Translate

mercoledì, aprile 25, 2012

Della non indipendenza

C'è stata una critica, mossa a questa scuola, di considerare l'articolazione legata al fiato, laddove altri ritengono che essa sia "indipendente". E' bene, ritengo, analizzare un po' di fatti. Come è noto la nostra disciplina ritiene che si possa definire artistico quel risultato unificante più elementi concorrenti allo scopo. Nel caso di un'emissione artistica gli elementi fondamentali sono tre: "alimentazione", ovvero respirazione, produzione (organo laringeo), articolazione-amplificazione; secondo tale principio, nel corso di una emissione vocale nessun elemento si può definire indipendente. Facciamo una rapida carrellata: il fiato è indipendente nel momento in cui è utilizzato esclusivamente come fonte di ossigenazione; un certo impegno fisico, infatti, già presuppone un coinvolgimento della laringe e del diaframma. Quando la laringe, per qualunque motivo, entra in gioco, il fiato non è più del tutto libero, ma assoggettato a leggi fisiche, per cui esso si troverà più o meno compresso entro i polmoni, e questo causerà implicazioni dei muscoli respiratori che a loro volta causeranno diverse azioni e reazioni. La laringe è l'unico dei tre apparati sempre dipendente. E' possibile farle compiere alcuni movimenti volontariamente, ma di poca o nulla utilità. Ciò che rende in qualche modo utilizzabile quest'organo è il fiato. La sensibilità di funzionamento è altissima, per cui è sufficiente un leggero aumento di velocità o di pressione per modificare piuttosto radicalmente il suo atteggiamento. L'articolazione può sembrare apparentemente indipendente nel momento in cui noi muoviamo la lingua e/o la mandibola in assenza di suono vocale. Sappiamo, in realtà, che anche in questo momento non lo è del tutto, perché la masticazione, e quindi ogni movimento di questo apparato, che NON E' prioritariamente di articolazione fonica ma attenente l'alimentazione, è legato alla deglutizione, che richiama una serie di movimenti del faringe e della laringe. Tralasciamo questo aspetto, anche se non è di poco conto. Noi possiamo articolare senza suono, senza fiato, cioè muovendo solo labbra lingua e mandibola. Non esce voce, ma l'articolazione è non solo possibile, ma facile. Dunque potremmo dire che questa è indipendente? In altre parole, noi possiamo articolare le parole indifferentemente dal "collegare" o meno l'apparato fonatorio? Andando ancora oltre, è ipotizzabile, da questo punto di vista, che il canto articolato sia "solo" un modificare un suono vocalico "neutro" senza che questo sia influenzato dall'articolazione? Ovviamente do per scontato che chi afferma che l'articolazione è indipendente, ritenga (e si renda conto di dire) anche l'opposto, cioè che la respirazione e la produzione sonora sia indipendente dall'articolazione. Possiamo parlare solo parzialmente di 'interdipendenza', laddove ciascuna componente è dipendente dall'altra, ma dove il "motore" fondamentale è e sarà sempre il fiato. Il Garcia, forse per primo, constatò che (subito in apertura) "l'apparecchio vocale, complicatissimo, sta sotto la dipendenza di quello della respirazione", ma soprattutto "Il modo di acconciar la bocca nel canto fu anche per gli antichi maestri riguardato sempre siccome cosa della massima importanza. Essendo le labbra quelle che segnano il limite del tubo pel quale scorre il suono, ne segue, che per quanto bene appreso fosse dall'allievo il modo di accomodar questo tubo, ogni effetto sarebbe perduto se la bocca fosse male aperta." Questo concetto è straordinariamente importante, tant'è che ne parlano anche i due grandi trattatisti precedenti, cioè Tosi e Mancini. Dunque, Garcia individua con grande sagacia che le labbra sono l'estrema propaggine di un TUBO! Se si condivide la coscienza che l'insieme degli apparati vocali forma un tubo, FLESSIBILE (sempre parole di Garcia), come in ogni tubo in cui scorre un fluido o gas, la pressione varia a seguito delle modificazioni dello stesso. Dunque alzare o abbassare la mandibola, stringere le labbra, alzando o abbassando in vario modo la lingua, modificando l'ampiezza faringea o l'elevazione del velopendulo (cose, quest'ultime, non volontarie, ma comunque che avvengono), la pressione del fiato cambia. Siccome è ciò che succede durante l'articolazione, è molto evidente che fiato e articolazione sono dipendenti. Nella produzione di determinate vocali - o anche consonanti - noi abbiamo necessità di un maggior apporto di fiato o di un fiato con determinate caratteristiche di pressione. Allo stesso modo, la base del fiato è influenzata da vocali e consonanti, ricevendo, nella modificazione del tubo, una maggiore o minor pressione. Ecco, dunque, che è facilmente constatabile che fiato e forme sono strettamente dipendenti e quindi anche reciprocamente influenzanti. Se una determinata vocale viene pronunciata non correttamente, possiamo desumere che il fiato che origina il suono che ne sta alla base sia difettoso (può essere che che lo sia sempre stato o che lo sia diventato nel tempo). Cercando di migliorare la pronuncia, noi mettiamo in atto, senza rendercene pienamente conto, un processo di sviluppo respiratorio, cioè creiamo un'ESIGENZA per il nostro fiato di dover migliorare le proprie caratteristiche al fine di supportarci in un parlato (che è esigenza esistenziale, non dimentichiamolo, anche se non primaria) migliore. Se questo non avvenisse, il nostro parlato resterebbe mediocre; un miglioramento anche lieve della componente respiratoria, ci permetterà di pronunciare meglio e avviarci su toni via via superiori. Ogni tono migliorato sarà il trampolino, o base, per il tono successivo. Sull'articolazione c'è poi una ulteriore critica, che valuteremo nell'articolo successivo.

lunedì, aprile 23, 2012

Della salute.

Il maestro Antonietti, in molti scritti e lezioni, metteva l'accento sul fatto che il raggiungimento dell'esemplarità fonica era frenata unicamente da un fattore: la salute. In alcuni miei post ormai datati, segnalavo come molti aspetti apparentemente misteriosi del rapporto tra cantanti e pubblico siano da ascrivere ad un fatto psicologico, e cioè la sensazione che la voce, provenendo dalle profondità del nostro corpo, dal diaframma, che è un fascio muscolare a contatto con i nostri organi più sensibili ed importanti, porti fuori qualcosa di noi, di molto intimo, segreto, personale. Questo non è solo apparente. Non v'è dubbio che malesseri, anche di poco conto, che riguardino in primo luogo l'apparato respiratorio, ma anche fegato, intestino, stomaco e parti annesse, si comunichino in vari modi alla voce. Ma arrivo a dire, proprio sulla scorta di quanto dice Salvo nel suo commento, che essendo il fiato un motore in qualche modo connesso con tutto il nostro corpo, le ripercussioni sulla voce siano presenti pressoché ogni giorno a seconda dei cosiddetti bioritmi. Ma non possiamo dimenticare poi lo stato emotivo. L'essere allegro o triste, arrabbiato, gioioso, preoccupato, ecc., può influire sulla voce fors'anche più di quanto non accada per questioni fisiche. C'è un documento storico che secondo me è più chiaro di tante parole: il primo comunicato radio che Benito Mussolini diffuse alla ripresa dell'attività nella repubblica sociale dopo l'arresto, la fuga, ecc. Confrontatelo con i tanti messaggi e proclami del "ventennio": un'altra persona. Parliamo, però, delle questioni che possono riguardare i giovani, gli studenti di canto. Appare evidente, quasi ovvio, che il cantante non deve e non può fumare. Non spendo altre parole in merito. L'alimentazione: non lasciamoci troppo suggestionare dalle vecchie dicerie su ciò che fa bene o meno bene alla voce (le alici, le mele, il "cicchetto"...); perlopiù sono da associare quasi a gesti scaramantici, anche se qualcosa di vero può esserci. Non è la questione del frutto o dell'alimento o bevanda dell'ultimo momento, ma dell'alimentazione e vita quotidiana e sistematica. E' evidente che una vita regolare, con sana alimentazione, è sempre da consigliare. Il mettere gli aspetti estetici dinanzi all'equilibrio alimentare è sbagliato, quindi, e vale soprattutto per le signore, fare diete - specie se autonome - per stare in linea, anche se può non arrivare a creare disturbi o patologie generali, può avere influenze importanti sul rendimento vocale. Dopo il fumare, è evidente che il bere è sbagliato e dannoso. Talvolta si possono avere dei risultati positivi dopo aver fatto qualcosa di sbagliato: mangiato molto o bevuto, ecc. Questo può indurre a ripetere quell'azione. Sono errori gravi, che causano sorta di dipendenze realmente serie, non distanti da quelle delle droghe. Anzi, a questo proposito, dobbiamo stare molto ma molto attenti a tutto il campo medico e farmacologico. Anche qui è fin troppo facile scorgere un campo pericolosissimo: basta seguire un po' di forum di canto per vedere quanto frequenti siano le richieste da parte di studenti o giovani cantanti di consigli su cure e medicinali. E quanti consigli vengono subito esposti, anche con apparente competenza. E per contro, quanto ricorso, a mio giudizio del tutto esagerato, si fa alla visita foniatrica. Anche la medicina "alternativa", che viene consigliata e adottata per evitare le controindicazioni della chimica, viene seguita con troppa leggerezza, pensando che i medicamenti naturali siano sempre e comunque innocui, anche se non curano. Questo non è vero, e i possibili danni sono sempre dietro l'angolo. Consumate frutta e verdura in abbondanza, bevete acqua naturale (il gas può creare problemi di stomaco).

domenica, aprile 22, 2012

Il canto "molle" 2

Qualcuno è convinto che si possa cantare senza far fatica. Mi spiace, ma è una pia illusione. Semmai è giusto definire correttamente il significato di "fatica", che non deve avere nulla a che fare con lo sforzo, con il coinvolgimento attivo della muscolatura glottica e faringea, con le tensioni al collo, alla mandibola... ma pensare di raggiungere obiettivi importanti senza sottoporsi a una fatica anche piuttosto onerosa è sbagliato! Non si può raggiungere nessun risultato di rilievo senza un vero senso del lavoro, inteso come esercizio continuo, attento, concentrato, ma anche gravoso dal punto di vista del fiato, che per i motivi già moltissime volte esposti, provoca pressione sul diaframma e che dobbiamo necessariamente imparare a sopportare. Una fatica di sopportazione, quindi, non di "fare", e forse anche una fatica a "non fare" tutta una serie di cose che siamo invece indotti a fare e che ci costa non mettere in pratica (quel "non fare niente" decisamente poco sopportabile da molti), che non è però da confondere con una totale mancanza di impegno e persino di dolori fisici che avvertono coloro che iniziano o che provengono da altre scuole dove magari hanno fatto altri tipi di fatica, oppure sono stati illusi che il canto è non fare realmente niente, e quindi instradati a un canto "molle", senza tonicità, senza reale "fuoco", precisione scultorea della parola, espansione spaziale della voce, squillo, flusso omogeneo e pienamente controllabile mentalmente della voce. Intanto che ci sono rispondo a una osservazione che ho letto su fb: la pronuncia non va perfezionata o migliorata, perché solo Dio potrebbe. Intanto chiedo: ma i corsi di dizione, a cosa servono? i logopedisti, a cosa servono? Ho già scritto mille volte che il parlato quotidiano è rapportato alle esigenze vitali di ciascuno e al proprio stile di vita, nonché ai doni soggettivi, quindi ci sono persone che parlano già naturalmente molto bene, e persone che parlano molto molto male. E' incredibile come, di fronte alla mia richiesta di pronunciare attentamente una certa parola o sillaba, moltissimi si rendano conto di non riuscirci, nonostante il mio costante esempio. E questo è solo il principio, la parte propedeutica. Ma poi c'è il dare senso, significato a una parola, cioè renderla 'vera', autentica, coinvolgente e sincera. Questa è la parte veramente difficilissima, per molti quasi impossibile, specie quando dal parlato semplice si passa a quello intonato, cioè al canto. Ecco, visto che ci sono, chiariamo anche questo punto, visto che alcuni vogliono sminuire il concetto di "parlare intonato" come diverso dal canto. Tutto sta a sapere, a riflettere e a provare. Sono d'accordo e mi pare evidente che una persona qualsiasi può intonare con semplicità una frase parlata, e ciò difficilmente può riflettere un canto artisticamente elevato. Ecco perché ho parlato di una propedeutica perfezionante, e non c'è bisogno di essere Dio per sentire e capire quando una frase è detta bene o male, quando manca la giusta pronuncia di una vocale, quando manca il giusto legame, quando ci sono interruzioni non necessarie, quando cambia il colore, quando ci sono accenti fuori luogo, quando si esagerano alcune consonanti, quando una certa vocale o sillaba risulta "mangiata", quando si corre e si sfuggono certi suoni o quando se ne ostentano altri... Il campionario di errori è infinito, e come ci insegna la fenomenologia, sono milioni di no finché apparirà, limpido, l'unico possibile sì. Quando QUESTO parlato sarà finalmente elevato a parola fluida e con tutte le caratteristiche menzionate, allora, una volta intonato darà il più autentico e valido canto. Ribadisco, qualora ce ne sia bisogno, che tutto ciò è sempre e solo dovuto alla più perfetta educazione del fiato. Il fiato non è "solo" inspirazione, che naturalmente ha la propria importanza anche ai fini educativi, ma è "commutazione" artistica, cioè renderlo idoneo - in espirazione - a un "lavoro" di produzione sonora indipendente dai lavori "animali" di ossigenazione e sostegno del busto.

sabato, aprile 21, 2012

10.000 visite

Cari lettori e amici: il blog "belcanto" sta registrando la decimillesima visita. Un bel record, se contiamo, poi, che pochi mesi fa, a luglio, eravamo a 4.000! Un ringraziamento a tutti i frequentatori, favorevoli o contrari ai principi della nostra scuola. L'augurio è sempre che ognuno possa trovare in queste pagine riflessioni utili e spunti per migliorare il proprio rapporto con un'arte così profonda, piacevole ma complessa come il canto artistico. Ringrazio soprattutto quanti hanno contribuito alla produzione dei post con commenti e suggerimenti che aspetto ancora numerosi nei prossimi mesi. Un caro saluto a tutti!

venerdì, aprile 20, 2012

"Canzonetta sull'aria..."

Post difficile...e lungo!
Premessa: non scrivo questo post come risposta o come controrisposta ad altri commenti; non è una replica, non è voglia di "vendetta" verso alcunché e alcunchì!
Non ne sento la necessità, il dovere o l'impulso. Però le discussioni suscitano, fortunatamente, anche voglia di approfondimento e di riflessione. Credo, o cerco, di dimostrare anche i miei anni, oltreché fisicamente, mentalmente, non andandomi a cacciare in ripicche, sfide o comunque discussioni ormai esaurite; spero che altri facciano altrettanto. Certe questioni, poi, si avvitano su sé stesse anche a causa del pubblico, o meglio della sensazione di essere letti da chi ci approva (e allora sentiamo la necessità di dimostrare di saper tenere in pugno la discussione) o chi ci disapprova (e allora di dimostrare di saper volgere gli argomenti a nostro vantaggio). Questioni, manco a dirlo, di ego, che ci opprimono, ci fanno ragionare e comportare come 'lui' vorrebbe che fossimo, e non come siamo e come forse vorremmo essere.

Chi legge questi scritti, come già a suo tempo quelli del m° Antonietti, ma anche le interviste del M° Celibidache o i post e gli interventi in forum di suoi allievi, tende spesso a rivoltarsi, anche con una certa vivacità, a quanto vede scritto, con frasi ormai consuete e prevedibili: "voi credete di avere la verità in tasca...", "con questa presunzione..."; "quest'aria di superiorità...", "chi ti credi d'essere" e via di questo passo. Ora bisogna porsi un po' di interrogativi, che fanno poi parte della nostra vita, anche. Cos'è la presunzione, cos'è la superiorità? Presunzione, analizzando il termine, vien da sé: Congettura, supposizione, ipotesi. Il più delle volte viene lanciato col significato di "alta opinione di sé", ma non v'è dubbio che etimologicamente viene da presumere, assumere prima. L'incontro-scontro tra opposte fazioni dovrebbe partire dal dato che una delle due è depositaria di dati incontrovertibili su cui poggiano i propri principi fondanti, altrimenti si tratta di due schieramenti entrambi "presuntuosi", cioè nessuno dei due può, al di là di ogni ragionevole dubbio, dimostrare di avere ragione. Chi dà del presuntuoso, pertanto, non fa che ribadire la propria presunzione, perché si sente su un piano di superiorità, ma con quale diritto? Intanto dobbiamo scindere "la superiorità" dall' "aria di superiorità", che è cosa diversa, perché si riferisce a un atteggiamento, un modo di comportarsi, di atteggiarsi, di parlare, che vuol mettere in inferiorità gli altri partecipanti. La "verità in tasca" invece si riferisce a chi vuol sempre avere ragione, adducendo semplicemente la propria abilità - anche solo dialettica - senza portare dimostrazioni o prove di un certo peso a sostegno delle proprie argomentazioni. Spesso il "puntello" alle opinioni sono libri, trattati, citazioni di personaggi più o meno celebri e riconosciuti da una maggioranza comunque come importanti e depositari di concetti di elevato spessore. Gli scrittori non possono che dimostrare il proprio livello conoscitivo, non possono avallare gli scritti di coloro che li citano, laddove le citazioni riportate vengono interpretate, espunte, decontestualizzate. Quanti insegnanti, trattatisti, teorici, nel corso del tempo si sono basati su scritti anteriori? Ma spesso argomentando in modo divergente da altri. Quindi la citazione di per sé non può essere un attestato di verità. Peggio ancora quando a sostegno di una tesi si porta... ciò che non ha scritto! Se un certo trattatista non scrive di registri, vuol dire che i registri non esistono? Se non parla di respirazione, vuol dire che non si fa, che non è importante, che non esiste? Ovviamente no, sono dati persino paradossali, ma da non trascurare.
I miei scritti, che possono leggersi e consultarsi su questo blog e nel sito, sono sicuramente discutibili, in quanto scritti, perché in questa forma, come recita il trattato dell'88 nelle sue prime righe, non si può insegnare per iscritto un'arte operativa come il canto. Quindi chiunque è libero di non credere a niente di quanto vado dicendo e di non volere discutere e cercare di ottenere dimostrazioni pratiche. Queste ultime sono le uniche possibili, cioè sentire dalla mia viva voce, provare su sé stesso mediante lezioni, se secondo lui sto raccontando storielle o i principi su cui mi baso hanno o no un fondamento. Sono le stesse cose già presenti nella premessa. Chiunque, sia esso cantante, insegnante, allievo, simpatizzante, presunto esperto, se, però, senza queste dimostrazioni o prove, ci accusa di saccenteria, di presunzione o altro, deve prima specchiarsi, cioè badare a non cadere automaticamente nella stessa accusa. Sull' "aria di superiorità"... resto perplesso. Chi mostra un'aria di superiorità di solito non discute e non argomenta, ritenendosi dalla parte del giusto. Ammetto che talvolta ho voglia di non discutere, lasciar perdere, "ritirarmi sulla torre d'avorio", come ho già scritto e come sono stato accusato di fare, perché in realtà la discussione è quasi impossibile, perché ognuno, che lo dichiari o no, è portatore di verità. Ognuno esprime la propria verità, e molto spesso lo scrive senza rendersene conto! "le cose non stanno così", "non è come dici tu" per arrivare addirittura a "la verità non esiste": una dichiarazione che più contraddittoria non si può, laddove si prende atto che di fronte a ciascuna affermazione, implicitamente c'è sempre "la verità è che...". La parola verità fa paura, ma alcuni riescono a superare l'impatto terminologico e sono disponibili a considerarla. Allora, se c'è la verità, c'è anche la superiorità, perché è evidente che la verità non è a portata di tutti. Si può discutere se è raggiungibile da chiunque, ma al momento non è questa la sede per affrontarlo. Chi è superiore e chi può dimostrarlo? Anche questa è una situazione quasi irrisolvibile, perché la verità ha in sé un principio di difesa per cui non può e non deve essere diffusa né unanimemente riconosciuta. La motivazione per molti sarà facilmente intuibile. Anche le dimostrazioni pratiche non sono conclusive e inoppugnabili, perché non esiste un risultato artistico unanimemente riconoscibile (e questo perché l'uomo non è dotato di strumenti di rilevazione così ampi). Anche le bellezze greche o rinascimentali sono riconosciute e indiscusse solo a livello di critica, ma per le masse sono per lo più incomprensibili e non di rado anche ritenute sovrastimate. Nel canto qual è il cantante unanimemente e indiscutibilmente riconosciuto/a come esempio perfetto? Nessuno. Non perché non ci sia realmente, ma perché non tutti, anzi pochi, sono in condizioni di riconoscerlo! Altra crudele trappola della verità. Dunque, esiste la verità ed esiste la superiorità, per quanto nel mondo delle relazioni umane, alcuni tendano a manifestarle senza possederle ed altri, possedendole, non le manifestano per non essere accusati di presunzione. Ma quest'ultimi talvolta sentono la necessità o si trovano nella situazione di doverlo mostrare, con tutte le conseguenze che si possono immaginare. Allora, chiederà qualcuno leggendo: tu affermi di possedere la verità, e pertanto ti senti superiore? No, non lo affermo. Faccio altro: esprimo concetti, che ritengo profondi e importanti; li diffondo e cerco di entrare in contatto con altre persone che per vari motivi ritengo posseggano le condizioni per poterli condividere. Come ho scritto all'inizio, si possono benissimo rifiutare a priori, quindi non discuterli, oppure? Di solito o vengono accettati, magari un po' superficialmente, oppure rifiutati MA con la tecnica della demolizione sistematica (come sappiamo la verità è l'uno, verso cui tende l'uomo - cioè la divinità o perfezione - ma altre forze spingono alla frantumazione, alla demolizione, che anche l'uomo attua sistematicamente, come ogni cronaca ci mostra). Perché gli esìmi insegnanti, cantanti, cultori, prima di rifiutare e cercare ogni sbaglio e ogni contraddizione nei miei principi ispiratori, non provano a dire: e se avesse ragione? e se le cose stessero così? perché non provare a empatizzare e vedere le cose da un punto di vista diverso dal proprio? Beh... il motivo c'è, e non è di poco conto! La sicurezza, l'amor proprio, la paura! Mettersi in discussione è una prova eroica, qualcosa che in alcuni casi va oltre le possibilità umane standard. Leggere qualcosa e riconoscere che quel concetto può incrinare le proprie sicurezze, la propria verità, non può che suscitare timore e persino paura. A questo non si può che reagire dimostrando, anche mentendo a sé stessi, che le cose non stanno così, ma come noi abbiamo sempre pensato e che non c'è niente da cambiare, un incidente di percorso.
Naturalmente si può dire lo stesso a me. Ma è proprio la peculiarità, la 'semplice complessità' del canto fondato sui principi che vado esponendo da qualche decennio, che mi hanno fatto conoscere tutti gli altri, attraverso cui sono passato e a cui riconosco prerogative e spunti positivi. Non si tratta di conoscere e disprezzare, sport che lascio ad altri, ma conoscere e annettere, selezionando quanto può essere valido ed escludendo quanto può essere dannoso, a ragion veduta. Ogni scuola e ogni insegnante, se non proprio "macellai", son riusciti a ottenere risultati, nel senso di cantanti operanti, in carriera. Non è detto che questo sia un dato sufficiente, ma è un dato, che a molti basta. Se è così ognuno può avere qualcosa da dire, pertanto mi interessa e lo analizzo, e cerco cosa ci può essere di interessante, cercando anche di comprendere le ragioni del loro operare.
Qualcuno può affermare, o afferma, che la mia scuola non sia realmente naturale, perché si parla di pressioni, di movimenti labiali, di forme vocali, di istinto da domare, e così via. L'errore di valutazione sta nel pensare che per ottenere un qualunque risultato qui si suggeriscano forme, si inducano pressioni, forze, ecc. Non è così. La natura umana non è paragonabile a un manichino che lasciato molle potrà esprimere un risultato artisticamente apprezzabile, anche se non necessariamente negativo. Nell'uomo le forze agiscono, parte volontariamente parte involontariamente. Le forze involontarie, comunque si vogliano chiamare, possono agire a favore delle nostre iniziative, o contro. Noi sembriamo avere due possibilità: seguire la loro direzione, od opporsi. Entrambe le scelte si rivelano sbagliate. Se le assecondiamo ci troveremo nel mondo della mollezza; non uso questo termine per disprezzare, ma per illustrare un dato evidente: le nostre forze interiori ci spingono a poltrire, a rilassarci, a non stancarci. Non sentire alcun peso, non avvertire tensioni, cioè attuare ogni strategia per evitare qualsiasi pressione, tensione, ecc., non farà che indurre a un assorbimento delle energie, cioè a una "non" manifestazione di esse. Opporsi alle forze interne, significa condurre una battaglia che non può essere vincente, perché le forze sono a un livello che precede il nostro pensiero, e quindi possono inibirne le azioni. Siccome l'uomo può avere necessità, per la propria stessa esistenza, di sviluppare le proprie forze e i propri movimenti, ha un margine di tolleranza, di cedimento; quindi noi anche cantando con forza, con i muscoli contratti al massimo, con tutto quanto può esserci di più antivocale, antinaturale, illogico e insensato, possiamo ottenere risultati interessanti, e questo è sempre avvenuto, specie tra i giovani, che ovviamente hanno più forza, più elasticità, più motivazione e fretta,e quindi possiamo essere convinti che usare la forza sia la strada giusta, come lo crede chi toglie ogni forza. Tranelli della verità. Nella mia scuola agisco seguendo una terza strada, che pochi avevano intuito prima di Antonietti, e cioè aggirando queste forze. Cosa significa? Le forze naturali interne all'uomo non sono così imprevedibili e "intelligenti", proprio il contrario! In quanto forze "antiche", cioè esistenti in tutte le forme animali con poche varianti, e agenti per motivazioni chiaramente comprensibili, con poco intuito siamo in grado di anticipare e prevedere le loro reazioni e dunque mettere in campo strategie che possono ingannarle, e quindi raggiungere quella "pacificazione" che consentirà ai fortunati discepoli di acquisire non più una tecnica ma un "senso" in più. In altre parole trasformiamo qualcosa di "non compreso" (se non vogliamo definirlo innaturale), in qualcosa di "compreso", appartenente. Se è così, ed è così, io non ho bisogno di dire che la pressione si situa nel palato alveolare. Non ne ho alcun bisogno, posso benissimo tacere. Se già non c'è naturalmente, cosa che talvolta capita, gli esercizi (normalissimi esercizi di parlato, senza alcuna richiesta specifica, senza declamazione, senza correzioni che non siano semplici richiami al dire bene) porteranno automaticamente alla formazione di quel "polo". Non ho bisogno di dire come mettere le labbra o la bocca, che può essere una "scorciatoia", ma non indispensabile. I regolari e "naturali" esercizi, porteranno automaticamente la bocca a prendere la serena, armoniosa e bella posizione che ammiriamo in chi canta bene. Idem per la lingua, la gola, il palato molle. Tutto ciò che indichiamo come esemplare è sempre frutto di esercizi semplici e naturali. Purtroppo, questo sì, proprio perché noi agiamo in un campo di forze, per un periodo di tempo variabile ci troveremo ad affrontare queste forze. Anche noi possiamo ignorarle e assecondarle (togliendo il peso, cantando sussurrato, in falsettino, senza voce), ma sovente ci si deve anche confrontare e in questa fase l'impegno sarà elevato. Si tratta, però, di impegno passivo, cioè da sopportare in una logica "a togliere", fin quando ci riusciremo a rendere conto che il canto sgorga da sé, con sempre minor impegno, fino al risultato straordinario e inimmaginabile, di un cantare come si parla, solo con la volontà e un minimo impegno posturale. Nessuno è obbligato a crederci, nemmeno i miei allievi, molti dei quali non leggono questo blog, alcuni giusto qualche pagina qua e là. Ma va bene così, non è necessario, è sufficiente la lezione. Non c'è nemmeno da insistere con nessuno; è, in fondo, un esercizio. Qualcuno potrebbe anche pensare che scrivo per convincermi di quanto dico. Beh, invece non è così. Tempo fa lessi alcuni scritti del m° Antonietti che non riuscivo a comprendere. Arrivai a pensare che forse c'erano dei "buchi", qualcosa di errato. Il dubbio è un tarlo malefico! Riflettevo e provavo a immaginare, ma la soluzione non giungeva. Buchi di questo genere possono realmente distruggere un intero sistema; trattandosi di principi olistici, cioè di relazioni totali tra gli elementi, la perdita di uno solo può vanificare il tutto, l'uno. Ebbene, nei momenti più imprevedibili, facendo lezione, o guardando qualcosa o qualcuno che per qualche motivo imponderabile mi ha riportato a quel pensiero, persino di notte, improvvisa e illuminante mi è giunta ogni risposta, ogni intuizione risolutiva, semplice e perfetta. E ogni volta la domanda: "ma come avrà fatto?" (talvolta se lo chiedeva anche lui). Qualcuno, infine, mi taccia di idolatria. Beh, ho dedicato alcuni post al M° e non è il caso che mi rimetta a scrivere in merito. Un conto è l'uomo, un conto un pensiero, un'idea, una poetica, un principio, un valore. Sicuramente sono stato conquistato da queste ultime, non potendo scordare, peraltro, colui che mi ha portato a conoscerle, con tutti i difetti che l'uomo può avere. Forse qui, ho il sospetto, visti gli attacchi personali perpetrati, qualche traccia di invidia la si può scorgere. Anche questo è umano, comprensibile e perdonabile.

domenica, aprile 15, 2012

Caro mio ben - esempi

Iniziamo da una versione storica femminile: Amelita Galli Curci. Tralasciamo l'introduzione strumentale per motivi evidenti. Bello il "caro" iniziale, ma anche lei cade nell'errore del "miò"! Poco corretto anche il "se-n-za" successivo, ma piuttosto frequente nei cantanti dell'epoca (fa lo stesso con "la-n-guisce". Trovo disdicevole che dopo il salto ascendente "te" prenda un fiato molto evidente. Ritengo che "senza di te languisce il cor" debba essere fatto in un unico fiato. Il "B" non si "carica" di tensione, però raggiunge l'acuto con un portamento molto significativo che dà giusta luce al momento musicale. Molto bello il collegamento alla ripresa con un portamento di grande effetto senza presa di fiato, che sarebbe il modo migliore, ma non tutti ce la fanno! La coda piuttosto incolore, tranne l'invenzione di un acuto in portamento, eseguito con maestria, e tutto sommato perdonabile sul piano stilistico. Eccessiva la corona sulla I, fuori misura. Ottima esecuzione, nel complesso, ma non memorabile.

Sul versante maschile inserisco Mattia Battistini, perché a fronte di qualche arbitrarietà, fa cose da artista di razza! L'introduzione col piano non è malaccio. La prima frase già la dice lunga: attacco morbidissimo, sognante. Il senso unitario, "la fine contenuta nell'inizio" qui c'è tutta! Già c'è il senso della perorazione, della richiesta amorosa e affettuosa, il "tragico-ironico" della situazione. Meraviglioso legato e il "mìo" detto come meglio non si potrebbe. Anche il "credimi almen" è recitato da grande attore, con un vero senso teatrale. Stiamo parlando di un' "arietta" da studentelli, ma qui abbiamo un'esecuzione, come giusto che sia, da accademia! Trovo, a questo punto, invece esagerato e poco piacevole il portamento discendente, anche troppo forte, su "languisce", che in questa fase ritengo più corretto sia eseguita piano. Sempre molto bene la ripetizione-conferma, con qualche portamento e intensificazione di troppo. Ritorna nel "B" il geniale e indiscusso grande cantante-attore a cesellare "il tuo fedel" in un pianissimo nuovamente sognante; il percorso che porta all'acuto è eccellente, mi spiace solo che prenda troppi fiati e interrompa la prima frase e poi, più gravemente, la successiva (cessa / crudel). Meravigliosa però la chiusa in pianissimo; avrei sentito meglio se avesse continuato in pianissimo in un leggero crescendo, invece alterna forti e piani poco logici, però giunge alla ripresa, come la Galli Curci, con un portamento pianissimo da manuale, anch'egli senza presa di fiato e quindi prosegue con una mezzavoce "lunare" bellissima, peccato sporcata da una eccessiva spinta del "te" all'acuto. Molto belle le due frasi della coda sempre in piano, che però avrebbe potuto crescere leggermente, mentre prende piacevolmente mezzo forte l'acuto rinforzandolo senza esagerare. Trovo poco logico poi spezzare "senza / di te" con la seconda frase in pianissimo. Nuovamente portamento da manuale e buona conclusione, con una O, però, troppo larga (ma anche qua e là per il brano se ne sentono) e ingiusificatamente un po' in crescendo. Esecuzione nel complesso di sicuro riferimento.
Non posto l'edizione della Caballé, chi vuole la vada ad ascoltare. Tolta la bella voce, l'esecuzione è modestissima. Molti suoni vanno decisamente indietro, fiati sballati, con prese d'aria fuori luogo, piani e forti senza alcuna logica oltre a parole sbagliate nonostante abbia la parte davanti!! Molto meglio Carreras; senza tante pretese, la esegue con molta professionalità. Anche Pavarotti non la fa male, con qualche "ta-n-to" di troppo e qualche suono qua e là indietro, ma nell'insieme godibile. Al limite dello scandaloso l'esecuzione di Bruson. Buttata là come dire: togliamecela di torno in fretta questa porcheria! Tutta forte, senza alcun criterio di fraseggio, di intenzione... veramente censurabile. Ne esiste anche una versione con organo (insopportabile) persino peggiore, se possibile, con una vociferazione verdiana inappropriata. Ne esiste una versione non disdicevole cantata dalla Gheorghiu, ma insopportabile per l'orchestrazione "moderna". Senza "sale", poco significativa, una versione con la Freni mal registrata nell'84. Direi anche da dimenticare la realizzazione di Hvorostovsky, sia per la voce affondata che per l'orchestrone inappropriato, ma anche per la sbrigatività e superficialità esecutiva; niente a che spartire con quanto ci fa sentire un De Luca settentenne!!! D'accordo, la voce non avrà più la fermezza di un tempo, ma quale semplicità, bellezza e verità. E nonostante l'età anche che bel fiato alla fine, che bel portamento e che meravigliosa tavolozza dinamica.
Ma Lauri Volpi la registra addirittura a 80 anni!!!! E che meraviglia. Esecuzione sicuramente da consigliare. Un mattatore come Lauri Volpi che esegue con questa dedizione e umiltà questa arietta è una grande lezione per tutti coloro che pensano che esista musica facile!!
Tito Gobbi, che esegue l'aria con clavicembalo e chitarra, avrebbe potuto far molto meglio; c'è qua e là la buona intenzione, ma non molto di più (oltretutto su una tonalità un po' troppo bassa). Delude anche Ezio Pinza, incomprensibilmente "orco". Il fraseggio è buono, da par suo, ma poco convinto nelle intenzioni e quindi poco convincente. L'esecuzione di Carlo Bergonzi è ragguerdevole sul piano vocale, ma indigesta su quello stilistico. E' tutto un portamento e un sospiro che nemmeno Gigli forse avrebbe sopportato! Direi che Alfredo Kraus la esegue, dal punto di vista stilisto-musicale, come meglio non si potrebbe. Come capita spesso, è piuttosto distaccato, freddo, poco partecipe di quanto dice, può risultare piatto nella pronuncia (e infatti questo audio-video si trova in 12^ pagina!!), però non v'è dubbio che si tratta di una realizzazione di gran classe, da non sottovalutare, oltretutto eseguita in una tonalità altissima con estrema facilità.
A parte le insopportabili smorfie (che non capisco se vogliano essere una partecipazione espressiva al testo o siano correlate all'emissione - o tutte e due le cose) il video della Bartoli dice poco e niente. Si sente poco bene (o lei si sente poco bene), c'è un "qual tremore insolito" nella voce e sul piano del fraseggio e dell'intenzione non colgo niente di significativo. Esiste pure una esecuzione di Richard Tucker con archi niente male, seppur un po' troppo opulenta vocalmente. Curiosamente su youtube c'è anche un audio più che discreto di quest'aria da parte del tenore Giovanni Manurita. Tra le innumerevoli ancora presenti, più che altro saggi di studenti o prove di esibizionisti, segnalerei ancora la registrazione del 1903 del contralto Ada Crossley, allieva della famosa Mathilde Marchesi. La voce è interessante, ma nell'insieme non mi pare un'esecuzione da segnalare; la voce è spesso fissa, in certi momenti pare "raffreddata", e sul piano del fraseggio e delle dinamiche poco significativa. Anche peggio la versione di Clara Butt, del 1910, anch'essa contralto. Altro non vi saprei narrare...

sabato, aprile 14, 2012

Caro mio ben

Riprendendo una sana consuetine, analizzo il brano "Caro mio ben", guida musicologico-vocale. Anche in questo caso mi riferisco all'edizione curata dal Parisotti, datata e discutibile sotto l'aspetto stilistico e filologico, ma tutt'ora molto in uso.
Il brano è di dubbia attribuzione: potrebbe essere di Giuseppe Giordani, detto il Giordanello, come riporta Parisotti, di altro Giuseppe Giordani oppure del di lui figlio Tommaso, tutti napoletani.
Questa versione è scritta in mi bemolle maggiore, in quattro quarti, e si presta ad esecuzioni per tenori e soprani agli inizi degli studi, o baritoni e mezzosoprani già un po' avanti.
Quattro battute introduttive, ricalcanti il tema che sarà cantato tra poco. La prima battuta è acefala dei primi due quarti. E' interessante notare nella mano sinistra, una scala ascensionale dal mib al do, in controtendenza alla melodia che tende a scendere. Nella seconda metà della seconda battuta l'incipit è ripetuto alla sottodominante e anche nella terza battuta inizia in sottodominante (su una posizione più bassa) e varia in forma di cadenza (III, IV e V grado) per riportarsi sulla tonica. Secondo me il brano va iniziato con una intensità piuttosto forte e deve decrescere fino all'inizio della quarta battuta, dove cresce momentaneamente (verso la dominante) per chiudere in pianissimo all'inizio della quinta, dove entra il canto. I primi errori che si riscontrano nell'approccio a questa pagina consistono nel dire "miò bèn", invece di "mìo bèn", a causa della figurazione di croma, più veloce, su quella parola, e lo spezzare in modo cantilenante le prime frasi. Il brano è piuttosto riflessivo, quindi va eseguito a un tempo non rapido, e pertanto anche la croma permette tutto il tempo per pronunciare correttamente la I con la giusta lunghezza. Se pur è vero che dopo "caro mio ben" c'è una virgola, è da ritenersi antimusicale prendere un fiato o determinare una cesura, per cui "caro mio ben credimi almen", è già scritto benissimo e non necessita di alcuna sosta. Anche qui, seguendo la scrittura, l'esecuzione partirà con una discreta intensità, che andrà a decrescere su "almen". Il "senza di te", come nell'incipit, tornerà a crescere per dare rilievo al "te" che si può considerare il punto culminante della prima frase. Il "languisce il cor", su un accordo diminuito prima e poi in settima di dominante, è di scrittura alquanto bassa, ed è da eseguire anche molto piano, nel rispetto dell'"affetto" che si vuol conferire alla frase, evitando di dare troppo accento (per reazione) al "cor". Abbiamo a questo punto la ripetizione-conferma, che esclude però il "credimi almen" e giunge subito al "senza di te" con una variante perorativa, espandendo il "te" a un intervallo ascendente di quarta fino al mib acuto; il termine della frase, "languisce il cor", può essere quindi eseguito con maggior forza ripetto alla prima esposizione, e chiudendosi, pur in diminuendo, non in pianissimo, e permettendo così l'apertura al B, introdotto da una breve figurazione strumentale di due misure. Il B, data la brevità del brano, inizia subito un moto ascensionale e di maggior vivacità e tensione. E' possibile realizzare anche un tempo leggermente più mosso, facendo attenzione a non lasciarsi prendere la mano...! "Il tuo fedel sospira ognor" ancora da eseguirsi senza interruzioni e fiati è decisamente in crescendo (come indica anche Parisotti). La sequenza inizia sul tono di dominante (si), con interessanti contrasti generati perlopiù da ritardi che il pianista dovrà far emergere. Ad esempio su "(fe)del" il piano mantiene il sib in contrasto col do del canto; egualmente, nella battuta successiva, su "(o)gnor", il piano mantiene un do mentre il canto è salito al re sull'accordo di si. "sospira ognor" inizia con un accordo di fa settima (dominante della dominante) e si riporta in dominante per sostenere il fa acuto di "cessa crudel" che possiamo considerare il punto massimo del brano, piuttosto dimesso dal punto di vista della tensione musicale, valorizzato più che altro dall'impeto canoro col quale si chiede all'amante di cessare "tanto rigore"; sarebbe buona cosa, sempre con abilità, trattenere appena il tempo su questa frase. A questo punto però il brano è decisamente modulato a si bemolle, e inizia, quindi il "ponte" che ci riporta "a casa". Il secondo "cessa crudel", ovviamente meno ieratico (per non offendere!), scende al mib quindi ancora più piano, il "tanto rigore", che viene ripetuto con più forza (notare il gioco testuale molto delicato: la ripetizione declamata non è più su "cessa crudel", che potrebbe diventare quasi un'imposizione, ma sul "tanto rigor", una affettuosa richiesta). Il termine della frase, ancora in sib, ma ridiventata dominante grazie all'accordo di fa 7^, realizza il collegamento alla ripresa di "caro mio ben" grazie a una legatura espressiva - che viene perlopiù eseguita con delicato portamento. La ripresa non è calligrafica, perché dopo due battute si apre (sull'accordo di do maggiore, cadenza d'inganno) una coda; pertanto non ritengo fuori luogo l'uso di cantare la prima frase tutta in pianissimo. La coda, come spesso avviene, ripropone un suo percorso tensivo, che ovviamente non può superare quello del brano, ma è comunque da seguire e valorizzare. La presenza della coda è senz'altro da considerare un elemento di qualità, perché evita la ripetizione fine a sé stessa, difficile da orientare, se non con variazioni non sempre idonee e di buon gusto. Sulle frasi "caro mio ben, credimi almen" abbiamo una ripetizione, sulla identica armonia Re minore 7^ - Si bemolle 7^ - Mi bemolle. Ciò che orienta l'esecuzione è la direzione del punto massimo (della coda) sul mib di "senza di te" sul bellissimo accordo di mib con la sesta al basso (e anche qui non può sfuggire che il punto forte - diciamo pure finalmente - non è più una perorazione o un'accusa, per quanto amorevole, ma una dichiarazione d'amore!). Quindi da "caro mio ben" si dovrà crescere (senza respiri fino alla pausa) fino al "senza di te", che non dovrà diminuire se non sulla, nuovamente, espressiva legatura sulla "e" finale al mib acuto, da farsi molto piano. Piacevole nella sua sospensività, anche se ingannevole (infatti molti ci cantano sopra, oppure sbagliano l'attacco sul sol successivo), l'accordo di la bemolle isolato che precede la conclusione "languisce il cor", ovviante "a chiudere".

Il pedegree

Eh sì! Se qualcuno volesse il "pedegree" di questa scuola, ora c'è! Abbiamo scoperto che le origini della nostra scuola sono molto molto nobili.
Dunque, come ho già scritto in passato, il m° Antonietti trovò la sua migliore scuola nel m° Giuseppe Giorgi, anche se aveva studiato con altri, tra i quali Piero Magenta, altro insegnante non di poco conto. Il m° mi diceva spesso che Giorgi aveva studiato parecchi anni con "la Donzelli", il cui nome incute un subitaneo rispetto, ma di fatto non sapevo chi fosse! Compulsando un vecchio libro di Daniele Rubboli sulle voci ferraresi, che avevo, ma da decenni non aprivo più, un allievo scopre che "la Donzelli" altri non era che Elisa Stefanini, che andò in moglie a uno dei figli del grandissimo tenore Domenico Donzelli, Ulisse, valente musicista. La Elisa Stefanini fu cantate di valore e grande insegnante (esercitò a Bologna e Ferrara), allieva nientemeno che di Lamperti! In secondo luogo, Ulisse era figlioccio di Rossini, e per le nozze dei due il grande pesarese realizzò anche uno scritto:
*Parere musicale del celebre cav. maestro Gioacchino Rossini, dato il 12 maggio 1851 e reso alle stampe / da Ferdinando Guidicini. - Bologna : tipi Fava e Garagnani, 1867. - [4] c. ; 27 cm. ((Dedica in cop.: All'esimio giovane Ulisse Donzelli valente maestro di musica quando faceva sua per sempre la cara fanciulla Elisa Stefanini, congratulazioni d'un amico.
Dunque, se si vuol credere alle "stirpi", la nostra scuola deriva in linea diretta dai Lamperti, e indirettamente da Domenico Donzelli e Gioachino Rossini. Alla faccia del belcanto: più di così cosa si vuole?

venerdì, aprile 13, 2012

La distillazione

Questo titolo mi dà lo spunto per due metafore, assai lontane tra loro. La prima cui voglio far riferimento è la distillazione di sapere, di conoscenza. Bisogna riconoscere che, nel bene e nel male, un po' tutti gli insegnanti col tempo "distillano", cioè abbandonano ciò che hanno sperimentato non essere efficace ed utile da quanto lo è. Ovviamente a patto di avere anche strumenti positivi, ma, come avevo già detto, in fondo ognuno una qualche "tecnica", metodica, la trova. Esiste anche la possibilità del contrario, e cioè che qualche insegnante non demorda dall'applicare ottusamente e sistematicamente un metodo imparato magari teoricamente, incolpando poi sempre gli allievi di non farcela, di non avere possibilità, di non applicarsi, di non essere tagliati, di non avere talento e via dicendo. Può essere vero che ci siano persone poco versate nell'apprendimento di una certa materia, indipendentemente dall'interesse e dalla volontà, ma questo inciderà più che altro sul tempo di apprendimento, ma non sulla possibilità intrinseca. Può anche essere una necessità di qualche insegnante il non volersi dedicare a chi non mostra immediati segni di pronta attitudine, per svariati motivi; diverso è il caso di insegnanti che con questa scusa vogliono solo trovare un escamotage per alzare le proprie quotazioni o mostrare il proprio ingombrante ego. Se l'insegnante è capace non umilierà mai l'allievo, a meno di comportamenti evidentemente scorretti, maleducati, offensivi; dire la verità è un conto, ma il modo è sempre quella caratteristica che contraddistingue la persona ignorante da quella realmente colta, che non significa istruita, con diplomi, ecc. Dunque il grande, l'ottimo vero maestro, prosegue per tutta la vita a distillare, cioè a rendere "laser" il proprio insegnamento, sempre più semplice, sempre più fruttuoso, perché sa comprendere al volo ciò che serve a ciascun allievo in ogni momento, e non si rifà a un metodo standard, ed è sempre pronto a cambiare e a "inventare" esercizi o a modificarli a seconda dei problemi riscontrati e a quanto, in base alle conoscenze e all'esperienza, sa essere opportuno in quel momento. E' così che talvolta nascono "i miracoli", cioè situazioni che sembrano inamovibili, incancrenite, che grazie all'intuizione del momento (non arbitraria, ma fondata sul sapere) vengono sbloccate e danno luogo a improvvise e risolutive eccellenti esecuzioni.
Il concetto di distillazione, però, mi era sorto in un'occasione diversa e per motivi prettamente canori. Capita abbastanza spesso che l'allievo riesca a emettere con la giusta levità, leggerezza, spiritualità una vocale. Il problema che si manifesta è il passare a un'altra vocale, per la quale l'allievo mette di mezzo i muscoli, e non riesce a cogliere la differenza di sostanza tra i due. Allora l'alambicco può aiutare! La distillazione è un processo chimico volto a separare diversi componenti di un materiale, dove la parte più solida, impura, resta sul fondo, e le parti più nobili, pure, evaporano (spirito - alcool) e si andranno a condensare in altro recipiente. Allora noi dobbiamo anche ritenere che il suono vocale possa, in determinate fasi iniziali, essere considerato come costituito da una parte impura e una nobile, e la nostra disciplina consenta proprio di realizzare una sorta di distillazione, ove sulle labbra giungerà solo il prodotto puro e spirituale (ma che non significa privo di forza, di energia, di "corpo" - si vedano la benzina o l'alcool, che pur essendo prodotti di distillazione, rappresentano esempi di forti cariche energetiche), scevro dalle interferenze muscolari, valvolari e quant'altro. Questo che è un discorso generale, può particolarmente rappresentare un ausilio nel passare da una vocale a un'altra - o ad altre - meno valide perché più muscolari e fibrose. Il suggerimento, quindi, dovrà essere quello di un riferimento alla torre di frazionamento, dove alla base c'è la massa di petrolio, denso, scuro, pesante, che viene riscaldato provocando il vapore che andrà a condensarsi sui piatti della torre. Il nostro canto sarà una sorta di vapore (evitando però l'effetto "phon" o sfuggite di aria) che andrà a condensarsi sulle labbra. All'inizio sarà difficile perché sentire il suono che sfugge alla presa dei muscoli faringei farà pensare a un suono che perde caratteristiche di intensità, di timbro, di volume, e quindi si farà molta resistenza. Quando finalmente, dopo ripetute sollecitazioni ed esempi, l'allievo si deciderà a "mollare" la massa densa e scura del suono (ed ecco che la laringe non sarà più coinvolta ma potrà trovare la propria sede idonea) per lasciar andare il prodotto puro e aereo, si renderà anche conto che quel suono non risulterà piccolo e insignificante come immaginava, ma forte, chiaro, vero, bello. Cin cin.

mercoledì, aprile 11, 2012

Imparare dall'acqua.

L'acqua minerale è acqua che filtra tra le rocce, fluisce, scorre finché trova un punto ove sgorgare. Questo lungo, anche lunghissimo, percorso (addirittura, ho letto, che può impiegare DECENNI a formarsi), permette all'acqua da un lato di purificarsi e dall'altro di arricchirsi di elementi che la rendono cristallina, ma anche piena di elementi che la rendono frizzante (non solo o non tanto nel senso effervescente), salutare, vitale. La voce compie un procedimento analogo, partendo dalla laringe e poi sviluppandosi negli infiniti e riposti meandri della conformazione anatomica umana soggettiva. Al contrario delle montagne e delle rocce, che sono fisse e immobili, il flusso vocale passa attraverso forme mobili, non solo cedevoli alle esigenze del suono, purtroppo, ma a tutt'altri stimoli, parte volontari parte non, che impediscono, rallentano, deviano, stringono questo percorso. Anche la voce cerca un punto ove sgorgare; il più giusto e logico è la bocca, ma non di rado si cerca un punto diverso, oppure, pur non volendolo, essa viene indirizzata inconsciamente o inconsapevolmente verso il naso (vedi i vocalizzi a bocca chiusa, che non tutti si rendono conto essere nasali). Quando la voce può uscire liberamente dalla bocca, morbidamente atteggiata secondo le esigenze delle parole da pronunciare, essa, come l'acqua minerale, risulterà viva, e ricca di tutti quegli elementi che la rendono "frizzante", vivace, vera. Pur avendo raccolto elementi lungo tutto il tragitto, la sua nascita risulterà come indipendente e distaccata dal corpo, come se fosse (come è, in certo qual senso) l'aria stessa dell'ambiente a vibrare, a cantare, infiammata da una scintilla del pensiero. L'aria della bocca e della gola, invece, deve rappresentare solo un mezzo di trasferimento neutrale. Si pensi al terribile tzunami. In un punto dell'oceano ha luogo un forte terremoto: guardando il mare, nulla si scorge! a distanza di centinaia di km, dopo un lungo periodo di tempo, quello spaventoso impulso d'energia, che ha attraversato le distese oceaniche invisibilmente, avvicinandosi a una costa, si alza e si trasforma in una valanga d'acqua impetuosa e travolgente. Il bravo cantante, che sa moderare la propria impulsività e contenere le forze che lo guidano (e lo seducono), potrà trovarsi avanti la bocca uno tzunami di suono, che si propagherà immenso in tutto l'uditorio.

sabato, aprile 07, 2012

"La Natura di prima mano"

Ho letto un commento dove si dice: "ma non è meglio se nei conservatori e nelle accademie vanno solo i telentuosi, quelli già dotati, e gli altri stanno a casa?". No, non è affatto meglio, non può venirne che una grave decadenza dell'Arte. La pulsione artistica, cioè la voglia di realizzare qualcosa di importante, di grande, indipendentemente dal successo che questo potrà portare al soggetto, che può essere un po' l'esca, la motivazione esteriore, non è necessariamente legata al possesso di mezzi idonei. Questo è purtroppo anche causa di profonda infelicità, di frustrazione e persino suicidio (si veda il film Amadeus). Non so se ci sia qualcosa di peggio di voler fare con una determinazione vitale qualcosa e prendere atto, dopo un certo tempo, di non poterlo fare per mancanza di capacità. A volte questo sfocia nella nascita di un artista strepitoso, come è avvenuto per Antonietti, che conquistò a suon di "testate nel muro" una conoscenza vocale fuori dell'ordinario, ma il più delle volte porta a lasciar perdere o accontentarsi. Ma, se i mezzi non sono troppo inconsistenti, è proprio dalle situazioni modeste che emergono i grandi artisti. Si vedano Schipa e Pertile, che con voci non particolarmente belle, conquistarono un regno nel paradiso dell'Arte, ma tanti altri sono stati nella stessa condizione. Viceversa i cantanti con belle voci sono stati tantissimi, ma in quasi tutti i casi il successo si è limitato al fatto esteriore, estetico e quasi sempre ne è seguito un percorso in diminuendo, cioè verso la decadenza, perché il possesso di buoni mezzi per quasi tutti è una qualità sufficiente, da non richiedere approfondimenti, specializzazioni, ripensamenti. E' sempre la storia dell'Ego, che viene soddisfatto dal successo, dalla facile glorificazione di amici e parenti e dai fan che inderogabilmente arrivano. Buon per loro e va bene così. L'Arte da questi non riceve altro; al contrario un grande, per quanto "povero", può realmente segnare un posto nella Storia e diventare modello, esempio perché questa possa mantenersi in vita ad alti livelli. Bisogna imparare ad ascoltare; anche nell'ascolto occorre l'umiltà e la disponibilità.
Poi c'è un'altro discorso, però. E' facile insegnare a chi ha già i mezzi! Posso praticamente non fare niente, come so che è capitato a tanti cantanti (che definirei persino fortunati!!!). E in compenso non do asilo a chi, pieno di volontà e passione, potendo fare ma avendo bisogno di una guida, rimane alla porta. E' etico? Allora in nome della natura (perché il discorso sarebbe che solo le voci "naturali" cantano) io condanno l'Arte. Preferisco avere cento allievi pieni di problemi, con voci modeste, ma seriamente e appassionatamente disposti, che uno solo dotato di voce forte, ampia estesa, ma ... sotto il vestito (vocale) niente! Anche per il maestro c'è un ego, c'è un narcisismo e una voglia di successo, ma ci sono anche le condizioni, implicite, per arrivare alle giuste conclusioni.

mercoledì, aprile 04, 2012

"2^3"

Purtroppo i limiti grafici non mi consentono di inserire il titolo come vorrei, che va interpretato come "due alla terza" (o al cubo). Il riferimento, ancora una volta, va al M° Sergiu Celibidache, che in una bellissima trasmissione della Radio Televisione Svizzera Italiana, nel 1974, spiegava che una sequenza di battute non poteva e doveva essere letta come un susseguirsi di cicli periodici (2+2+2...), ma come un 2 elevato a potenza, cioè come se nell'incipit ci fosse una potenza in sé che può farlo "esplodere" musicalmente dando origine al brano, mentre la semplice somma o reiterazione può dar luogo solo a suoni difficilmente "musicabili", monotoni, irrelazionabili. Come è sempre capitato da quando ho avuto l'immensa fortuna di conoscere, dopo la scuola di Antonietti, quella di Celibidache, i "travasi", i complementi, le analogie hanno sempre più arricchito il mio patrimonio relativo ai principi e ai criteri di entrambe le materie (canto e musica). Nel fare alcune considerazioni sul basso Vanni Maroux, che presto inserirò anche in un post, mi si è presentata anche l'analogia vocale con questa straordinaria illuminazione di Celibidache, cioè il valore esponenziale della voce. Come si può notare un po' con tutte le voci, fino a buona parte del '900 l'importanza attribuita al colore e al volume (inteso come spazio interno) della voce era piuttosto scarso, tant'è vero che anche baritoni ritenuti storici, come Battistini o Stabile, a fronte di un colore vocale quasi tenorile, hanno ottenuto riconoscimenti indiscussi da parte di pubblico e critica (e anche autori). Solo a partire dal periodo immediatamente precedente la Seconda Guerra Mondiale si è cominciato a dare maggiore importanza a queste caratteristiche fino al punto, recentemente, di considerare quasi inimmaginabile la possibilità per un basso o un baritono di avere una voce "chiara". Che questa involuzione del gusto sia coincisa con lo sviluppo delle tecnologie discografiche, la dice lunga! Il nodo fondamentale - immenso e spaventoso equivoco - è il ritenere che la voce chiara sia sinonimo di voce piccola, poco sonora. La realtà non è questa, e solo il disco ci può dare questa suggestione. Le voci gonfiate col colore creato artificialmente con una dilatazione muscolare delle cavità, non hanno presenza, non hanno espansione nello spazio acustico, e quindi si sentono meno, per cui possono diventare ben udibili solo se realmente molto forti di natura. Questo mi fa pensare anche a un'analogia tra il mondo dello sport vero e quello apparente. L'assunzione di steroidi e pasticci chimici vari, è noto che può far aumentare notevolmente la massa muscolare. Questo darà sicuramente un'immagine imponente di forza, che può piacere e può anche dare risultati laddove l'immagine può incutere timore a chi si lascia impressionare dall'apparenza. Sappiamo però che quella forza è vuota, priva di sostanza, e alla prova dei fatti darà risultati deludenti, senza contare tutte le ripercussioni sul piano della salute e sulla psiche. Il canto "gonfiato", quello che si basa sulla creazione fittizia di spazi, non regolati dall'equilibrio pneumofonico sviluppato grazie a una giusta disciplina, creerà un colore scuro irreale, una parvenza di potenza solo di tipo discografico (e per questo stiamo arrivando alla necessità di mettere i microfoni in teatro), ma tutto a detrimento del vero "belsuono", dell'espansione acustica della voce, con, anche qui, conseguenze sulla salute vocale e sulla psicologia dell'artista quando prenderà atto di essere su una strada erronea. Dunque, per tornare all'assunto iniziale, dove sta la potenza esponenziale della voce, che difficilmente può essere raccolta dalla registrazione, ma risulterà invece splendida nella realtà acustica di una sala? Nella parola, nel "verbo"! La parola ha in sé la potenza che, se saputa sviluppare sino alla sua massima lucentezza, può dare tutta quella ricchezza, ampiezza e libertà che il suono esemplare richiede per potersi definire tale, ovvero "riempire" una grande sala da teatro anche in ogni sfumatura espressiva.