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lunedì, gennaio 30, 2012

Un Barbiere d'altri tempi

Ho rinvenuto qualche giorno fa una registrazione del primo Barbiere di Siviglia inciso nel 1919. I cantanti che vi partecipano non sono "storici": Ernesto Badini, Malvina Pereira, Edoardo Taliani, Davide Carnevali, Umberto Di Lelio. Quest'ultimo (che era il suocero di Franco Corelli), insieme a Badini, che realizzò anche il pregevole Don Pasquale con Schipa, sono i meno sconosciuti. Appunto per questo ritengo sia importante ascoltarli, così ho messo su youtube alcune loro arie! A mio avviso il migliore in campo è Di Lelio, un basso che in alcuni passi rasenta il perfetto, per quanto la parola sia vera, scolpita, a fuoco, facile, libera! Al secondo posto metteri Badini, che forse non aveva tutte le caratteristiche per affrontare la cavatina (omette i primi due sol), ma anche lui è di una sobrietà, di una pulizia e pronuncia che lasciano meravigliati! Oltretutto non gigioneggia nemmeno! Questi, lo sottolineo, erano i cantanti che passavano alla Scala a inizio 900, quando c'erano alcuni dei più grandi cantanti della Storia, quindi non si pensi che fossero cantanti da bassa provincia...! Taliani è altrettanto bravo; bella pronuncia chiara (in alcuni momenti persino un po' troppo), facilità estrema nella salita e discreta agilità (per i tempi, poi..). L'aria forse non è il momento migliore; in alcuni altri momenti realizza filature veramente da manuale. Non ho messo, per il momento, la Pereira, perché rientra un po' negli stereotipi del tempo: soprano leggero che fiorisce e varia di continuo. Più avanti però conto di inserirla, perché comunque è una cantante intelligente, sa variare con gusto, senza esagerare, il colore e l'atteggiamento non sono da bambolina meccanica, non è aspra e puntuta. Unico punto debole è il registro basso, che risulta schiacciato. Discreto anche il Fiorello, anche se di voce non bella, mentre il meno valido è il Bartolo di Carnavali, che fa bene nel centro ma si strozza letteralmente appena fa una nota più in su. La direzione di Sabajno sarebbe pessima, ma non credo sia giusto giudicarla perché le condizioni di registrazioni erano del tutto assurde; il pezzo di sinfonia registrata comunque non fa intuire alcun apporto espressivo di qualità.


sabato, gennaio 28, 2012

Lo Stradivari temporale

Ci fu un'epoca in cui alcuni costruttori di strumenti, particolarmente popolari i liutai cremonesi e sopra tutti Antonio Stradivari, anche se forse non proprio il migliore, elevarono il loro lavoro artigianale ad Arte, intuendo, senza il supporto di quella ricerca scientifica a quei tempi quasi inesistente, forme, materiali, dimensioni, relazioni, che ancor oggi ci appaiono al limite del miracoloso. E infatti l'Arte, quando si esprime al meglio, può raggiungere risultati che la maggior parte delle persone, guidate da sentimenti che rientrano nella logica dei limiti istintivi di sopravvivenza, reputano trascendentale, cioè oltre i limiti dell'umano. E' anche per questo che si fa fatica a pensare a una scuola di canto che possa portare gli allievi a un livello di performance come quello di Schipa e persino oltre! E' la normale condizione di pensiero che l'istinto ci permette; per passare oltre abbiamo bisogno di azioni che proiettino la mente oltre l'intenzione, cioè ci facciano scoprire che abbiamo la possibilità di fare cose che non immaginavamo poco tempo prima. La mente elabora queste informazioni e si porta a un livello di conoscenza e percezione superiore. Naturalmente bisogna credere che quel risultato sia possibile, anche se sconosciuto in precedenza, altrimenti si mette un blocco, un lucchetto, alla nostra crescita. Questo, comunque, è legato indissolubilmente alla nostra potenzialità di sviluppo. In teoria tutti la possiedono, ma per molti resta una potenzialità. Quando Stradivari, o uno dei suoi colleghi, con tutta la concentrazione, la maestria possibile, sfornavano un violino al meglio delle loro capacità, quella era come una scultura di Michelangelo, cioè uno strumento perfetto, capace di esprimere al 100% quelle caratteristiche di bellezza e verità fonica che un grande violinista può sognare; e un violino così, se nessuno lo tocca (ma li hanno toccati...) è per sempre, non conosce decadenza.
Per analogia, è possibile che uno strumento vocale sia uno Stradivari? Certo esistono configurazioni foniche vocali che in natura si presentano con caratteristiche di eccezionalità: vedi Pavarotti, vedi Gigli, vedi Di Stefano... L'essere "Stradivari" però non è naturale. Come ho scritto poc'anzi, uno violino perfetto, se conservato convenientemente, non conosce tempo. Ecco che invece una voce straordinaria, forse la più bella in assoluto, quella di Di Stefano, solo per poco tempo ha potuto sfoggiare tutto il meglio di sé, e lo stesso possiamo dire di altri cantanti con timbrature strepitose ma che hanno conosciuto sempre decadenze vertiginose. Gigli già esce da questa casistica, ma si pone un'altra considerazione: alcuni cantanti non hanno una voce "bella", edonisticamente parlando. Dunque nella voce si pongono due aspetti: caratteristiche effettive e caratteristiche potenziali. Alcuni "materiali" ce li dà la natura, e consistono nella forme e costituzioni ossee, cartilaginee e muscolari, la "modellazione" la dobbiamo "forgiare" noi. In sostenza, i liutai andavano a cercare il legno più idoneo, a volte lontanissimo, noi dobbiamo prendere ciò che la natura ci ha dato, su quello non abbiamo scelta, per cui abbiamo cantanti con voci meravigliose, già talmente ricche di risonanze e screziature, estensioni, volume, ricchezza, da venire accolte e innalzate dalla maggior parte delle persone come stupefacenti e indiscutibili, indipendentemente dal livello, diciamo così, tecnico, sviluppato, altre le definiamo voci "meno belle", se non brutte, come Schipa, Pertile, persino la Callas, ma ciò non ha impedito a queste di diventare pietre miliari nella Storia del canto. In altri casi è il livello "funambolico" a costituire il dato fondamentale (lo vediamo oggi soprattutto nei pianisti e violinisti): più note si fanno al minuto, o più si va nei registri estremi, più si è considerati eccezionali, anche se non si dice assolutamente niente di comprensibile. Questo è sempre avvenuto e avviene anche in campo vocale, per cui da un lato le voci bellissime, dall'altro le voci funamboliche. Però non è detto che siano cantanti che passano alla Storia. La Natura ci dota di uno Stradivari potenziale; in alcune persone si evidenziano alcune componenti esteriori, ma perché si realizzi compiutamente lo Stradivari artistico, e non solo il modesto liutaio artigiano, o addirittura quello "di serie" o "di fabbrica", occorre la scuola, la grande scuola d'Arte. Non c'è alternativa. Lo Stradivari umano, però, al contrario di quello violinistico, è "temporale", cioè si compone, si UNIFICA, e dà il meglio di sé, una volta formato, nel momento in cui si canta, e torna ad essere una voce e un complesso articolato senza particolari qualità quando si torna nella vita quotidiana. Ma la temporalità cui accennavo, non è solo così a "interruttore". Come si saprà un grandissimo pianista, Arturo Benedetti Michelangeli, spesso andava ai suoi concerti con due e persino tre pianoforti da lui scelti (suoi), col suo accordatore, e non di rado è capitato che abbia mandato a monte il concerto perché nessuno dei tre rispondeva alle sue esigenze. Per molti questo è stato un atteggiamento criticabile, esagerato, incomprensibile, snob, presuntuoso. Nessuno può capire, se non è in quella dimensione, che un musicista che abbia sviluppato quel grado di perfezione dell'orecchio (insieme a quello di produzione), laddove non coglie QUEL risultato, soffre ed è incapace di esprimere l'insuperabile livello che ha raggiunto. Sarebbe tradire sé stessi, accontentarsi, accettare come valido il modesto per questioni mondane, di immagine, quindi narcisistiche e esteriori. Un artista non può accettare questo, ed è giusto si sottoponga anche alla critica delle masse che non possono comprendere, perché il primo confronto e giudizio è con sé stesso. Come nel pianoforte o nel violino o qualunque altro strumento, il primo problema è ambientale e sociale, per cui un malessere, un ambiente troppo secco o umido, un'acustica ingrata, o chissà cos'altro, possono minare una performance di alto livello. Chi non ha raggiunto ancora la costanza del perfetto, si troverà con uno strumento che esprime "a tratti" condizioni straordinarie ad altre più modeste. Adesso, però, arriviamo al dunque: cosa trasforma un insieme di ossa, cartilagini, muscoli, mucose, ecc. in uno strumento perfetto, cioè un'UNITA'? E' l'equilibrio delicatissimo di rapporti tra l'aria emessa e la risposta laringea. L'aria non è più la respirazione fisiologica ma si deve essere trasformata in un "archetto" da virtuoso violinista, la laringe non è più tale, cioè non è più la "valvola" che gestisce il flusso d'aria (o difende l'apparato respiratorio) per esigenze chimico-meccaniche, ma si comporta da vero strumento musicale qual è potenzialmente, senza per altro perdere la componente vitale implicita. Quando l'archetto tocca le corde del violino, esse non hanno "reazione", si piegano dolcemente alla volontà del suonatore. Quando il fiato di una comune persona tocca le corde vocali per emettere un suono, più o meno, a seconda delle sue caratteristiche soggettive, troverà una resistenza, e tutto l'insieme di parti che definiamo apparato vocale, si metterà in agitazione, per cui si può andare dall'emissione di un suono accettabile fino alla negazione di un suono! come se in un motore una rotella, per quanto piccola, si bloccasse: tutto andrebbe in blocco. Senza contare che "quel" fiato, cosa è in grado di fare? Non so se qualcuno ha mai provato a prendere un violino e sfregare un archetto sulle corde senza aver mai preso lezioni: un rumoraccio insopportabile! Nella voce il più delle volte non è proprio così perché abbiamo comunque una esigenza vocale, il parlato, che ci dà un margine di tolleranza, senza contare che la Musica è un aspetto indispensabile del nostro spirito, e il modo migliore per esprimerlo è il canto, anche se non di qualità, però se non si è dei grandi predestinati, il risultato sarà molto simile! Noi dobbiamo, in tempi che non si possono predefinire, far sì che il fiato, trasformato in una sorta di archetto da violinista, tocchi le corde, senza che la laringe abbia il benché minimo sussulto, reazione. SOLO COSI', cari amici che mi leggete, non so con quanta ironia, sufficienza, incredulità, noia, stupore, perplessità, divertimento, è possibile realizzare quel suono PURO, sganciato da ogni e qualsiasi "rumore", ovvero interferenza, che trova altrettanto pura amplificazione nelle cavità oro-faringee e ulteriori complementi ossei, tale per cui diventa tutt'uno con l'aria dell'ambiente circostante che vibra unitariamente con il suono di base. Quando questo avviene, abbiamo la sensazione che il cantante non faccia alcuna fatica, alcuno sforzo, canti con semplicità, e questo a molti dà fastidio, appare come "non canto" (oggi, non fino a qualche tempo fa), e questo è un grave, gravissimo segno di decadenza dei tempi, molto difficile da superare, perché se gli autentici virtuosi del canto non vengono accettati come tali, la decadenza rischia di affermarsi come unico criterio valido. Contiamo però sulla Natura, che a periodi di decadenza alterna periodi di risalita e di affermazione del bello e del valido.

giovedì, gennaio 26, 2012

Sensazioni e percezioni

Approfittando di una discussione su fb, affronto anche questo argomento, che può avere un certo interesse. Come sanno tutti coloro che seguono questo blog o le mie lezioni, sono contrario all'insegnamento tramite sensazioni. Come ho detto e scritto persino esageratamente, pensare di mettere il suono in un determinato posto, in particolare quando il posto è lungi dall'essere sul percorso più idoneo e corretto perché possa sviluppare virtuosamente una voce artistica (tipo gola, fronte, nuca, ecc.), è un errore non di poco conto. La sensazione è una fantasia, cioè una volontà di mettere il suono in un determinato luogo anche se non ho la precisa percezione di riuscire nell'intento. La percezione può andare in direzione diversa, cioè posso avere la percezione che il suono "batte" in un qualche luogo anche se non ho attivato alcun meccanismo per localizzare il suono. Potrei dire che sensazioni e percezioni interne sono piuttosto inutili e spesso fuorvianti. L'unica che reputo di una certa utilità è quella legata al palato alveolare; chi percepisce in modo chiaro quando il suono batte o no dietro/sopra i denti superiori anteriori è avvantaggiato perché da quello può anche avere una "spia" sulla corretta direzione del flusso sonoro. Ma anche questo può, alla lunga, dimostrarsi fallace e ingannevole. La percezione più importante è quella che passa attraverso l'orecchio. Se noi percepiamo se stiamo dicendo veramente quella determinata parola, o sillaba, o frase, abbiamo il miglior controllo possibile sulla qualità del canto (che nel tempo dovrà ovviamente raffinarsi, perché dapprima mi sembrerà di dire bene, ma poi dietro esempi e istigazioni dell'insegnante mi accorgerò che non è sempre così, poi passeremo alla bellezza, la morbidezza, ricchezza, ecc.). Si può aver la sensazione, o percezione, che il suono è in gola, oppure davanti alla bocca, oppure alto di fronte a noi o in molti altri posti; sono sensazioni utili ma a cui non bisogna mai dare troppo retta, specie se siamo da soli, perché fin quando il complesso orecchio-istinto-apparati non è sulla strada dell'unificazione, noi non potremo sapere se stiamo realmente facendo bene. Quindi il consiglio ultimo e sintetico è quello di dare retta sempre e solo alla parola e alla sua qualità; tutto il resto è accessorio.

lunedì, gennaio 23, 2012

Non interpretare

Questo titolo potrebbe dare la stura a un articolo fiume, perché si può adattare sia alla musica che ad altri aspetti della vita. Per il momento non mi soffermo sull'aspetto musicale, che peraltro è già stato trattato diffusamente in questo blog, e vado invece a parlare dell'insegnamento del canto. Il M° Antonietti, anche con riferimenti filosofici, soleva dire che le parole sono tutte uguali, e dunque insegnare canto per iscritto è una pia illusione. Ciononostante ha scritto molto, ma sempre puntualizzando che si trattava di consigli orientativi. Anche il M° Celibidache mise mano a un trattato sulla fenomenologia, ma dopo qualche tempo abbandonò il progetto, credo per lo stesso motivo, e forse distrusse persino quanto aveva prodotto. Ora noi ci troviamo di fronte a una mole ingente di libri sul canto prodotti negli ultimi decenni, mentre possiamo contare su un numero ridotto di trattati dei Secoli scorsi, tutti più o meno celebri, e su cui si è tornati a studiare. Per molto tempo sono stati quasi dimenticati, poi, cominciando da Celletti e dalla Maragliano Mori, le citazioni e i riferimenti sono andati moltiplicandosi, e oggi sono numerosissimi gli insegnanti che dicono di ispirarsi a questo o quel maestro di un tempo o, più generalmente, all'antica scuola italiana. Ricordo che, comunque, già una trentina di anni fa molti insegnanti si riempivano la bocca con il trattato del Garcia, dove, di quella scuola, sinceramente non appariva quasi niente. Particolare nervoso mi suscitavano alcuni articoli della critica vociologica degli anni 70 e 80, che citava i trattatisti antichi, dopodiché partiva la fatidica frase "... intendeva dire...", cioè una interpretazione, che se è sempre discutibile, lo è a maggior ragione da parte di chi non ha una reale competenza ed esperienza vocale. L'Arte non è mai spiegabile a parole, anche parlate, ma il linguaggio scritto si presenta realmente limitativo. Me ne accorgo rileggendo spesso e ripetutamente gli appunti del mio maestro, che non solo fanno parte del mio vissuto, della mia esperienza, ma sono stati anche espressi e commentati direttamente dall'autore. Ebbene, ancor oggi scopro frasi, particolari, immagini che mi suonano molto più illuminanti e decisive di quanto non avvenisse anni fa. Purtroppo chi scrive è convinto sempre di essere chiaro, semplice e diretto, ma non è così. Mi capita di rileggere qualche mio vecchio post, e mi rendo conto, invece, di quanto possano apparire contorti, complessi, oscuri. Il mio stesso Maestro diceva: forse sarebbe meglio lasciare tutto com'è...! E anche a me talvolta viene l'impulso di eliminare molti scritti, anche perché l'esperienza porta sempre più a raffinare e sintetizzare le idee (spesso si dice di Celibidache che avesse ormai fatto un "distillato" della sua poetica) fino a coniare concetti e frasi "laser". Comunque, per tornare al motivo del post, l'esortazione è tesa a evitare di dar piena fiducia a chi si fa forte di insegnare secondo questo o quel trattatista (o, peggio, metodo). Anche conoscere a memoria le frasi dei grandi maestri non indica e non individua una competenza reale e concreta, perché, come sappiamo, due sono gli aspetti fondamentali: avere un orecchio sviluppato oltre le normali esigenze esistenziali, e avere quel bagaglio esperienziale personale tale da consentire di proporre l'esercizio o la serie di esercizi idonei a superare il problema individuato, ovviamente all'interno, comunque, di un percorso educativo teso al raggiungimento di un risultato artistico importante. Leggere i trattati è sempre utile e interessante, ma quando non si capisce qualche termine o concetto (non dimentichiamo anche che la lingua cambia), è meglio restare col dubbio che voler avere a tutti i costi una risposta. E comunque è sempre bene rendersi conto se la risposta ci convince sul serio o si dice "sì sì" per non far la figura degli scemi.

domenica, gennaio 22, 2012

"Apri la tua finestra..."

L'aria dell'Iris di Mascagni, come al solito, non c'entra niente! Accenno a un tema molto ricorrente, ma che non ho mai trattato compiutamente. Il canto "aperto".
Oggi si parla di canto "aperto" perlopiù in termini negativi, o comunque dubitativi. Benimino Gigli, a chi gli chiese perché non insegnasse, rispose che non lo faceva perché avrebbe insegnato a fare come lui, un canto aperto, e avrebbe rischiato di rovinare qualcuno. E' encomiabile il fatto che si rendesse conto della difficoltà e dei rischi di insegnare canto senza una profonda coscienza, e quindi meglio evitare, specie se si è grandi cantanti, e dovrebbero (o avrebbero dovuto) capirlo tanti che invece si sono dedicati all'insegnamento facendo danni. Però Gigli aveva un dubbio riguardante il proprio canto, dal momento che sul canto aperto ammetteva la possibilità di un rischio. Ma allora perché lui sì? Poi dobbiamo fare una piccola analisi storica: quando nasce questo termine. A me sembra che non se ne parli se non in tempi piuttosto recenti. Come avrete notato non ho scritto il termine opposto: qual'è? Il contrario di aperto, nella vita quotidiana, è "chiuso". L'ho anche sentito utilizzare da insegnanti: "chiudi questo suono". Reputo orribile questo termine, che è psicologicamente deleterio. Nella terminologia classica, il contrario di aperto è "coperto". Credo, e già lo scrissi tempo fa, che il termine di paragone negativo dei nostri tempi, che fa prendere le distanze tanti cantanti e insegnanti dal canto aperto, sia Giuseppe Di Stefano, che indubbiamente ebbe un declino rilevante, e altrettanto indubbiamente cantava secondo l'accezione di cui sopra. Ma allora cosa significa, quali rischi comporta, è bene o male trattarlo, ecc.? Cominciamo col definire più precisamente quello che è l'aspetto ritenuto negativo e quindi da evitare: la zona acuta. Tutti sanno, soprattutto i tenori, che oltre una certa nota, diciamo fa-fa#3, è possibile emettere delle note appartenenti al registro di petto. Queste note non si può dire siano proprie della gamma del parlato, e appartengono più propriamente al grido; dunque salendo di petto si ha l'impressione di un canto sguaiato, non dominabile espressivamente. Siccome diventa anche difficile mantenere una dizione raccolta, l'impressione è anche quella che tutte le vocali tendano a diventare A, cioè si ha la percezione di una apertura eccessiva e imbarazzante di tutta la cavità oro-faringea. Quindi una negatività nella qualità dell'emissione, nell'espressività e persino estetica. Mi pare evidente e scontato che a nessuno piace o piacerebbe un canto sbracato e sguaiato, pertanto laddove "aperto" è sinonimo di un simile risultato è pacifico dire di no. Ma un canto aperto è sempre riferibile a questo tipo di emissione? Qualche tempo fa, parlando di "aperto-coperto" abbiamo già in parte risposto alla domanda. E', e sarebbe, assurdo che un meraviglioso strumento come quello umano, non consentisse di raggiungere quell'omogeneità tale da consentire di pronunciare qualunque vocale, o sillaba, nella tessitura del canto (si può fare un'eccezione per la voce femminile oltre il la4, dove la fisiologia materialmente crea qualche impedimento), pertanto possiamo affermare che è potenzialmente possibile un canto aperto su circa due ottave, senza andare incontro a sguaiamenti, imbruttimenti, danni per la voce. Naturalmente è un risultato che non si può ottenere, come fece Di Stefano, semplicemente volendolo, pur avendo, come nel suo caso, delle formidabili doti, perché l'istinto non lo consente, dunque quando ci si trova in una condizione eccezionale, lo studio può condurre a perfezionare e mantenere quella condizione per tutta la carriera. Per tutti gli altri, che sono sempre e sicuramente la grande maggioranza, quel risultato andrà ottenuto con uno studio "eroico", che disciplini il fiato al punto da poter alimentare una corda tesissima con la disinvoltura del tratto parlato. E' evidente che si tratta di un obiettivo quasi disumano, ma quando la scuola possiede gli strumenti cognitivi per un tale traguardo, non si può far altro che percorrerli con fiducia. Se ci sono i dubbi, invece, meglio rimanere sul piano tecnico e continuare a fare ciò che la tecnica suggerisce. Dicevo ieri a un mio allievo: pensa ai grandi ebanisti, che costruivano elaborati mosaici o mobili molto complessi incastrando tutti i pezzi, senza la minima presenza di colla o chiodi. Se tu sei padrone di questa Arte, consegnerai l'oggetto senza patemi al committente. Altrimenti, se hai dei dubbi, dirai: "mah, magari un chiodino in mezzo lo metto, non si sa mai, o un goccio di colla che manco si vede...". Bene, è evidente che il goccio di colla è la negazione di tutto il lavoro. Bergonzi è stato sicuramente un valido cantante, ma metteva sempre il "goccio di colla", e per tutta la sua carriera ha sempre coperto dal passaggio in su, perché non si fidava del suo fiato, oppure sapeva che non era in condizione di reggere un acuto aperto, o chissà cos'altro...
Allora il canto aperto è da molti considerato un canto "sprotetto", come se ci si esponesse a un pericolo, mentre il canto "coperto" è considerato sicuro, protetto. Quella che si chiama "copertura" è poi semplicemente un oscuramento del suono, che se può avere delle qualità nell'educazione del fiato, a occhio o croce mi pare stia facendo più danni e vittime del peggior canto aperto! Infatti la maggior parte dei cantanti (o meglio degli insegnanti), spesso nell'oscurare i suoni in realtà li manda indietro, perché il canto coperto richiede un impegno maggiore, e quindi per pararsi da quella fatica o si sollevano (pensando il suono "in maschera", cioè nel naso o più su ancora) o si mandano verso il palato molle (sempre con l'idea di fare qualcosa di positivo, tipo dare maggior spazio o andare a cercare "il passaggio a nord-ovest" per mettere il suono in maschera. E così noi abbiamo un esercito di cantanti o aspiranti tali che non è in grado, nonostante ne abbia le potenzialità, di fare acuti degni di questo nome, facili, squillanti, ampi. E' una disciplina che richiede molto tempo, pazienza, coraggio, disponibilità, tutte cose forse troppo impegnative, ma non c'è soluzione di compromesso, però è indispensabile, perché il canto coperto è e sarà sempre un canto limitato e "con la goccia di colla", cioè non nella pienezza della libertà, come un'arte richiederebbe.
Per evitare che qualcuno legga questo post senza aver letto altro e si faccia l'idea che noi consigliamo di andare verso gli acuti in voce di petto, ribadirò che non è così, tutt'altro! Noi diciamo che gli acuti si fanno in corda sottile, ovvero cosiddetta di falsetto, e per far ciò ci si servirà di vari mezzi, compreso l'oscuramento; col tempo (molto), si arriverà a "rastremare" le corde vocali (ovvero il fiato sarà in grado di fare ciò) che nell'estensione dal grave all'acuto, si comporteranno gradualmente da spesse a sottili, senza più "passaggi". In quella condizione non esisterà più la necessità di copertura; tutt'al più si canterà chiaro o scuro a seconda del ruolo o dell'aria che devo eseguire.

venerdì, gennaio 20, 2012

I microbi

Non voglio parlare di patologie direttamente o indirettamente attinenti la sfera vocale; per la verità è un argomento che non mi ha mai realmente interessato e che tratto rarissimamente. Toccherò, invece, un argomento vagamente gnoseologico.
L'Arte, intesa quale perfezione, è da intendersi anche come "unità". La coscienza umana tende a unificare. Il brano musicale è da considerare una potenziale unità, che non potendo essere concepita e assimilata quale unità, si articola, si spezza, si differenzia in un lungo percorso, che è per l'appunto il brano musicale come siamo abituati a conoscerlo. La nostra coscienza possiede le capacità di riconoscere e ricostruire quell'unità potenziale del brano (ed è in questo senso che occorre rivedere il concetto di tempo, perché è evidente che il tempo "esterno" non potrà più coincidere con quello "interno"). Esistono a questo riguardo diversi "se": se la coscienza è libera, se l'esecuzione risponde a principi di consequenzialità tali da non spezzare la necessaria fluidità sia da un punto di vista, diciamo così, tecnico e da quello più prettamente conoscitivo, anche naturale. Questo processo è già raro e difficile in tutti i campi, perché c'è ignoranza, presunzione, o anche oggettiva difficoltà. Diciamo che coloro che si trovano nelle condizioni di fare veramente Arte, sono dei potenziali "unificatori" di "gesti artistici" (che poi è il concetto di creazione).
Nella nostra vita abbiamo continuamente a che fare con i microbi (dico microbi semplicemente per riassumere un concetto ampio e complesso di patologia). I microbi cosa fanno? ovvero qual è il loro ruolo? E' proprio quello opposto, vale a dire mirano alla possibile distruzione di un'unità, che nel caso medico è un'unità vitale (animale o vegetale che sia). Dunque l'unità, per questioni che non starò qui a esaminare, viene sempre messa in difficoltà ed è portata a scomparire. Anche nel mondo dell'Arte abbiamo dei microbi, che altro non sono che le persone che quotidianamente cercano di minare, fisicamente, intellettualmente e psicologicamente, le possibilità di accesso e di vita delle unità artistiche, cioè le opere d'arte, i capolavori, la perfezione. E li sentiamo e li vediamo quei critici, quei musicisti o musicologi, che attaccano, a volte con enfasi e toni persino incomprensibili per l'altisonanza degli accenti, le grandi scuole e i portatori di messaggi virtuosi. I microbi si organizzano in quantità e qualità e riescono a coalizzarsi e superare la dimensione conoscitiva dell'uomo. Non c'è quindi da illudersi né da un lato che le malattie saranno sconfitte per sempre, né che tutti i polemici, a volte violenti, che periodicamente attaccano questa come altre scuole di pensiero e d'Arte, possano decidersi a togliersi di mezzo. E' un ruolo necessario all'eterno esistere e non può essere diversamente. Bisogna imparare da un lato a sopportare, da un lato a resistere, quando occorre a combattere. Insomma, diventiamo un po' anche "antibiotici".

giovedì, gennaio 19, 2012

Lasciarsi andare

Forse l'esortazione più semplice ed efficace, è quella meno pronunciata. Non vale solo per il canto, ma per tutta l'Arte, per tutta la Musica, sia eseguita sia fruita. Lasciarsi andare vuol dire innanzi tutto spostare la concentrazione dall'esterno all'interno. Quando parlo di esterno ed interno, non alludo al "corpo", quindi non intendo dire che si sposti l'attenzione da fuori a dentro di esso (semmai sarebbe il contrario) ma dagli aspetti esteriori (superficie, materia) a quelli interiori, cioè spirituali, immateriali, e nemmeno intellettuali. Credo che uno degli aspetti più carenti del nostro tempo sia la fiducia e la conoscenza di sé stessi. Il problema più frequente che mi trovo ad affrontare con gli allievi è quello del canto "con la propria voce". Tutti vorrebbero "un'altra voce", sempre più bella, più forte, più estesa... e nemmeno sanno se la propria è magari assai più interessante e importante di quanto pensano, perché in realtà la maggior parte di essi sono già sfiduciati in partenza, pur senza rendersene conto. La coscienza è questo; renderla pura e trasparente, semplificando, imparando dalla realtà, abbandonando sciocchi velleitarismi, cammuffamenti, artificiosità, pompaggi, trombonismi. E anche giudizi. Lasciarsi andare vuol dire ascoltare con anima semplice (il fanciullo). Se cosa o colui che ascolti ti fa entrare nel regno dei sentimenti, non importa se è un grande professionista o un rozzo dilettante, ha adempiuto al proprio ruolo e "vi siete incontrati" nell'arte che condividete. Anche un grande professionista può non riuscire in questo compito, vuoi perché lui, pur anco famoso e tecnicamente superbo, è ignorante rispetto la sublimazione dell'atto artistico, vuoi perché tu sei distratto dal tuo voler giudicare. Chi giudica, il più delle volte preconcettualmente o pregiudizievolmente, è fuori, dunque non può stare nella musica, e non potrà "incontrare" nessun altro, sarà sempre distaccato e impermeabile. Noi dobbiamo ben chiarire che la musica e il canto esistono per l'uomo, per tutti gli uomini, non solo per i musicisti, dunque occorre differenziare ciò che è l'aspetto morfologico dal suo contenuto. Il fatto che i musicisti siano competenti ed esperti in tutto ciò che è la tecnica strumentale e il complesso teorico della semantica musicale, non significa che hanno più diritto di accesso di altri, anche se è potenzialmente in loro, avendo scelto questo campo, però il più delle volte il narcisismo, il volersi elevare al di sopra della massa, li rende ciechi e sordi alle vere ragioni della musica. E' quindi assai frequente, bisogna dire quasi normale, che l'artista sia ignorante quanto e più del fruitore, e per questo un cantante o un musicista popolare non è sempre un bravo musicista e soprattutto un bravo insegnante, perché va ad istinto, segue il talento, ma non ha alcuna coscienza di ciò che ha avuto in dono. Una qualunque persona: un operaio, un impiegato, ecc. che canta quasi soprappensiero, può fare arte, e seguire del tutto naturalmente ciò che la coscienza comunica, e in questo può conseguire risultati strabilianti, alle orecchie di chi magari è sempre alla ricerca di chissà che! Mi è capitato di sentire in piccoli cori parrocchiali, risultati di purezza, intonazione, fraseggio, del tutto assenti in cori animati dai più ambiziosi intenti. Ma c'è sempre il giudizio, il valore esteriore, per cui solo perché quello è un coretto parrocchiale diretto da un appassionato senza alcuna cognizione tecnica, i musicisti lo additeranno come squallido, mediocre...
Sento continuamente persone che additano questo o quel direttore perché è lento, perché è veloce, perché suona piano, ecc. ecc. Ma dico io: CON QUALE CRITERIO? E' vero che nel campo dell'opera la questione può andare un po' oltre l'aspetto puramente musicale, perché ci possono essere problemi legati alle caratteristiche dei cantanti: una tessitura acuta può rendere necessaria maggiore scorrevolezza per evitare di far morire il cantante dalla fatica; un cantante con un'agilità poco cristallina può rendere necessario un tempo più tranquillo per non metterlo in difficoltà. Entro certi limiti si può tollerare e comprendere, ma spesso questo genere di difficoltà nasce dalla errata scelta dei cantanti, perché se l'autore è uno che sa scrivere per le voci, è sempre possibile indivuare il tempo giusto senza metterli in difficoltà. Poi naturalmente c'è anche un "lasciarsi andare" decisamente fisico, che non può voler dire mollare tutto, ma evitare quella partecipazione dinamica muscolare che crea i noti difetti di spinta, di sollevamento e di partecipazione attiva alle reazioni istintive. Non collaborare con i movimenti muscolari, ma lasciare che avvenga ciò che deve avvenire, ovvero: fidatevi del vostro fiato!!

venerdì, gennaio 13, 2012

Cantar con gli interessi

Una frase ricorrente nelle testimonianze di grandi cantanti è quella che il professionista dovrebbe cantare sfruttando gli "interessi", senza intaccare il capitale. E' un'affermazione molto corretta e condivisibile, penso, da chiunque. Come al solito si tratta di vedere cosa significa e come applicarla. Senz'altro quando la dice uno come Gigli, possiamo prenderla come esempio fulgido. Un cantante che non possiamo certo dire che si sia risparmiato in termini di impegno canoro, sia sul piano del rendimento (nel senso che cantava in piena voce tutta la sera e non si faceva pregare più di tanto nel concedere numerosi bis), sia in quello repertoriale (ha fatto tutto ciò che si poteva dal lirico-leggero allo spinto, trascurando solo il drammatico più pesante), eppure è arrivato in eccellenti condizioni alla tarda età, offrendo ancora prestazioni rilevanti durante il corso della crudele malattia che l'ha portato a morte. Lo stesso dicasi per Schipa, Pertile, De Luca e tanti altri. Allora come possiamo differenziare un canto "di interessi" da quello "del capitale"? Si può forse differenziare un tipo di emissione da un altro e possiamo governarle? Ebbene sì, è possibile. Quando il fiato comincia ad essere disciplinato a dovere, noi abbiamo la possibilità di emettere una voce che possiamo definire "di pura vibrazione aerea", cioè che pare, a chi canta, senza corpo e senza peso, totalmente priva di ogni interferenza e legame muscolare e laringeo. Questa voce, che pare "vuota" e di una semplicità quasi disarmante nel centro, risulta psicologicamente impegnativa e non proprio facilissima nel settore acuto, dove si è portati a cambiare posizione e a mettere intensità. Invece tutto sta sempre e solo in quella vibrazione sul "bocchino", cioè come se fosse "appesa" al labbro superiore, piccola come una scintilla, ricchissima di armonici. Questo è l'interesse, cioè un voce "non voce", aria sonora, che essendo pura vibrazione si estende senza resistenza a tutta l'aria dell'ambiente, che entra in risonanza simpatica dando l'impressione a chi ascolta che il canto arrivi da ogni parte, come un "sorround"! Non è utopia o illusione, ma una straordinaria, magnifica realtà.

venerdì, gennaio 06, 2012

Il tubo spezzato 2

Urge fare una precisazione. In passato ho parlato di tubo spezzato intendendo che è possibile creare una sorta di tubo unico dal diaframma alle labbra (e oltre), mentre le tecniche più svariate non riescono a eliminare del tutto una parte della compressione sottoglottica di natura fisiologica. Ora non è che torno sui miei passi, il concetto lo ribadisco, però ritengo di doverlo meglio precisare, anche per non commettere troppe leggerezze sul piano della fisica. L'aria che esce dai polmoni al momento del canto, è indispensabile per dar luogo all'ondulazione o vibrazione delle c.v. E' una quantità ben definita, con determinate caratteristiche di pressione, quella che permette la nascita di un suono-base perfetto (suono base inteso come indifferente dall'articolazione che l'esecutore dovrà dare). Si può dire che quando esiste questo rapporto eccellente, l'aria incontra le c.v. e in un certo senso sparisce. Oltre le c.v. non c'è (o per meglio dire: non ci dovrebbe essere) più aria. Infatti è noto che anticamente veniva spesso posta una candela o uno specchio dinanzi alla bocca dell'allievo/a per verificare che la prima non ondeggiasse o il secondo non si appannasse. In pratica le c.v. "assorbono" l'aria trasformandola in energia meccanica. Quindi oltre le corde, in ambiente oro-faringeo, noi abbiamo suono, il quale suono non è più aria polmonare, ma è la vibrazione dell'aria già presente in questa cavità. Questo suono, in base alla caratteristiche volute, presenta anche una determinata pressione sonora. E' questa pressione sonora, precisamente, in grado di allargare la gola, sollevare il velopendolo e colpire l'arco mandibolare con tutte le conseguenze note. Questa è la condizione ideale, cioè la sensazione del "tubo unico", della "gola morta", ecc.
Se l'aria non è nella quantità e/o nelle condizioni di pressione corretta, noi abbiamo sicuramente uno o più carenze o errori e non sarà possibile la sensazione del tubo unico. L'aria di troppo potrà: passare oltre le corde, tutta o in parte, con effetto "soffio", e possibili ripercussioni patologiche a lungo andare; passare oltre sfruttando varie discontinuità nel flusso sonoro (ed è la conseguenza di gran lunga più normale, perché è ciò che succede normalmente parlando) e non presenta pericoli, ma impedisce il nascere di un canto esemplare; non passare, e accumularsi sotto la laringe (il già citato effetto "diga", che è comunque una pressione sottoglottica eccessiva), creando vari tipi di difetti e disagi vocali: suono "spinto", suono "crescente", erroneo atteggiamento cordale nel gioco dei colori e dei registri, fino a impossibilità di utilizzarli con proprietà. Naturalmente esiste frequentemente anche la situazione mista, cioè accumulo sottoglottico ma anche passaggio di aria insonora. Quest'ultima situazione nasce un po' come autodifesa o come inconscia liberazione dal peso fastidioso della pressione sottoglottica.
La realtà, scritta anche in libri di fisica, è che l'energia necessaria per mettere in vibrazione le c.v., è veramente modesta. Quindi la grande fatica, l'energia e il tanto tempo speso per educare la voce, sono in realtà necessarie a disciplinare l'istinto e il fiato, ovvero, ancora, a "sganciare" quest'ultimo, dalle incombenze fisiologiche, soprattutto di tipo valvolare. Metto l'accento su questo punto proprio perché è questo legame che impedisce il passaggio a un vero canto artistico. Quindi due devono essere gli obiettivi: far diminuire il più possibile la spinta, avendo a mente che la pressione necessaria è pochissima, e legare il più possibile le parole tra di loro in modo da creare quell'uniformità di alimentazione del suono che impedisce l'uscita di aria insonora.
Quando si inizia lo studio del canto, è assai frequente che la laringe si alzi. Tutti gli insegnanti sanno che il sollevamento della laringe è il segnale di spoggio della voce e quindi perdita di qualità. Il problema è che quasi tutti vogliono risolvere questo problema facendo premere sulla laringe dall'alto verso il basso, anche i "non affondisti". In realtà questa non è una soluzione, ma addirittura un raddoppio del problema, perché se è pur vero che il sollevamento della laringe è causato in gran parte dalla reazione istintiva, questa trova ottimo gioco nell'azione di spinta che ciascuno è tentato di fare e che, per l'appunto, si esercita verso l'alto. Quindi, lo avrete capito, noi abbiamo contemporaneamente nella stessa persona due spinte contrapposte: una verso l'alto, causata in parte dalla reazione istintiva e in parte dalla spinta inconscia per cercare di tirar fuori più voce, più suono, l'altra, verso il basso, volontaria, per cercare di contenere questa spinta. E' ovvio che è un gioco pericoloso, inutile, controproducente, faticoso e che porta a risultati modesti o comunque ben poco artistici. Se non sono in grado di ridurre la spinta, ogni altro esercizio risulterà fuori luogo, ed ecco quindi l'invito al parlato più semplice possibile, al sospirato, al falsettino, che sono mezzi che fanno decrescere la voglia di spinta e quindi le reazioni istintive.