: un'assurdità. Non è migliore di altre sul piano esecutivo, addirittura con una intensificazione dell'ultima strofa, mentre esegue correttamente la ripetizione del "fredde e sorde". Abbastanza fuori luogo anche la presa di fiato prima di "morir". Sul piano vocale noto una dizione non esemplare (ma è peggiore quella di Gobbi).

Qualcosa di meglio mi sarei aspettato, almeno sul piano musicale, dalla Bartoli, invece è un'esecuzione piatta e incolore, con una doppia ripetizione dello stesso testo, inoltre è perennemente in ritardo negli attacchi, il che è assai fastidioso.

La Tebaldi, che tanto mi era piaciuta nelle "violette", qui è invece pochissimo curata nella pronuncia, e l'esecuzione è piatta e inespressiva.

Di Carreras ne esistono più versioni. Quella giovanile, ci mostra una voce assai ingolata, e un perenne spezzamento delle frasi; il brano viene ucciso! credo sia la peggiore versione sul piano musicale. In quella più tarda le cose non vanno molto meglio, però accenta con intuizione il punto massimo. Qui fa ripetere al piano la prima parte e poi interviene sul finale, come si fa con "o sole mio"...

Insomma, la sconsolante constatazione è che un'arietta considerata quasi banale, che si fa eseguire all'inizio dello studio, non è presentata in modo esemplare praticamente da nessun celebre cantante, e i migliori restano, ahimé, i "vecchi". Guardatevi dall'ascoltare le versioni dilettantesche presenti su youtube, sono davvero atroci! Uno scenario sconfortante, che può far sorridere, ma in realtà ci deve far riflettere!

sabato, gennaio 22, 2011

Primo esempio

Inizierò a esemplificare con una semplice aria antica: "O cessate di piagarmi", di A. Scarlatti.
Queste arie in origine avevano poche indicazioni, poi i revisori, tipo Parisotti, le hanno infarcite di segni, perlopiù discutibili. Non ne terremo conto.
Il testo:
"O cessate di piagarmi, o lasciatemi morir, o lasciatemi morir.
Luci ingrate, dispietate, luci ingrate, dispietate,
più del gèlo e più déi marmi
frédde e sórde a' mièi martir
frédde e sórde a' mièi martir.
O cessate di piagarmi, o lasciatemi morir, o lasciatemi morir."

Esiste anche una seconda strofa, non presente nel Parisotti, che magari posterò in seguito.
Ricordo, a proposito di accenti, che ho indicato, che le "e" e le "o" su cui non cade l'accento tonico, vanno pronunciate con accento acuto: ad es. céssate.
La O iniziale è anch'essa da pronunciare con accento acuto, cioè "chiusa".
Curare la pronuncia della doppia S e della SC.
Il brano è costruito con schema ABA. E' logico supporre che il punto massimo cada verso la fine della sezione B. Il compositore mette in campo del materiale, che elabora, dopodiché inserisce materiale nuovo, che fa aumentare la tensione del brano, che raggiunge il suo picco, dopodiché torna a "casa".
La prima frase porta verso la "A" di piagarmi. Dunque si deve evitare di isolare la O, il "cessate" e il "di", come fossero parole a sé stanti; in un certo senso dovremmo legare il tutto come fosse un'unica parola: ocessatedipiagàrmi, dove l'accento principale cade sulla A; inizieremo piano e cresceremo fino a quella A, dopodiché dobbiamo diminuire per evitare di accentare il "mi" (senza togliere sostegno, ovviamente). la "O" della frase successiva dovrà partire esattamente con la stessa intensità che ho prodotto nel "mi", per non spezzare la continuità. Esiste la virgola, dunque è possibile respirare dopo la prima frase, ma può risultare inopportuno dopo solo due battute, però è meglio un respiro che una legatura che tolga il senso della risoluzione. La seconda frase è infatti la "risposta", e risolvendo la prima, in cui la tensione cresceva, questa andrà a diminuire (diciamo "a meno"). La difficoltà consiste nel salto discendente si-re#: "lasciatemi". Per risolverlo correttamente occorre appoggiare, con perfetta pronuncia, lo "SC", senza accentare troppo la A. Qui annotiamo uno dei problemi più comuni e frequenti nella scrittura musicale: lo scambio di accento musicale con accento testuale: il "mi" di "lasciatemi" (dunque il punto più debole della parola) cade sul battere, dunque sull'accento musicalmente forte. In questo caso, come già nella prima frase, la scansione, vero e proprio fraseggio, è da individuare in un arco di due battute; quindi puntare sulla "I" di "morir". A questo punto eccoci di fronte alla "ripetizione". Sia musicalmente che testualmente l'ultima frase viene replicata. Un'esecuzione identica toglierebbe ogni valore musicale. Ma come va "orientata" questa ripetizione? La domanda da porci è se la tensione sta aumentando o diminuendo, e dunque come posso valorizzarla. In questo caso la tensione aumenta puntando alla sezione B che sta per inaugurarsi, dunque l'esecuzione andrà fatta con una intensità leggermente maggiore, pur concludendo sempre in "piano".
Il B, si presenta come una progressione "a terrazze". La prima e la seconda frase, testualmente uguali, si presentano melodicamente simili, ma a un tono di distanza. Qui c'è una sensibile crescita di tensione, perché un movimento di un tono armonicamente (da fa#7 a sol7), è fortemente tensivo (5 quinte sotto). Legare le parole puntando alla "A" di "dispetàte", leggera diminuzione sul "te" finale, riprendendo la seconda frase con la stessa intensità raggiunta, con un crescendo, sempre sulla stessa "A", ma con maggiore intensità (vien da sé che aumentando il tono anche l'intensità aumenterà leggermente). La terza frase aumenta ancora di un tono melodia e armonia e la tensione aumenta ancora, puntando a questo punto indiscutibilmente verso il punto massimo, che si trova nella quarta frase (esattamente sulla O di "fredde e sorde"). La terza frase "più del gèlo e più dei marmi" dovrà costantemente aumentare d'intensità (solo una leggera diminuzione sul "mi" finale di "marmi") e puntare direttamente alla O di "sorde", che è la nota più acuta del brano e dovrà anche risultare la più forte. A questo punto nuovamente una ripetizione, sia musicale che testuale. Questa rappresenta la risoluzione del B, dunque l'intensità andrà sensibilmente diminuita. E' iniziata la fase esplicita. Siamo alla ripresa. Guardando al p.m., la prima frase potrà essere eseguita con maggiore intensità di quanto si fece all'inizio, andando a chiudere, sulla ripetizione della seconda frase, in pianissimo e con leggero ritenuto.
Ecco, questa è un'aria breve e di semplice struttura; non ho scritto certo tutto, ma le cose principali, per quanto durante lo studio non è detto che si debba analizzare in modo così pignolo; a volte un'esemplificazione è più chiara di tante parole.

giovedì, gennaio 20, 2011

La fenomenologia musicale

A questo punto dovremmo entrare in questioni più specificatamente musicali; ritengo che questo argomento sia difficilmente generalizzabile, specie in questo ambito, quindi penso che il sistema migliore sia quello dell'esemplificazione, per cui nei prossimi post (con calma) prenderò in esame alcune arie.
Una premessa. Per affrontare questo argomento faccio riferimento a una disciplina che ho avuto la fortuna di studiare e applicare e che discende dalla scuola fenomenologica di Sergiu Celibidache. Nulla di trascendentale, ma, così come la scuola di canto di cui sono portatore, anche questa scuola null'altro è che la presa di coscienza dei fenomeni che determinano quest'Arte. Per chi è interessato a un approfondimento potrò fornire ulteriori dettagli.

Un brano musicale, così come un'aria, nel nostro caso, è un percorso. Un percorso nasce nelle prime battute che determinano i "semi", su cui si svilupperà l'intera composizione. Occorre prendere coscienza degli sviluppi che dai primi passi porteranno alla conclusione del brano; in breve: la fine è contenuta nell'inizio. Nessun fenomeno può essere considerato inutile, ma non sempre è così facile comprendere le azioni che hanno mosso il compositore, ma è indispensabile se si vuole eseguire il brano con oggettiva purezza. L'inizio, poi, non punta direttamente alla conclusione, ma ad un punto massimo (detto anche climax), che è il culmine delle tensioni. In effetti il compositore altro non fa nel suo percorso compositivo, che gestire delle tensioni. Se chi esegue il brano non è consapevole di questo, c'è il forte rischio che crei un percorso errato, cioè esalti eccessivamente le tensioni quando sono già evidenti, e le lasci cadere quando hanno invece necessità di essere sostenute. Ecco perché, ad es., è importante capire come "orientare" le ripetizioni. Un brano, specie di epoca antica, classica e anche romantica, è costellato di ripetizioni, le quali, se non sapute orientare, fanno cadere l'interesse verso il brano o parte di esso.
Potremmo definire lo spartito una cartina geografica, e la fenomenologia musicale la "bussola" che ci orienta verso la mèta. Molti esecutori, infatti, fanno già fatica e spesso confondono le valli e le montagne!
Come nella costituzione umana, anche la musica si basa su un "respiro" binario (come la respirazione, appunto, o come la camminata), e distinguiamo l'impatto dalla risoluzione. Occorre dunque individuare le frasi o semifrasi di impatto, di proposta, da quelle di risoluzione, di risposta, perché la loro esecuzione non può essere identica, così come nel parlare quotidiano diamo un carattere, un'intonazione, diversa a una domanda, a un'affermazione, a una risposta. Il fine di tutto ciò è UNIFICARE il brano, cioè far sì che la coscienza possa assimilare il brano come un'unità, e non come un insieme di cose (note, parole, frasi, accenti, ecc.) più o meno slegate. Questo è il concetto di libertà, il concetto di gioia, ma anche quello che permette alla nostra coscienza di riconoscere sé stessa, il proprio presente, passato e futuro.

mercoledì, gennaio 19, 2011

Il rapporto col pianista

Prima di proseguire sulla disamina degli aspetti intrinseci all'esecuzione di un'aria, faccio un cenno a una questione che ritengo (e rilevo) importante e diffusamente problematica, cioè il rapporto col pianista (e spesso anche col direttore, laddove c'è un'orchestra). Se da un lato si sottolinea che non si deve ridurre il ruolo del pianista a quello di "accompagnatore" ("fanno musica insieme", talvolta annunciano i presentatori), è anche vero che sentiamo sovente i due protagonisti andare in direzioni opposte. Da un lato osserviamo che pianisti che sappiano davvero far musica insieme sono pochissimi; non conoscono le opere, non sanno come ridurre ciò che è scritto in modo efficace, non conoscono i tempi, non conoscono i respiri. Gli spartiti per piano trascritti dall'orchestra, di cui possono esistere più versioni, in molti casi risultano assai ostici da un punto di vista tecnico; è ovvio che il pianista deve avere una competenza tale da superare certe difficoltà, ma allo stesso tempo deve anche saper ridurre queste difficoltà in modo da evitare intralci alla scorrevolezza dell'esecuzione, specie nel momento in cui è insieme al cantante.
Il punto più critico riguarda il tempo di esecuzione. Se è vero che molte volte il cantante può avere la tendenza a rallentare o accelerare, è assurdo che il pianista parta con un tempo "garibaldino" per dare brio alla pagina, ma si ritrovi, all'attacco del canto, un tempo raddoppiato! (cioè molto più lento) [ricordo un "va pensiero", dove il pianista eseguiva l'introduzione a una velocità incredibile, praticamente arrestandosi all'entrata del coro! Non si sa che facesse in quel caso il direttore... mah!]. I pianisti in genere si lamentano (e ne hanno motivo) che i cantanti dividono male, non vanno a tempo, ecc., però non è irrigidendosi sulle proprie posizioni che possono migliorare la prestazione. Tutto potrebbe risolversi più professionalmente e artisticamente se si facessero le prove come si deve. Capisco che il tempo è denaro, specie quando c'è un'orchestra, ma ridurre la prova a un'oretta prima del concerto (col cantante magari che accenna), perché "tanto sono cose conosciute", è una tale mancanza di senso artistico che amareggia. Cantante e pianista devono concordare e trovare il tempo giusto, in primo luogo, concordare i fraseggi, i punti di respiro (in modo che il pianista non metta in croce il cantante continuando a martellare), e comprendendo gli aspetti espressivi che possano motivare ritenuti, accelerati, ecc. Da molti concerti, al di là delle qualità dei partecipanti, sono uscito molto avvilito, perché sembrava una catena di montaggio: un brano, sotto un altro, poi un altro... tutto con una totale mancanza di rapporti musicali da lasciare allibiti, e magari anche con voci ragguardevoli. Lasciamo stare, ovviamente, i casi di cantanti inascoltabili e pianisti zoppicanti. Non dimentichiamo che il pianista deve "sostenere" il canto, incitarlo nei momenti opportuni, assecondarlo in altri, richiamare temi, ambientazioni, ricordi, clima...; deve essere egli stesso a non "ridursi" a mero accompagnatore, ma suggestionare il cantante a una prestazione condivisa.

martedì, gennaio 18, 2011

Le legature

Tornando rapidamente su quanto scritto, annoto che la maggior parte dei tenori dice "gélida manina, cioè con la é stretta"; alcuni dicono: "cheggelida". Il raddoppio della consonante iniziale è una pratica ammessa anche dalla lingua italiana, ma a patto che ci sia una sillaba atona, cioè priva di accento, prima. A casa, può trasformarsi in "accasa" (Cavalleria rusticana), sempre che non si enfatizzi troppo. Quello degli accenti corretti è sempre stato un capitolo sottovalutato, ma oltre al fatto che comunque è un modo corretto di pronunciare l'italiano (così come è impensabile che un attore non reciti con gli accenti giusti), l'accento corretto migliora anche la posizione e l'intonazione del suono. In questa sede, almeno per ora, non tocchiamo i problemi legati a testi in altre lingue.
Il capitolo successivo riguarda il legato. Non mi riferisco, per ora, al fraseggio, che è capitolo molto più complesso cui giungerò più avanti, e che comunque è somma di diverse componenti, tra le quali appunto il legato.
Il legato è anch'esso, come l'accento, un elemento che può influire positivamente sulla correttezza di emissione. Spezzare una parola in tante sillabe non è solo un delitto verso la recitazione, ma anche un pessimo sistema di canto, perché il fiato non può uscire con la dovuta fluidità. C'è da osservare, inoltre, che un ottimo legato migliora anche la qualità del suono. Ribadisco, e lo farò fino alla consunzione mia, che chi in nome del legato sacrifica la pronuncia è fuori dall'Arte, non sa cosa fa, cosa dice, cosa insegna. Quando si raggiunge la capacità di sostenere adeguatamente la perfetta pronuncia, si accorgerà che il legato diventa altrettanto facile, non essendo altro che la libertà di proiezione del fiato, non ostacolato; quando le singole vocali non si riescono a pronunciare perfettamente significa che il sistema vocale è ancora acerbo. Banalmente occorre osservare in primo luogo le legature espressive poste dal compositore. Sembra dire una banalità persino offensiva, ma voi provate ad ascoltare un'aria qualsiasi del grande repertorio seguendo lo spartito, e guardate in che misura vengono osservate! Ricordo che quando uscì la Boheme diretta da Karajan si gridò al miracolo perché la Harwood, che impersonava Musetta, aveva seguito alla lettera tutte le indicazioni pucciniane. Puccini, come già parecchio Verdi, costellano le partiture di indicazioni, seguirle non è così facile, ma è indispensabile che questo lavoro venga eseguito scrupolosamente, come fa ogni buon musicista. Purtroppo già dall'800 emerse un pessimo concetto di "interpretazione", secondo il quale ognuno doveva fare "ciò che sentiva", il che si traduceva nel cambiare sistematicamente tempi, note, dinamiche, agogiche e ogni tanto pure le parole (oltre a tagli ogni dove).
Legamento e portamento non sono la stessa cosa. Un tempo si faceva abuso di portamenti, oggi si è persino esagerato nell'eliminarli. Il portamento è un legato estremo, che in alcuni momento può essere un buon sistema espressivo. Certo, occorre saperlo fare, come tutto del resto. I punti più difficili ove svolgere il legato sono i salti lunghi, come le ottave. Lì si sentono delle cadute, anche di stile, imbarazzanti. Ecco che le consonanti, di cui al post precedente, diventano indispensabili. Appoggiando convenientemente la consonante di salto, si riuscirà a collegare i due suoni apprezzabilmente, con omogeneità di timbro e senza scalini di registro. Gli allievi sono portati, quando il salto è verso il basso, a "tirare indietro" il suono, mentre l'idea, che poi è la realtà, deve sempre essere quella di emettere fiato, quindi di mandare avanti il suono.

lunedì, gennaio 17, 2011

Le consonanti

Un cenno sulle consonanti. Per alcuni le consonanti non rappresentano alcun problema, ma per molti sì. Spesso si ritiene di non doverle molto pronunciare (anche alcuni docenti la pensano così!), altri ritengono di doverle esagerare. Da un punto di vista tecnico bisogna raccomandare di inserirle nel flusso aereo-vocale in modo che questo non si interrompa. Capita che certe consonanti se non c'è corretta emissione, procurino un colpo secco sulla vocale successiva, e quindi una caduta del suono; altre consonanti, come la R possono "assorbire" energia; ad es. eseguendo TRA, se la R viene troppo marcata, è possibile che la A risulti debole e poco sostenuta, perché la R ha assorbito troppa energia.
Una certa attenzione deve essere posta a gruppi consonantici come GL e SC, che spesso diventano LL e SS, oppure le C che diventano Z.

Occorre fare molta attenzione quando si ascoltano registrazioni di altri cantanti; spesso se ne assorbono più i difetti che i pregi, anche perché i primi sono molto facili da imitare, i secondi decisamente meno. Dunque capita che alcuni cantanti abbiano fatto un uso distorto della pronuncia. Un esempio ricorrente: "la donna è mobbbile... ". Ma anche "mia filllia", sempre nel rigoletto, è un caso che si ripete di continuo. Il problema infatti non è "il" cantante che distorce la pronuncia, ma gli imitatori degli imitatori, che finiscono per dare autenticità a un difetto.

Altro problema legato alle consonanti, fortunatamente oggi in via di estinzione, riguarda la separazione delle consonanti, tipo: "Qua-n-do". Si diceva che in un passato piuttosto remoto attori e cantanti insegnassero a distinguere le consonanti, anche infilando vocali posticce tra diverse consonanti (pa-r-[a]-la), perché, secondo loro, in quel modo in teatro la pronuncia sarebbe stata più comprensibile. Non so quanto ciò sia vero; un tempo sicuramente c'era più interesse verso la perfetta comprensione del testo, oggi molto meno, però frequentando il teatro non mi pare che senza quell'artificio la pronuncia ne subisca un deterioramento.

Studio dell'aria - l'accento

Dopo oltre quattro anni di post di carattere eminentemente tecnico, che reputo il problema n° 1 del canto lirico nel mondo odierno, ritengo sia giunto il momento di introdurre anche gli aspetti, certo non secondari, relativi all'esecuzione. Inizio quindi da oggi una serie di interventi volti a suggerire il corretto approccio allo studio dell'aria e dell'opera.
Dunque, intanto vorrei iniziare da una categorizzazione. Un conto è studiare un'aria fine a sé stessa, come può essere un lied, una canzone, un'aria sacra, una romanza da camera, un conto è studiare un'aria facente parte di un'opera. Mentre, infatti, nel primo caso lo studio può limitarsi all'aria (anche se non è proprio così, ma ne parliamo dopo), nel caso dell'aria d'opera è chiaro che il primo dovere è quello di conoscere l'opera, perché l'aria dovrà comunque rispecchiare la situazione venutasi a creare nel momento in cui l'aria trova posto, da un punto di vista soprattutto psicologico. Se non si conosce l'opera, c'è addirittura il rischio che alcune frasi possano essere travisate o incomprese. Nel caso dell'aria operistica, poi, c'è da dire che l'aspetto scenico, anche nel momento in cui l'aria venisse eseguita in forma concertante, non è da escludere, ma dovrà solo essere contenuta. Un'agitazione, una paura, uno slancio amoroso, ecc., non possono passare inosservate all'uditorio, il cantante non può rimanere imbambolato e immobile, anche se, per contro, i movimenti dovranno essere molto contenuti; se non va bene il "palo piantato in mezzo al palco", non va altrettanto bene il gesticolatore perpetuo.
Se il post potrà risultare utile, e ovviamente tutti potranno, anzi dovranno, contribuire, direi che sarebbe bene fare esempi pratici su arie conosciute, sia di tipo concertistico che operistico.
Ma adesso passo a un primo fondamentale problema nello studio di un'aria.
Il testo. Come dicevo, gli aspetti problematici sono molto più elementari di quanto non si pensi. Anche cantanti cosiddetti professionisti manifestano spesso difetti anche gravi nel rapporto col testo.
Il problema n° 1 (dopo, ovviamente, la comprensibilità, che per qualcuno è addirittura un optional, se non un ostacolo!!!!!!) riguarda gli accenti.
Sugli accenti ci sarebbe già da scrivere un poderoso capitolo. Il primo obiettivo è individuare dove gli accenti NON vanno! Salvo le poche parole che hanno accento finale, la sillaba finale nella stragrande maggioranza delle parole italiane non è accentata, e dunque va smorzata. Qualcuno pensa che sia un'esagerazione la mia, forse, ma voi prendetevi il gusto di ascoltare una decina di Gloria di Vivaldi, e sentite quanti cori, anche diretti da insigni "maestri", dicono: "glorià, glorià". Ma anche nelle arie d'opera e da camera stiamo bene (ad es. nel "lamento di Federico" dell'Arlesiana, quanti dicono: anch'iò vorrei" e subito dopo: "nel sonnò almen"). Dunque, un primo lavoro manuale da fare (ce ne sono diversi), è quello di segnare gli accenti tonici. In italiano quasi nessuna parola viene accentata tonicamente (come accade nel francese, ma anche lì si sta perdendo), dunque, mano al dizionario (che si chiama così, a differenza del vocabolario, perché ha lo scopo di precisare "come si dice", dunque accenti e grafie particolari per indicare il giusto suono di vocali e consonanti). Ma non basta mettere un generico accento. Le E e la O possono avere due tipi di accento, molto importanti e talvolta persino indispensabili (è nota, credo, la differenza tra pèsca, il frutto, e pésca, l'attività sportiva [cosa ci sarà di sportivo...]. E' molto importante, specie per chi ha nel parlato cadenze e usi di derivazione dialettale, imparare, almeno nel canto, a pronunciare le parole col giusto accento. Mi pare che nel corso di arte scenica, in conservatorio, sia prevista un'attività di dizione. Io consiglio tutti coloro che cantano di prendere qualche lezione di dizione (al limite esistono anche corsi on line e in cd), anche se poi occorre fare parecchio esercizio sotto una guida. Quindi se non si ha già una buona pratica di questo tipo, è bene sullo spartito segnare gli accenti giusti di ogni parola.
Ma il testo, prima di essere cantato, va letto, con intenzione, come se si fosse attori, dicitori. Questo sia per impararlo bene (e in questo senso si consiglia anche di imparare a dirlo a memoria - la maggior parte dei cantanti è incapace di dire le parole di un'aria senza la musica), sia per imparare a dire bene gli accenti, sia per capire la struttura fraseologica.
E' evidente, infatti, che le parole non hanno tutte lo stesso peso all'interno di una frase, e occorre individuare dove "punta". Ad es. la frase: "che gelida manina"; ché, gèlida, manìna. Queste tre parole vanno legate, come se fossero una parola sola, senza togliere gli accenti, (gèlida avrà l'accento grave, dunque è una E aperta, o larga), ma l'accento principale andrà sulla I di manìna. Da un inizio leggero, piano, ci sarà un crescendo fino a quella I, dopodiché si dovrà nuovamente decrescere rapidamente, per evitare un accento insulso sul "na" finale, che andrà, però, correttamente sostenuto. A questo punto entra in scena l'altro punto focale, che è la gestione dei fiati. Questo è un problema meno oggettivo di quello degli accenti, perché dipende da molte cose. Certamente la prima cosa è verificare che nessuna parola venga spezzata. Analogamente occorrerebbe evitare di spezzare il senso delle frasi. Diciamo che l'unico dato oggettivo per la presa dei fiati è costituito dalla punteggiatura. Dove ci sono virgole, punti, ecc., si può prendere il fiato. Anzi, diciamo che esiste anche un problema opposto a quello dei fiati sparsi a destra e a manca, che è di coloro che tendono a rubare i fiati in continuazione e a non fare le pause con la giusta durata e a legare sempre e dovunque. Anche questo è un errore (spesso dovuto all'ansia); un eccesso di legato può comunque compromettere la giusta comprensione del brano, e poi è antimusicale e può indurre stanchezza in chi ascolta.
(ovviamente non mi posso soffermare su ciò che penso sia più che ovvio, cioè il rispetto della scrittura musicale: non imparate a cantare dai dischi, guardate attentamente la scrittura, la divisione; quante terzine diventano crome o semicrome! e sopratutto occorre fare attenzione alle differenziazioni tra la parte cantata e quella strumentale; capita che il canto si muova a terzine e l'orchestra o il piano a crome puntate (o viceversa); se è stato scritto è perché l'autore voleva che si generasse quell'effetto! spianare la scrittura è un delitto, molto comune in campo operistico, ohimè). Allora occorre chiarirsi bene le idee sull'arco della frase durante il quale è possibile prendere fiato oppure è inopportuno. Ad es.: che gelida manina se la lasci riscaldar è una frase, dunque è opportuno non prendere fiato, perché risulta più completa e risolta.

giovedì, gennaio 06, 2011

In sintesi...

Una delle qualità più importanti di un vero Maestro è quello di fare sintesi. La fece il grande M° Celibidache, distillando le nozioni dei suoi importanti insegnanti universitari (in primo luogo Thiessen), Furtwaengeler, De Sabata e la filosofia Zen. La fece il nostro M° Antonietti, grazie a 18 anni di varie scuole, quasi tutte mediocri, ma non inutili, le scuole di anatomia e fisiologia vocale e infine il M° Giuseppe Giorgi, che senza essere un grande insegnante, possedeva le qualità che permisero al M° Antonietti di raggiungere il risultato auspicato.
Non mi posso paragonare neanche lontanamente a nessuno dei due, anche perché grazie al secondo citato, ho già raggiunto considerevolmente quell'incredibile risultato, con quella coscienza profonda che mi permette anche di insegnare con invidiabile sicurezza. Ciò che mi preme adesso è tentare di fare sintesi di concetti, in modo da offrire a quanti si affacciano su questo blog di avere sempre meno parole, ma le più efficaci, incisive, illuminanti possibili per orientarsi in questa disciplina.
Indicherò pertanto alcuni punti che reputo basilari e indispensabili, cercando di utilizzare il minor numero di parole possibile.
1) la disciplina del canto si suddivide in circa tre tempi, che richiedono attenzioni, gradualità di impegno e risultati diversi. Nel modo di affrontare la respirazione ogni tempo richiede una "tecnica" diversa, che porterà allo sviluppo necessario ad affontare la fase successiva.
2) il canto è fiato. E' molto difficile riuscire a identificare l'emissione vocale con la fuoriuscita di aria respiratoria, ma è così, e ogni riflessione in tal senso migliorerà la resa vocale.
3) il canto è reso difficile dall'istinto, che andrà aggirato. Il canto è solo potenzialmente in noi e andrà svelato onde creare un nuovo senso, unica possibiltà per vincere l'opposizione istintiva.
4) l'istinto si domerà con il parlato, con il peso, con l'assenza di peso vocale (pressione), con la velocità.
5) il canto non si può insegnare o apprendere da fonti teoriche, parlando o leggendo. Si può apprendere solo grazie a una pratica guidata da un insegnante cosciente e padrone della disciplina che elevi il fiato a perfetto "archetto" dello strumento voce.

lunedì, gennaio 03, 2011

Il fiato sonoro

Tornando su concetti già espressi, vorrei insistere su quello che in fondo resta il principale, e cioè che la voce esemplare è frutto del sospiro. Il fiato "suona", o meglio è in condizione di far suonare la forma anche in assenza di adduzione delle corde vocali. E' poi possibile far sì che il fiato possa creare un suono piccolissimo ma sonoro, evitando totalmente il colpetto di glottide, ovvero realizzandosi come fuori della persona. E' un esercizio utilissimo, molto significativo a livello di apprendimento, perché senza impegnare il fisico, fa capire "in scala" cosa significa emettere un suono senza imbrigliamenti muscolari e istintivi. A questo segue la perfetta dizione, ma sempre proiettata oltre il corpo, come fosse scolpita davanti e sopra di noi. Quando si riesce a realizzare questo compito, si avrà anche cognizione di quanto è impegnativo! Se infatti nei suoni piccoli e centrali tutto sembra di facilità enorme, salendo si incontrerà grande difficoltà a mantenere la pronuncia, anche se si dovrebbe capire, per contro, di quanta libertà si potrà disporre quando verrà meno l'impegno. Infatti la possibilità di parlare cantando su tutta la gamma, darà la possibilità al cantante di esprimere con chiarezza, verità, bellezza e totale immedesimazione nel personaggio, ogni emozione, sentimento, espressione del personaggio e intenzione comunicativa.