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venerdì, luglio 29, 2011

Io... siamo

Già, un plurale majestatis. Torno a parlare e ad approfondire il tema dell'ego, che è fondamentale nell'approccio artistico. Esistono più aspetti legati all'ego, ecco perché ho usato il plurale. Aspetto legato al suono, alla proiezione di sé e alla fruizione artistica nel suo complesso. L'aspetto più negativo nel primo momento, quello dell'educazione del fiato, è il primo, quello relativo al suono: suono potente, suono ricco di squillo ed esteso il più possibile. Sappiamo che la voce è un portato della propria personalità, del proprio intimo; se noi pensiamo in termini narcisistici, il suono sarà lo specchio di questa indole. Questa scuola sa e diffonde la disciplina basata sullo sviluppo del fiato e della voce parlata; una voce che, come hanno detto più volte i grandi del passato, è "piccola", "sottile", "leggera". Tutto il contrario, dunque, di "potente", "grande", "grossa". Quello che può anche essere un risultato, cioè una voce che corre, che riempie ogni spazio, che rapisce l'ascoltatore con la qualità, il fascino e l'intensità, non potrà rivelarsi se ricercata; essa darà i suoi frutti quando tutti gli apparati saranno messi in condizione di dare il meglio, cioè quando non saranno "violentati", strapazzati, sforzati, ecc. Dunque, il primo ego si può sconfiggere o meglio superare, solo se si accetta di produrre suoni non apocalittici, ma giusti, relativi alle nostre possibilità contingenti. Se abbiamo un fiato sviluppato a 50/100, dobbiamo accettare anche un suono 50/100. Se ci mettiamo a spingere, schiacciare, tirare, affondare, può darsi anche che tiriamo fuori 80 e se abbiamo il fisico giusto persino 90, ma non arriveremo mai a 100, e potremmo anche piombare a zero se il nostro corpo e anche il nostro spirito non si trovano nelle condizioni di accedere a quella misura. La strada dell'Arte sarà sempre consona ai nostri mezzi; può darsi che ci si fermi a 50 o a 60, ma è un livello da cui non si torna indietro, e che ha sempre come possibilità di traguardo il 100. Dunque, il primo sacrificio è non chiedere al proprio corpo qualcosa che non può dare; se si accetta il suo limite, lo si imparerà anche a superare.
Il secondo ego riguarda la proiezione di sé: immaginarsi celebri, famosi, perennemente al top, fino al mito. E' l'immagine del narciso che mette sé stesso al centro, e di cui arriva anche a innamorarsi. E' fatale, ma anche virtuale, effimera, superficiale. E' una strada che è andata allargandosi a causa delle forme sempre più diffuse di spettacolo. Sono state fatte anche inchieste: cosa faresti per apparire in tv? Questo ha poi generato invidie, violenze, gelosie che sfociano in autentici delitti, che ci paiono assurdi, quando li sentiamo raccontare, ma che non sono affatto assurdi quando realizziamo che ci sono persone che non hanno altra ragione di vita se non il proiettarsi in un mondo di pura immagine di sé. Persone che non danno alcun valore alla propria vita, che muoiono prima dei 30 anni, per tante cause possibili: salute, suicidio, omicidio, incidente... sono cause e metodi di poca importanza; il coronamento del sogno di raggiungere la fama, ha di fatto rese vane tutte le altre ragioni di vita; hanno "colto l'attimo", e sembrano anche consapevoli che la morte è la sublimazione di quel gesto che non può spingersi oltre, rischia di diventare routine, e dunque la perpetuazione storica non potrà avvenire continuando ad apparire, ma sparendo! Questa è la più forte contrapposizione tra Arte e spettacolo, e quello che può spaventare, e ingannare, è che questa forza può essere da molti scambiata per Arte. Se il proprio ego è incamminato in questa direzione, non sarà facile accettare di cambiarla; è un dialogo interiore e occorre una disciplina feroce, dolorosa, per uscirne, e non è detto che ci si riesca. In questo senso droga psicologica (ego) e fisica è abbastanza logico che si associno.
Terzo piano dell'ego è quello artistico complessivo. Può coesistere o meno con i primi due descritti, ma può anche avere un suo ambito specifico. Si avverte a livello esecutivo, quando chi canta, o suona ecc., non esprime altro che sé stesso. Per quanti sforzi faccia per immedesimare, impersonare, trascendere un certo ambito superficiale, in realtà continua a recitare sé stesso. E' la forma di ego più comune e più facilmente smascherabile; anche istintivamente molti cantanti o attori hanno ricevuto critiche anche forti per non essere riusciti a passare a ruoli che esprimessero condizioni diverse da quelle tipiche del personaggio.
In questo senso, anche il cantante di grande e importante carriera può non dare reali ed efficaci insegnamenti neanche su un piano scenico e interpretativo, perché non sa comunicare realmente gli affetti, i sentimenti e le emozioni del personaggio, continuerà ad affermare i propri, dunque chi va a cercare la strada del perfezionamento da costoro, rischia di diventare un clone, specie se è della stessa corda vocale. Questa è la dimensione da cui ci si può difendere più facilmente, se si ha una personalità sufficientemente forte e autonoma, e lo studio, l'approfondimento, è la strada più semplice da usare per proteggersi.
Quanto ho scritto sia chiaro che rientra a pieno titolo nel discorso sulla libertà che sto portando avanti. Alimentare il proprio ego è una schiavitù, una resa alle forze più basse e materiali della nostra esistenza. Così come i cibi che ci piacciono di più spesso sono i più dannosi, anche le idee più piacevoli sono quelle che ci fanno più male.

martedì, luglio 26, 2011

Liberté, liberté...

Sono le parole pronunciate da Guillaume Tell in quello che forse è il più meraviglioso ed esaltante finale d'opera, quello, ovviamente, dell'omonima opera musicata dal genio pesarese Gioachino Rossini.
In cosa può consistere la libertà di un cantante? Come per qualunque esecutore, egli deve aver superato la "schiavitù" del proprio corpo, potendo fare ciò che la mente chiede. In questo assunto ci sono anche delle limitazioni. Come ripeto, il concetto "far ciò che si vuole" è assurdo, oltre che impossibile. Si può fare ciò che si vuole nel quadro di un'esecuzione artistica. Allora, ad esempio, avere una estensione straordinaria non è di per sé il segnale di una voce esemplare. Può essere un fatto rilevante, notevole, impressionante, ma basta, non c'entra direttamente con l'Arte canora o vocale; in questo siamo al livello 1: percezione. Una voce umana mediamente può arrivare ad eseguire in modo perfetto due ottave, nota più nota meno, e gli autori classici si sono conformati a questa caratteristica. Quei ragazzi che vanno in cerca della scuola che permetta di avere quattro o cinque ottave, non sono sulla strada dell'Arte ma dello spettacolo, del "circo"; niente di male, basta capirsi. Rendere perfette queste due ottave è già di per sé un traguardo che rasenta l'impossibile, e non destinato a chiunque, anche pieno di volontà e determinazione. Ci vuole un "sacro fuoco" interiore, oltre che caratteristiche fisiche, temperamentali, psicologiche certamente non comuni. Qualcuno potrebbe chiedere legittimamente come mai impieghiamo tanto tempo, tanto spazio, parole, energie, per qualcosa che forse nessuno dei nostri lettori e allievi sarà mai in grado di raggiungere. Ma questo è un "dovere" imposto dalla nostra stessa condizione. Se c'è un giovane che ha in sé quella scintilla, noi dobbiamo far di tutto perché non vada persa. Ma c'è di più. Riteniamo che anche senza arrivare ad avere cantanti perfetti, il nostro compito di cercare di migliorare il livello di quest'Arte è comunque importante, e cerchiamo di lasciar tracce utili affinché i falsi insegnanti, i ciarlatani, i disonesti, i presuntuosi, possano essere riconosciuti e possano cessare di far danni. E' un obiettivo anch'esso impossibile, lo so, ma almeno spero che qualcuno, caduto in loro mani, possa salvarsi.
Dunque, un canto libero è un canto che permette all'esecutore di cantare con "verità", pronunciare le parole affinché il loro significato (e non il significante, cioè il suono "anonimo") possa raggiungere l'ascoltatore e muovere la sua coscienza, vale a dire indurre in lui quei sentimenti e quei moti dell'anima che una parola, o frase, vera può indurre. Quindi anche nell'insegnamento si seguono due strade: da un lato la "liberazione" del suono vocale dalle maglie dell'istinto, che non vuole lasciarlo andare, e quindi tutto il lavoro immenso di educazione del fiato sempre con l'orecchio attento a ciò che la mente "animale" crea in ogni momento per impedire questo processo, dall'altro la guida verso il vero. Parola o vocalizzo che sia, l'insegnante deve sempre insistere affinché ogni cosa pronunciata appartenga al vero. Esistono centinaia di sfumature di ogni vocale, ma, ad es., di vera O ce n'è una, e quella bisogna arrivare a pronunciare, con convinzione e fermezza. Potranno esserci momenti in cui si chiedono cose diverse, e il Maestro deve sempre spiegarne le motivazioni importanti che stanno alla base di questa scelta, che sarà e dovrà sempre essere transitoria. Nessun cantante artista può modificare la pronuncia delle parole; chi non sa o pensa che non sia importante pronunciare in modo perfetto il testo cantato, è lontano anni luce da qualunque conquista artistica. Quindi, per concludere, la prima e fondamentale conquista di libertà di un cantante, deve essere quella di poter pronunciare perfettamente entro la gamma di note che gli apparati vocali umani consentono.

lunedì, luglio 25, 2011

"... e tu dunque non apri più bocca..."

Stavo osservando il video di un cantante, che forse inserirò prossimamente, dove si nota chiaramente, in alcuni punti, la sua volontà di non aprire la bocca. E' vero che la maturità vocale dovrebbe portare a un canto mordido, a fior di labbro, che non necessita di particolare apertura orale se non nei punti di grande impegno fonico e in particolare sugli acuti, ma questo, per l'appunto, è sempre da considerare un traguardo, frutto di uno studio graduale, che deve necessariamente passare per un utilizzo anche notevole dell'apertura della bocca. Il fiato deve essere educato a "riempire" le forme, dunque se la bocca non si apre mai, il fiato non imparerà ad alimentare quella forma, e rimarrà per sempre una carenza. Ma, nella fattispecie, si nota che in diversi punti la volontà di non aprire la bocca porta a un difetto evidente, e cioè che il suono tende ad appoggiarsi sulla mandibola. Se infatti la mancata ampiezza non è "naturale", cioè non è la coerente risposta a una necessità del fiato/suono su determinate altezze o intensità o colori, esso andrà a sfogare la propria energia su parti muscolari o ossee. Ciò che ne scaturirà sarà ovviamente un suono deforme, difettoso, faticoso.

venerdì, luglio 22, 2011

La libertà - 2

Il discorso della libertà, come abbiamo accennato, si può giocare su due livelli: uno fisico-tecnico e uno percettivo. Per la precisione anche questi non si possono definire livelli distinti, perché uno richiama l'altro, ma per il momento gestiamoli separatamente. Per quanto riguarda il canto e il suo insegnamento, naturalmente, il primo e lungo problema da affrontare è il primo, e qui già sappiamo che il livello della coscienza passa attraverso una disciplina, che consenta in primo luogo di superare le barriere istintive, grazie alla quale si può omogeneizzare, ovvero riportare a quella potenziale unità, la gamma vocale, eliminando le "fratture" dei registri e tutti quegli scalini e difficoltà che rendono l'esecuzione così difficoltosa, muscolare, fibrosa, impropria, ecc. Di questo parliamo ormai da anni su questo blog e continueremo a farlo. Abbiamo già anche scritto che il principale organo di percezione dei suoni, l'orecchio, non è immune dai limiti di tutto il resto del corpo. Chi ascolta crede che basti ascoltare per emettere un giudizio, e ci riprende affermando "le orecchie le abbiamo tutti" o, peggio: "le orecchie le ho anch'io". Grazie, ma anche tu hai le mani, tanto per dire, ma non sei capace di suonare neanche "tanti auguri", come si spiega? Secondo loro la spiegazione sta nel fatto che le mani bisogna muoverle, e la complessa articolazione richiede un lungo studio, mentre l'orecchio è fermo e basta la sollecitazione sonora perché adempia alla propria funzione, in lui come in tutti gli altri. Ma sappiamo che non è così; anche la vista funziona in modo simile, ma è noto che alcune persone vedono ciò che agli altri sembra invisibile. Non è questione di vista migliore, cioè di diottrie, ma di capacità di osservare, e questo è il compito della coscienza. Arturo B. Michelangeli aveva (sviluppato) un udito straordinario, lo stesso Sergiu Celibidache (che stava pure bene) ammirava il pianista bresciano per la sottigliezza del suo udito, che gli permetteva di sentire armonici molto acuti; quello stesso udito gli permetteva di eseguire poi quella infinità di colori per cui è giustamente noto, ma gli rendeva infernale l'esecuzione quando per motivi ambientali o climatici lo strumento non rispondeva a quel livello, e allora annullava le performances. Perché per qualcuno un suono è infinitesimamente calante o crescente e per molti altri è valido? Perché per qualcuno è ingolato, indietro, nasale, rozzo, schiacciato, ecc. ecc. e per molti altri no? Non hanno tutti le orecchie? Sì, esternamente, ma ciò che coglie, filtra come un rene e riporta all'attenzione è sempre la coscienza, per cui noi dobbiamo dire che ciò che sviluppiamo nel corso di una seria e approfondita disciplina non è solo e tanto il fisico, ma la coscienza. La coscienza che ci permette di cogliere che un suono è difettoso, ci aiuterà a rendere il nostro suono corretto. Ma passiamo oltre.
E' una frase piuttosto ricorrente dei musicisti dire: "noi facciamo ciò che l'autore ha scritto"; "ciò che ci guida nell'esecuzione è la partitura"; "nella partitura c'è tutto"... e via dicendo. Quanto c'è di vero in questo? Poco, molto poco. E' vero che per eseguire un brano musicale è necessaria la partitura e un suo studio approfondito. Purtroppo c'è da dire che molti cantanti imparano i brani ascoltando registrazioni, e non c'è niente di peggio, da un punto di vista musicale. Spesso sbagliano le parole, perché non le hanno percepite perfettamente e non approfondiscono, e talvolta non si rendono conto di dire della assurdità (il famoso: "la tua méta è Giaveno" anziché "la tua méta già vedo" [Giaveno è un ridente paesino del torinese ndr]; è vero che spesso i libretti sono assurdi e ci sono termini desueti, però sarebbe meglio prima verificare...) e si abituano a fare errori ritmici e persino melodici se la fonte non è precisa. Lo studio dello spartito è indispensabile, ed è indispensabile, nel canto, che venga svolto nel rapporto tra parola e musica, come credo di aver segnalato opportunamente nella analisi dell'aria "parmi veder le lagrime" dal Rigoletto di Verdi. Ma questo, ricordiamo, è solo e sempre una fase iniziale, superficiale, dello studio. Il problema essenziale è far sì che il brano diventi "uno", cioè non sia una somma di battute, di frasi o addirittura di note. Chi ascolta "che gelida manina" aspettando il do può essere in errore, ma se chi esegue quel brano riesce a rapire l'ascoltatore fin dalle prime note e a portarlo a un livello di coinvolgimento più profondo, gli farà persino dimenticare che esiste quella nota, perché assaporerà, VIVRA' (ecco la parola giusta) quel brano in tutta la sua interezza, in tutta la sua sostanza. Sì, perché noi dobbiamo aver sempre presente che a livello artistico esistono dei livelli di percezione; il primo è il livello del significante, il suono, finito in sé stesso, e che purtroppo è quello a cui si fermano in tanti. Si può salire al livello estetico, un "bel" suono; siamo un po' più in alto, ma ancora molto in basso. La bellezza cattura l'attenzione. Non è vero che un suono bello è un suono giusto e men che meno perfetto, però è vero il contrario, cioè che un suono giusto è un suono bello, quindi la ricerca della bellezza è un cammino corretto. Salendo ancora un po' abbiamo il suono che "emoziona", il suono che "muove" o "smuove" qualcosa della nostra anima. E' già un livello interessante, ma spesso anch'esso superficiale. L'emotività va studiata, capita. Molti lo dicono perché è una frase facile, scontata, ma spesso non provano un bel niente, realmente. Se è vero, la si può descrivere. Un'emozione non è una sensazione generica, ma ci porta a uno stato che può essere vissuto: è paura? è gioia? è malinconia? tristezza? rabbia? Se riusciamo a contemplare questo stimolo interiore, siamo già a un livello molto alto. Ovviamente lo stato successivo sarà quello del Vero. Quanto tempo e quanta energia infondo nell'esortare gli allievi a "dire" con verità ciò che cantano. Basta un monosillabo: sì. Passo spesso parte del tempo della lezione a chiedere agli allievi di dire: "Sì" non "cantando" (inteso negativamente), non dicendolo neutralmente, ma dicendolo come una risposta o un'esortazione. "Ti piace"? spesso dico? "rispondi con sincerità: sì!" E' enormemente diverso emettere un sì realmente e sinceramente espressi con la volontà di affermare qualcosa dal cantarlo o dirlo come fosse un esercizio asettico. E questo vale per tutto. Nella nostra scuola si esercita tantissimo il parlato, ma ripetere una frase come una filastrocca senza senso, serve tanto quanto un qualunque esercizio meccanico fine a sé stesso, quasi inutile. Perché alcuni cantanti riescono a fare progressi forti? Perché sono talmente convinti ed entusiasti di ciò che fanno, che ci mettono un interesse strordinario in ogni minimo esercizio; sono quasi fanatici, non mollano un attimo. Ma io ricordo bene, pur non ritenendomi fanatico, che quando iniziai a (ri-) studiare canto col M° Antonietti, avevo talmente provato tangibilmente l'efficacia di questa scuola, che ogni volta che cantavo (e cantavo tutti i giorni, perché ero nel coro del Regio di Torino) analizzavo ogni cosa che dicevo mettendoci tutto l'impegno necessario sia tecnicamente, cioè mettendo in moto quei muscoli, labiali e facciali, che mi permettevano di pronunciare con la massima precisione possibile, sia mentale per controllare che ciò che dicevo avesse una "verità", un senso. Ed ecco spuntare anche un'altra paroletta magica: senso! Per molti questo termine significa: sensato, che ha un significato e una logica. Ma non è solo questo: senso, significa: direzione. Allora provate a rivedere le frasi in cui appare il termine "senso" significando anche "direzione", e scoprirete altri livelli di comprensione. Mi rifermo per non esagerare, ma riprenderò. Credo che ci siano qui già tanti input su cui riflettere a lungo.

giovedì, luglio 21, 2011

Cos'è la libertà

A proposito di libertà in musica, e quindi nel canto, molti ritengono che significhi semplicemente: far ciò che si vuole. Ebbene no, non è questo, e manco gli si avvicina. Pensando di fare ciò che si vuole in realtà non si riesce a fare niente, perché manca qualunque mezzo o strumento per realizzarlo. Accontentarsi ovviamente non può esaudire alcun sogno. Mi spiego: se prendo un bambino e lo metto davanti a un pianoforte, lui comincerà a pestare a caso i tasti. Qualcuno potrebbe anche pensare che fa ciò che vuole, il che sotto un certo punto di vista è vero, ma è incapace di fare qualunque cosa desideri; se ad es. volesse riprodurre un motivo già sentito, dovrebbe arrendersi all'evidenza di non riuscire, o provarci, e rendersi quindi conto che non è affatto libero, ma impedito, quindi prigioniero di ciò che lo lega e non gli permette di fare ciò che vuole veramente. Se questo pensiero può essere abbastanza semplice e condiviso a livello tecnico, non lo è per niente a livello "interpretativo". Quasi tutti sono convinti che bisogna essere ligi alla pagina, ma ci debba essere un margine di interpretazione personale. Questo margine, secondo molti, consapevolmente o meno, ha un lasco di tolleranza molto grande. Ricordo un giorno in cui stavo dirigendo un brano e insistevo affinché una sovrapposizione di terzine e quartine fosse il più preciso e quindi evidente possibile, e uno strumentista, anche molto "navigato" mi riprese dicendo: "ma così uccidi l'interpretazione". Secondo una vecchia concezione, l'interpretazione era "non fare" esattamente ciò che c'era scritto, ma dargli quel tanto di imprecisione che permettesse di esprimere in questo modo i 'tuoi' sentimenti. Ovviamente è un punto di vista del tutto erroneo e da rifuggire, ma direi oggi pressoché abbandonato per lo meno a un livello professionale o semi professionale. Ma, a questo stesso livello, permarrebbe comunque ancora un largo spazio dove il musicista esecutore dà il proprio contributo soggettivo. E l'opinione pubblica avalla questo meccanismo ritenendo che se non fosse così la musica sarebbe noiosa e tutta uguale. Niente di più falso e inesatto. Il brutto è che i musicisti, quelli "famosi", importanti, non sanno o fanno finta di non sapere che le cose non stanno in questo modo. Però: ignorante il pubblico, ignorante, o finto-ignorante, il musicista, si stabilisce una sorta di "patto scellerato", per cui va bene così; a goderne i frutti, ovviamente sono le case discografiche. Ma a farne le spese sono i veri musisisti, quelli che con gravi sacrifici hanno realmente percorso la strada della Verità, e che andando in controtendenza si ritrovano spesso derisi, vilipesi e messi in minoranza. Ma lasciamo stare questo discorso, magari lo riprendiamo meglio in seguito. Come stanno le cose? Le cose stanno che quel modo di sentire e gestire la musica è del tutto superficiale. Ciò significa che deve subentrare un altro livello, più profondo, quello della coscienza. Appena si accenna a questo, subito spavento e presa di distanza, come se si fosse detto: guardate che per ascoltare la musica ci vogliono due lauree e tre master! No, per niente, quella che ci vuole è solo un po' di disposizione, di buona volontà. Ma se si comprenderà cos'è la libertà, per molti si scatenerà la voglia di andare avanti e sapere tutto. Ora mi fermo, nel prossimo post vedrò di dare qualche delucidazione per lo meno legata al canto.

martedì, luglio 19, 2011

Tradizione e ascolto

Mi capita sovente di sentir dire: "eh, quel certo cantante ha inciso la tal opera, o la tal romanza, ma non è per lui". L'ho detto infinite volte anche io. Domanda: da dove deriva tale certezza? In alta percentuale da questioni relative alla tradizione, la quale poi è andata mutando e modificandosi nel tempo. Prendiamo ad esempio Otello di Verdi. Il ruolo fu creato da Francesco Tamagno, cantante arcinoto per lo squillo degli acuti, e l'estensione non indifferente, visto che aveva in repertorio anche Guglielmo Tell. E' vero che Verdi non rimase troppo soddisfatto della prestazione, ma a causa del fatto che Tamagno era piuttosto "tagliato con l'accetta" e non dava sufficiente espressività a molte frasi d'amore, e rifuggiva un po' i piani e pianissimi, di cui Verdi cosparse la partitura. Alcuni anni dopo la prima rappresentazione, un altro tenore, Giovan Battista De Negri, portò al successo l'opera, dandone una versione più drammatica e centrale, cioè escludendo un po' l'aspetto eroico che ne aveva dato Tamagno. Da allora, e per parecchi decenni, quest'opera visse la propria storia su due fronti: quella eroica (Martinelli, Merli, Pertile, Lauri Volpi) e quella più drammatica e baritonaleggiante (Vinay, Vickers, Del Monaco, Cura). In tempi recenti, il ruolo è stato ripetutamente visitato da Domingo, che in prima battuta fu contestato, perché se pur dotato di timbro caldo, non possiede l'accento e l'intensità realmente drammatica di Vickers e Del Monaco, e, solo isolatamente, da Pavarotti. Quest'ultimo suscitò ancor più proteste di Domingo, perché, secondo i detrattori, non possedeva nessuna caratteristica utile al personaggio. Inaspettatamente, uno dei più feroci critici operistici, Rodolfo Celletti, che non aveva certo lesinato aspre critiche al modenese anche in gioventù, ora avallava la sua performance otelliana. Il motivo, secondo lui, era che Pavarotti rientrava nel filone eroico. Personalmente non condivido, perché Pavarotti, pur essendo contraltino come Lauri Volpi, non possedeva certo lo squillo fulminante, ma diciamo neanche la personalità del prorompente cantante di Lanuvio. Sappiamo quanto fosse appagante la Turandot del più anziano, quanto fosse piacevole, ma limitata poi in teatro, quella del più giovane. Ma usciamo da questo ambito particolare, che è un esempio. Noi dobbiamo imparare ad ascoltare e a superare le gabbie della tradizione. Quando mi si dice: Ma Schipa ha inciso l'aria della Tosca o dello Chénier, ma non è per lui... D'accordo, può darsi, ma... ascoltiamo. Non dico solo Schipa, dico anche gli altri. Non lasciamoci condizionare sempre dall'opinione degli altri, facciamoci le nostre idee, basate su convinzioni non superficiali, anche perché solo così possiamo sostenerle e prenderci responsabilità su quello che diciamo.

venerdì, luglio 15, 2011

4000 visite!

Dal 7 aprile 2010, quindi poco più di anno (464 giorni, esattamente) questo blog è stato visitato 4000 volte. Un grazie di vero cuore a tutti coloro che più o meno abitualmente lo leggono; spero di aver contribuito con questi miei commenti a migliorare il rapporto di qualcuno di voi col canto. Forse avrò "incasinato" un po' i rapporti con altri insegnanti, ma questo è il prezzo (uno dei prezzi). L'unica cosa che vorrei, prossimamente, è qualche commento, qualche domanda in più... a volte mi sento un po' solo, ad onta delle 4000 visite! Al prossimo traguardo!

mercoledì, luglio 13, 2011

Canta che ti passa

Le persone che hanno qualche decennio sulle spalle come me o più di me, ricorderanno che andando in giro e passando vicino a qualche cantiere di casa in costruzione, era più che normale sentire uno o più muratori che cantavano. Sempre. E in genere cantavano pure bene! Ma non c'erano solo loro. I postini giravano a piedi o in bicicletta ed erano abbastanza soliti canticchiare. Non parliamo poi dei garzoni dei lattai o dei panettieri. C'era una pubblicità in cui Ninetto Davoli girava in bicicletta alle prime ore del mattino, garzone appunto, cantando a squarciagola. Ma poi spazzini, venditori ambulanti... Mio padre si rammenta nostalgicamente di alcuni venditori ambulanti che a Firenze al mattino presto ripetevano alcuni slogan con voce chiara e intonata: "io ce l'hooooo, l'insalatina di campooooo"... o frasi analoghe (lui me le ricanta spesso!!). Oggi le nostre strade, i nostri cantieri, tacciono. In giro ben poca gente canta. Si vergogna, chi lo sa. O forse ci sono troppi rumori. Fatto sta che questa carenza è il segnale di un malessere generale, e che colpisce soprattutto i giovani (erano perlopiù giovani i garzoni e i manovali), una mancanza di rilassatezza, di disinvoltura, di spontaneità che non può non preoccuparci. E il mondo del canto non è avulso da questa situazione, perché se il canto non è il frutto di un piacere spontaneo, non potrà essere facile, divertente, piacevole, naturale.


martedì, luglio 12, 2011

La linea oscura

E' assai diffusa la credenza che un suono vocale, per essere "lirico" debba essere oscuro. Questo riguarda tutte le voci con esclusione (ma talvolta anche sottile disprezzo) per i tenori leggeri e (senza disprezzo) i soprani coloratura. Per una fetta non esigua di melomani non esiste baritono, basso, mezzosoprano o soprano e tenore(escluso quanto detto sopra) che abbia dignità di cantore operistico se non esibisce un bel colore scuro, che nell'immaginario di costoro è anche simbolo, per quanto riguarda gli uomini, di maschilità. Ma questo è proprio di un'estetica recente, perché, come sappiamo, prima della guerra, e ancor più se andiamo indietro, tantissimi tenori, baritoni, bassi, soprani e mezzosoprani cantavano tutto il repertorio adatto ai loro mezzi anche con colori chiari e chiarissimi. La colpa è sempre, al primo posto, del disco, che ha rovinato la Musica in tutte le sue accezioni, e nella fattispecie il canto. Il primo a rovinare tutto, spiace dirlo, anche se non possiamo fargliene veramente una colpa, è stato Caruso, che con una voce da tenore di grazia in virtù di una voce fonogenica, dovette al disco una popolarità in ogni tipo di repertorio, fino al drammatico, che in teatro non poteva affrontare. Ma, in linea di principio, fino a poco tempo fa ogni cantante la propria posizione se la faceva nei teatri, di provincia, prima, e in quelli importanti poi. Il disco era una "memoria", un po' come una foto ricordo. Nel dopoguerra il disco è andato assumendo sempre più importanza, e stiamo diventando tutti sordi; non in senso di ipoacusia (anche se...) ma di capacità di discernere tutti gli aspetti legati alla produzione e alla fruizione del suono e alle relazioni che si instaurano in questo rapporto. In altre parole, a proposito di voci, non si riesce più a capire quando una voce ha le caratteristiche per cantare certi ruoli o altri; la voce scura, anche se carente sotto altri punti di vista, è considerata drammatica, e quindi degna di cantare tutti i ruoli più importanti (!!!), mentre una voce chiara no. [Ricordo bene che alla fine degli anni 70 il debutto di Domingo alla Scala in Otello fu accompagnato da moltissime polemiche, perché nonostante il colore oscuro, era considerato, a ragione, un tenore lirico, non adatto quindi a quel ruolo (a torto)]. E cosa portò Toscanini (tanto per citare un verdiano doc) ad affidare molti ruoli fondamentali come Renato del Ballo in Maschera, Amonasro dell'Aida e Jago dell'Otello a una voce chiara come quella di Giuseppe Valdengo (che peraltro quei ruoli, insieme a molti altri li affrontò spesso e volentieri in un teatro come il Metropolitan)? Ma prima di lui Mariano Stabile, e prima ancora Antonio Cotogni (uno dei preferiti (ops) di Verdi medesimo in persona!! E come faceva Lauri Volpi, che però gode ancora di larga fama, ad affrontare con la sua voce chiarissima Otello, Pagliacci, Turandot...? Che forse aveva l'accento giusto? Che forse aveva la voce che correva e aveva i mezzi per sostenere il fraseggio adeguato? Lo stesso vale per la Cigna o la Stignani. Voci torrenziali in teatro, ma che il disco ci riporta chiare ed espressive, non certo pesanti e tonanti come una Dimitrova o una Marton. Ma la domanda, già più volte posta è: si potrà tornare a un gusto più corretto, più consono alla Verità artistica? Per me la risposta è no, ma auspico sempre che qualche cantante dotato da un lato del giusto talento, e dall'altro di una grande scuola, possa costituire l'eccezione. Ma il primo problema è trovare il cantante che non parta già da sé con l'idea che il suono "buono" debba per forza essere quello scuro.

sabato, luglio 09, 2011

Stadivari veri e... umani

Poniamoci una domanda: come mai parecchi secoli fa alcuni artisti (più che artigiani) liutai erano in grado di costruire strumenti, come violini, di cui non è dato conoscere ancor oggi il segreto del loro strepitoso valore sonoro? Oggi ci sono strumenti di indagine meravigliosi; siamo in grado di eplorare ogni più piccolo anfratto con telecamere e con filtri di ogni tipo; siamo in grado di analizzare persino il DNA, figuriamoci le sostanze chimiche con cui si compongono vernici e materiali utilizzati. Eppure... eppure... oggi nessuno è in grado di ricostruire uno Stradivari (o altri più o meno celebri) con la stessa abilità. Il discorso potrebbe estendersi anche a molte altre sfere dell'ingegno umano, a cominciare dai Dolmen, alle Piramidi, ecc. Allora dobbiamo convenire che se da un lato la scienza ha consentito di compiere un'evoluzione utile a tutta l'umanità, con scoperte e invenzioni che hanno permesso all'uomo di vivere meglio e più a lungo, di debellare tantissime malattie, di avere un tenore di vita più piacevole, dall'altro è stato minato quello dell'ingegno, dell'Arte, dell'intuizione, della gnoseologia. Per quanto vogliano farci credere, oggi il livello del canto è assai più basso di quello di alcuni decenni fa. Non voglio far riferimento a 2 o 300 anni, perché non c'eravamo e diventa troppo fumoso parlare riferendosi a scritti dell'epoca. Ma di cinquanta o settant'anni fa non solo esiste una documentazione assai ampia di reperti sonori anche di una certa qualità, ma ci sono ancora le persone che hanno visto e sentito. Oggi i cantanti declinano dopo 10 anni, se va bene, e hanno mille riguardi su come dove, quanto, quando...cantare. Un tempo si cantava anche tutti i giorni opere tremende; e spesso finita l'opera cantavano canzoni con l'accompagnamento del pianoforte. E, per l'appunto, la scienza medica si è evoluta enormemente, e pretende di saper tutto sulla voce. Invece non sa un bel niente, ovvero, non sa nulla su ciò che è l'Arte del canto, come non può saper nulla sulla liuteria e altri campi dove la scienza indaga, ma dove solo la genialità umana, proiettata oltre l'intenzione, talvolta può accedere.

martedì, luglio 05, 2011

Lo strumento variabile

Ribadisco un aspetto del canto umano che forse ai più sfugge, pur essendo evidentissimo. Se prendiamo un clarinetto, osserviamo che la sua ancia durante un'esecuzione rimane sempre la stessa, è invariabile; analogamente il discorso si può fare per tutti gli strumenti a fiato, che abbiano bocchini o ance, semplici o doppie; e ancora analogamente il concetto vale per gli strumenti a corde, dove la lunghezza e lo spessore sono sempre gli stessi, e infine per le casse armoniche di tutti gli strumenti, che sono perlopiù invariabili, o, nei casi più complessi, variabili ma per "scaglioni"; gli strumenti a corde posseggono più corde di vario spessore, ma non ci sono vie di mezzo, o si sta su una corda o si passa a una inferiore o superiore. Il pianoforte possiede una corda per ogni nota, ma la cassa armonica è fissa, così come non posso cambiare il colore della nota, perché avrei bisogno di caratteristiche diverse della corda che non sono possibili. Lo stesso vale per l'arpa. L'organo possiede più canne per ogni nota, ma ha limiti enormi sul piano dinamico e del legato (anche il pianoforte) e mancano possibilità di variazioni di intonazione. La prerogativa della voce umana, oltre a quella della parola di cui ho già a lungo parlato, rispetto a qualunque altro strumento, consiste nella sua enorme capacità e possibilità di variazioni rispetto a tutti i parametri sonori. Le corde vocali umane non sono "fisse", cioè non hanno spessore e lunghezza fisse, ma variabili, e questo permette la realizzazione di ogni sfumatura di intonazione, colore, intensità, volume. Anche la parte più importante della cassa armonica, lo spazio oro-faringeo, è variabile, e questo consente ulteriori variazioni di colore, ma questa elasticità, mobilità e motilità è in diretto rapporto con le variazioni di corda, che comportano anche continui cambiamenti nel flusso aereo, sia in quantità che in intensità. Da qui si evince che la complessità dello strumento voce è del tutto incontrollabile volontariamente dall'uomo, ovverosia è controllabile nella misura in cui noi lo educhiamo a rispondere ai desideri della nostra mente. Per essere più chiari: noi dobbiamo creare un nuovo istinto (o meglio adattare quello esistente) che permetta ai tre apparati di cui si compone lo strumento vocale (alimentazione-produzione-amplifico-articolazione) di adattarsi di continuo alle esigenze della mente. Educare non ha niente a che vedere con un controllo diretto e volontario sulla voce o sugli apparati produttori; pensare di adattare volontariamente e direttamente la gola, il fiato, la bocca o qualunque altra cosa al suono che vogliamo emettere, è folle, assurdo, velleitario. Ciò che possiamo fare però è creare gradualmente uno sviluppo e un funzionamento automatico dei tre apparati tra di loro in grado di adattarsi alle nostre esigenze, laddove però, ovviamente, le esigenze non superino le caratteristiche dello strumento stesso; sarebbe sciocco pensare che un tenore possa creare le condizioni per cantare da soprano o da basso; per quanto variabile il nostro corpo ha dei limiti (anch'essi differenti da persona a persona) e l'Arte, se da un lato consiste nel superamento di limiti imposti dalla nostra "animalità", dall'altro non può andare oltre... il "non oltre", perché richiederebbe una disumanizzazione, impossibile da ottenere per varie ragioni, alcune fisiche, quindi evidenti, altre filosofiche.

sabato, luglio 02, 2011

"Gira la voce, gira, gira..."

Mi piace mettere titoli che, puri o modificati, risultino citazioni di testi celebri o operistici (questo spero l'abbiate riconosciuto...), perché in questo modo sono facilmente memorizzabili; mi capita abbastanza spesso, durante le lezioni, di citarli per sottolineare un errore o un buon risultato.
E' abbastanza frequente sentir dire: voce che gira o voce girata, in contrapposizione, di solito, a voce "fissa". Le due cose sembrerebbero poco attinenti, ma un fondo di verità c'è; il palato nella sua struttura longitudinale compie un arco, che termina, sopra i denti superiori, con una curva piuttosto brusca. Quello, come ho detto e scritto decine di volte, è il nostro "ponticello", il punto da cui, convergendo il fiato sonoro, si diparte la diffusione che permette allo strumento amplificante osseo e cavernoso, di arricchire il suono fondamentale. Quando il suono, per varie ragioni legate soprattutto all'appoggio, non arriva fino a quel punto, ma batte in zone più arretrate del palato, avrà un tipo di sonorità meno vivace, più fissa, e chi ascolta avrà anche questa sensazione di suono più "piantato", rigido e piatto, mentre il suono che può raggiungere il palato alveolare risulterà più raccolto, più "girato", per l'appunto, perché effettivamente possiamo dire che un percorso semicircolare effettivamente si compia. Come per tante altre sensazioni, bisogna dire che anche questa non va mai cercata, essendo frutto di un lavoro alle spalle che porterà a quel risultato; cercarlo significherà precluderne la conquista.