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venerdì, settembre 30, 2011

Del calibro

Un termine che il M° usava frequentemente a lezione, anche se è poco usato negli scritti, è quello di "calibro" del suono. Secondo me è un esercizio mentale e fisico molto efficace quello grazie al quale riusciamo a uscire dallo stereotipo del suono "lirico" grosso, scuro, super appoggiato e gonfio (e tronfio). Non voglio nemmeno escludere dalle possibilità finali quella di ottenere suoni molto sonori, ricchi, scuri e squillanti, intendo dire che quei suoni non possono e non devono essere ricercati, ma ottenuti grazie ad un paziente lavoro di sviluppo. Il primo e più grave errore risiede appunto nel calibro, ovverosia nel ricercare immediatamente, o comunque il prima possibile, suoni "grandi", "grossi", ovvero di ampio calibro. Cercare un grande calibro, a meno di essere dei "superdotati", ed è ovviamente molto rischioso pensare di esserlo, significa immediatamente far rientrare il suono in bocca, dove esso trova ampio spazio di risonanza. Ma questo non è sviluppare il suono, anzi, è un renderlo difettoso e un tarpargli le ali. Se infatti noi possiamo avere la sensazione di un suono più grosso e importante, l'azione ne ha già ridotto le potenzialità di sviluppo, perché il "tubo" aereo è accorciato, e conseguentemente diminuito l'appoggio. Dunque, il criterio di quanto sto cercando di comunicare è per la verità molto semplice: se voi nel dire con semplicità una qualunque parola vi soffermate su una qualsivoglia vocale, ne avrete, grossolanamente, il giusto calibro. E' ovvio che nel parlato corrente tutto è limitato e difettoso, ma c'è un dato di fatto che non si deve mai sottovalutare: gli apparati sono in sintonia tra loro e la pronuncia è fuori. Quando intoniamo il parlato i difetti si rivelano più evidentemente, in parte perché noi li esasperiamo andando a cercare qualcosa (che non c'è), in parte perché il maggior impegno provoca la reazione istintiva. Allora ecco il motivo per cui dobbiamo, per qualche tempo, ricorrere alle forme chiave delle vocali. La O con le labbra strette, la U con le labbra "a fischio", la I e la é col sorriso, la A con la bocca ampia, similmente la è. E' ciò che facciamo nel parlato, in modo tranquillo e contenuto, ma di cui non abbiamo coscienza. Dunque, prendendo una O, che è una delle vocali più utilizzate, c'è una differenza abissale tra una O emessa mediante una certa tensione labiale e una O emessa senza alcuna cura delle labbra. In primo luogo abbiamo un controllo diretto sulla pressione dell'aria, dunque anche sul diaframma. In secondo luogo, se riusciamo ad evitare di trasmettere questa tensione alle parti muscolari inferiori (gola), noi riusciremo a far sì, subito o in tempi brevi, che la O resti fuori dalle labbra. Questo non appagherà l'ego, perché il suono che si forma esternamente, avendo poca risonanza interna, risulterà per l'allievo poco sonoro e "piccolo". In realtà capita spesso che questi suoni siano subito molto piacevoli e si espandano facilmente nell'ambiente, ed è per questo che bisogna insistere affinché l'allievo impari ad ascoltarsi esternamente. Il suono così emesso risulterà di calibro "giusto", il che vuol dire più piccolo rispetto le attese (erronee) dell'allievo, ma in questo modo si creerà quel rapporto perfetto tra le cavità interne e il fiato/diaframma (cioè appoggio). A questo punto potrebbe mancare del "peso", vale a dire volume e intensità, e qui torna in auge l'ego: se per dare carattere di ampiezza dinamica noi torniamo a "gonfiare" il suono, torneremo sostanzialmente ai problemi di base, invece la difficoltà e la pazienza richiedono che il suono si sviluppi mantenendo e sorvegliando severamente che il calibro non si allarghi, non si modifichi. In questo modo noi potremo dare progressivamente più forza, andando a insistere sui polmoni e sul diaframma con una pressione che poi ci sarà restituita nella qualità del fiato. Questo il piccolo rapporto "tecnico". In realtà noi, con sapiente disciplina, andremo anche a togliere le reazioni istintive, le quali in un primo tempo sono le artefici massime dell'ingolamento e dei difetti. Migliorando le capacità di ascolto esterno, anche il nostro ego si convincerà che il suono non è così piccolo e modesto come poteva sembrare in un primo momento, per cui inizierà un processo di "elasticizzazione" di tutto l'apparato, e la voce risulterà sempre più sonora man mano che diminuiremo (sì, ho scritto ed è proprio: diminuiremo) la forza del fiato. Da molto tempo sto cercando di realizzare qualche disegno esplicativo. Cercherò di farlo e poi spero di poterlo mettere qui...

2 commenti:

  1. Grazie Fabio. Ma adesso vuoi insegnarci al modo di ascoltarci esternamente... a parte la registrazione... cosa significa esattamente "l'allievo impari ad ascoltarsi esternamente". Grazie.

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  2. Ascoltarsi esternamente vuol proprio dire che si deve aguzzare l'udito e cercare di ascoltarsi nell'ambiente, per capire le riflessioni che il suono della propria voce produce nella stanza o sala dove si canta. Come esperienza consiglio di provare a mettere le mani ai lati della bocca (senza premere) leggermente aperte, in modo che le orecchie non percepiscano più direttamente il suono dalla bocca ma dall'ambiente. In questo modo vi sembrerà di sentire un'altra persona, e forse riuscirete anche a correggere qualche errore...

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