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martedì, gennaio 15, 2013

Il mare calmo del buon canto

Ho in diverse occasioni richiamato l'acqua come elemento di riferimento per un approccio al canto artistico che porti a sciogliere i legami che vincolano le persone alla materia, alla terra (e allora meglio ancora se parliamo di "evaporazione"). Si ricorderanno i post sul "galleggiamento", sul "fare il morto", sull' "imparare dall'acqua". Ora vorrei spingermi un po' oltre. L'approccio corretto a una disciplina artistica deve passare anche attraverso alcuni apprendimenti di tipo psicologico-caratteriale che possano attivare quella sensibilità e quelle risorse che additiamo come di tipo spirituale (e quindi di "ascesa"). Il primo elemento su cui lavorare è la pazienza (ovvero l'impazienza). In molte occasioni, più manifeste o meno evidenti, si sviluppa nell'allievo una sorta di impazienza. Spesso è a lezione: non si ascolta l'esempio o ciò che ha da dire l'insegnante, che può sembrare noioso, ripetitivo, insistente, ma si ha fretta e impazienza di rifare l'esercizio, di cantare, di avere risultati importanti e soddisfacenti. Questo è normale, ma il combatterlo è una ottima palestra per esercitare il dominio dell'io, della volontà virtuosa, sulla fisicità, sull'istintività. Questo è anche un esercizio che si può fare da soli a casa, e consiste nel fare esercizi non meccanimamente, puntando a togliersi dalle note "noiose" del centro e andare sugli acuti, "per sentire se vengono" e come vengono, e spesso questo approccio è molto deludente e frustrante, perché, come ripeto spesso - ma mai abbastanza, evidentemente - la fine è contenuta nell'inizio, quindi se si fa un esercizio complessivamente di nove note, non è importante la quinta perché è la più acuta, e le prime quattro si fanno più o meno bene e le ultime quattro come vengono vengono. La concentrazione deve essere massima, la più elevata possibile, su tutti e nove i suoni. Se dopo ripetuti tentativi si vede che ci sono sempre note abbandonate, cioè non eseguite con la dovuta concentrazione, allora vuol dire che non si è ancora pronti a quell'esercizio, e bisogna ricorrere a quelli più brevi, sintetici. Aver fretta di eseguire un certo brano o un certo repertorio, per quanto comprensibile, non facilita le cose, anche se a lezione è sempre l'insegnante che valuta le possibilità. Il secondo punto riguarda la calma, che possiamo definire più compiutamente "calma interiore", e, come accennavo nel titolo, può far riferimento al sentimento che proviamo di fronte a un mare piatto. Ogniqualvolta entriamo nella volontà di cantare, facilmente si scatenano forze entro di noi, che coinvolgono in primo luogo la respirazione e la muscolatura respiratoria, ma anche la postura generale del corpo e di singole parti, che prendono a tendersi e a muoversi indipendentemente dalla volontà del soggetto. Quasi tutti gli allievi durante il canto e soprattutto gli esercizi, tendono ad agitare le mani e le braccia (e spesso dicono molto!). Questa tensione corporea ci dice che manca quella calma interiore che può aiutare a togliere, almeno in parte, spinte e pressioni inutili e dannose. Quindi: 1) esercitarsi a esaminare con pazienza se si stanno pronunciando con volontà sincera i fonemi che si intendono emettere, e farlo per tutti i suoni dell'esercizio, evitando nel modo più assoluto di distrarsi nelle prime o nelle ultime note, ma dare a tutti i suoni la stessa importanza; 2) rasserenarsi, non aver fretta di respirare, non aver fretta di attaccare, non aver fretta di concludere, non abbreviare quei suoni che ci fanno più paura o che ci piacciono meno, anzi, cercare di trovare il bello e l'ammirevole in brani o esercizi che istintivamente non ci piacciono, e magari cercare di capire proprio il perché di questa antipatia, che magari risiede in qualche errore di approccio che può essere cambiato con notevole miglioramento anche del risultato musicale.

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