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lunedì, maggio 21, 2012

Piccolo approfondimento storico-artistico

E' evidente a tutti, credo, come la Grecia abbia rappresentato uno dei momenti più alti in campo artistico e filosofico (non cito a caso queste due discipline, perché secondo noi sono strettamente connesse); decaduta quella civiltà, ci sono voluti circa 2000 anni perché qualcosa di analogo si ripetesse nell'Italia Rinascimentale. Tra le due epoche intercorrono forti legami, in particolare gli Umanisti del '500 studiano a fondo proprio la civiltà e la cultura greche ritenendole depositarie di un sapere universale ed eterno, quindi senza tempo, senza storia, ed è ciò che riteniamo anche noi. La Storia riguarda le forme, gli aspetti esteriori, ma il "messaggio" o principio contenuto nelle autentiche manifestazioni artistiche non è soggetto a mutamenti col passare del tempo. Come i greci, gli umanisti volevano creare una sorta di unificazione di diverse espressioni artistiche (poesia, danza, recitazione, teatro, musica, ecc.), e tale principio fu poi anche alla base degli ideali di Giuseppe Verdi e Richard Wagner, che scrissero in proposito, ma il cui messaggio è andato pressoché disperso o mal interpretato. Alcuni poeti e musicisti del Rinascimento hanno lasciato interessantissimi scritti a proposito di cosa intendevano per teatro musicale, ovvero melodramma o opera, e il dettato in proposito sembra di una chiarezza e una semplicità sconcertante, ma così come a noi sembra semplice il principio su cui si basa il grande canto artistico, ma che viene sistematicamente mal interpretato, distorto, equivocato persino da chi se ne dichiara studioso, anche quel messaggio è destinato a rimanere incompreso o, peggio, mal compreso, interpretato a comodo, intellettualisticamente e non coscientemente. L'oggetto fondamentale su cui si basa la "rivoluzione" musicale cinquecentesca, richiamando i greci, era la parola (Giulio Caccini: "...quella maniera cotanto lodata da Platone et altri filosofi, che affermarono la musica altro non essere che la favella e il ritmo et il suono per ultimo, e non per lo contrario, a volere che ella possa penetrare nell'altrui intelletto e fare quei mirabili effetti che ammirano gli scrittori, e che non potevano farsi per il contrappunto nelle moderne musiche"). Non che non fosse importante prima (pensiamo al cosiddetto canto "gregoriano", su cui in fondo si basa tutta l'evoluzione musicale occidentale), ma le forme musicali che dal gregoriano si erano evolute, per lo più esteriormente, avevano finito se non per cancellare, ridurre la parola a "serva" della musica. Per quanto ci si possa adoprare, in tutta la polifonia fino a Monteverdi il dominio rimane più favorevole ai movimenti contrappuntistici e armonici che non alla poesia. In campo sacro con Palestrina già era stata fatta una "riforma" perché le matematiche - quindi asettiche - combinazioni delle diverse linee canore, rendevano assai difficile comprendere il testo, e quindi si era arrivati alla necessità di una maggiore omoritmia e all'uso più sobrio dei contrappunti, in modo che, pur dalle diverse voci, il senso del testo potesse emergere. Lo sviluppo nella qualità degli strumenti musicali, e quindi il loro uso (e la perizia degli strumentisti), rendeva sempre più possibile e interessante l'unione di questi con le voci, permettendo perciò la nascita di quella "monodia", cioè una sola linea di canto, con accompagnamento. La mancanza di parole da parte degli strumenti, che dal punto di vista della comprensione nella polifonia era il fattore più disturbante, permetteva quindi finalmente il risalto pieno e completo, diremmo anche facile, del testo. Questo però diventa un nuovo punto di partenza, perché il disvelarsi della parola, porta anche a riconoscerne il potenziale. Per chi ha una certa idea del canto, rumoroso, rimbombante, il canto sulla parola può rivelarsi a tutta prima "povero", e questa è la grande trappola! Pensando che la parola renda il suono poco sonoro, si va a 'cercare' (questa è la parola da incriminare) cosa può rendere il canto più ricco e importante, e quindi ecco che si va a creare il timbro in gola, lo si stringe e lo si manipola con la muscolatura faringea, ecc. Al contrario, la parola esige pura sonorità, gola ampia e rilassata, fiato dosato. Questa condizione è la parola stessa a produrla, ma...! il ma è legato solo e semplicemente a COME si pronuncia. Quando si canta, si pensa forse anche a pronunciare, ma questa pronuncia è sempre "serva" del suono, cioè è un qualcosa che lontanamente può ascriversi al "cantar parlando" che Monteverdi citava a proposito del "genere rappresentativo" (intermedi e musica sacra) in contrapposizione al "recitar [o parlar] cantando" che coniugava, invece, con lo "stile rappresentativo", cioè l'opera (quella che prese il nome di "seconda pratica"). La differenza è enorme, perché il recitar cantando prende spunto e origine musicale dalla parola, cioè essa non è solo artefice degli affetti, ovvero di tutte quelle espressioni musicali utili a dar senso o significato espressivo ed emotivo alla parola (da cui i tre 'affetti' [o figure retoriche] principali: Ira (stile concitato), Temperanza (stile molle) & Humiltà o supplicazione (stile temperato)) ma anche il ritmo, il tempo. Ciò che solo pochi possono comprendere e sapere, è che la parola ha in sé un potenziale che va molto oltre gli aspetti semantici espressivi ed emotivi, perché arriva fino agli aspetti fisiologici ed anatomici. Qualcuno penserà che è logico e banale questo assunto, visto che l'articolazione della parola coinvolge l'anatomia e di conseguenza la fisiologia degli apparati. Ma questa banalità fa dire e pensare ai più che però quando si canta la parola appare piccola, povera, priva di intensità e gagliardia, ma ecco la contraddizione! La parola, e solo essa, è in grado di scatenare tutto il potenziale vocale di un essere umano. Quando improvvisamente il 'recitar' o 'parlar' si uniscono in una simbiosi perfetta col 'cantando', cioè con la melodia, avviene quel fenomeno, che Husserl definisce "trascendenza", cioè trasformazione ed elevazione ad un livello diverso, che è quello artistico, unificazione di due stati solo apparentemente diversi (il parlare e il cantare, oppure la parola e il suono) in una condizione unica e perfetta. Chi ascolta si trova anch'esso coinvolto in uno stato particolare, perché non sentirà più il "suono" vocale e, più o meno, delle parole, ma sentirà realmente un fraseggiare, un dire un testo arricchito, riempito, sostenuto da una linea melodica che ne esalta il contenuto. Questa è l'Arte senza tempo, è l'unica e indifettibile possibilità di cantare qualunque e qualsivoglia genere e stile musicale, ovviamente gestendo quegli aspetti formali ed estetici tipici di quel genere e dell'epoca cui appartengono. Chi pensa che il recitar cantando sia stato un fenomeno storico limitato nel tempo e nelle possibilità, non ha capito niente dell'Arte del canto, ed è come se dicesse che il Mosè o il David di Michelangelo, o un qualunque altro grande capolavoro Greco o Rinascimentale, sono "vecchi", "superati", "legati al loro tempo". Mi fermo qui, ma conto di fare almeno un altro post su argomenti correlati, che ritengo piuttosto basilari nell'ottica della nostra scuola.

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