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martedì, febbraio 26, 2013

Il "non" attacco

Dalla fisica apprendiamo che quando si attacca il suono, l'aria, incontrando le corde vocali, si accumula sotto di esse producendo quindi una certa pressione, dopodichè, vinta la resistenza, provoca la vibrazione e diminuisce la pressione. Di fatto questo "gioco" di aumenti e diminuzioni di pressione continuerebbe per tutta la durata del canto. Questa è una spiegazione che senz'altro ha un senso, ma è legata a una condizione molto acerba, spontanea, del canto, priva di una valida educazione o innata qualità. Quando parliamo di modificare la respirazione per giungere a una coscienza respiratoria, a una respirazione di tipo "artistico", facciamo riferimento anche a questo momento, che è tutt'altro che secondario. Una respirazione di tipo costale, toracico, nei primi mesi di lezione può risultare controproducente o addiritura pericolosa, perché, contrastando la reazione di difesa, produce un aumento della pressione sottoglottica, e questo non è certo un bene (se pensiamo a quanto la tecnica dell'affondo esaspera questa situazione, c'è da dire che il nostro corpo è proprio miracoloso per quanto riesce a reggere all'autolesionismo!). La questione riguarda sia l'atteggiamento glottico, e quindi la parte neurologica, sia l'atteggiamento o postura respiratoria. Praticamente si deve creare una condizione per cui le corde sono già pronte a ricevere una determinata pressione, che è quella relativa al suono che si vuole produrre, e che non diminuisce subito dopo ciclicamente, ma si manterrà costante ovvero varierà al variare della frase musicale. E' una procedura che richiede un tempo enorme, a meno, per l'appunto, di una predisposizione straordinaria. Il fiato deve conquistare quel certo grado di tensione, sgravato dalla pressione di reazione diaframmatica, e deve interagire con una rima glottica sgravata dalla funzione valvolare, che produrrebbe quall'oscillazione meccanica caotica che impedisce un attacco perfetto, morbido, sul fiato, senza colpi (soprattutto di glottide), senza un pieno controllo dell'intensità e delle altre catatteristiche foniche, musicali e verbali richieste. E' una situazione molto difficile da descrivere e comunicare, ma cercherò comunque di dare qualche altra indicazione. Innanzi tutto faccio riferimento al titolo: un "non" attacco. Perché? Il termine attacco o attaccare, da vocabolario, fa riferimento a una serie di definizioni con accezione piuttosto negativa, se riferite in qualche modo al canto e al momento iniziale in particolare: "appiccicare"; "molestare con discorsi e chiacchiere"; "trasmettere per contagio"; "osteggiare, criticare"; "aderire, attecchire, appigliare, aggrappare, unire strettamente";"azione offensiva nella tecnica militare o sportiva". Dar vita a un suono è, deve essere, qualcosa di esattamente opposto!: non aderire, non essere frenato, non essere osteggiato, non essere violento, non aggrapparsi, eccetera. Quello più vicino, un po' paradossalmente, è "trasmettere per contagio"; in senso molto lato, vuol dire che il suono si trasmette e "contagia" l'aria circostante. Allora, quello che vorrei ben chiarire con questo articolo e comunicare con forza, è che l'inizio del suono NON DEVE essere un "attacco". L'idea generale sull'inizio di un suono (a parte le consonanti, ma anche su questo dobbiamo fare qualche precisazione) è che esso debba avere un punto di inizio, e, riferendoci alle vocali, questo punto è molto difficile da immaginare. Intervenne su questo il Garcia, consigliando il colpo di glottide, che è uno dei suoi peggiori consigli, per quanto sia possibile anche trovare qualche accezione positiva, molto molto recondita. Se noi pensiamo all'accensione di una fiamma a seguito di una scintilla in una emissione di gas, siamo molto più vicini al nostro concetto. Il fiato che percorre il "tubo" vocale, oltrepassando le corde vocali modifica il suo stato e si "accende" vocalmente, senza alcuna necessità di "schiocco", di resistenza vinta. E' anche come un getto d'acqua che si vaporizza grazie alla presenza di una fonte di calore. Le corde vocali mutano la loro condizione fortemente meccanica per diventare un "trasformatore" quasi neutrale. Facciamo ancora un paragone. Avete presente il "pendolo di Newton"? Ne metto un'immagine:

Senz'altro lo avete già visto; viene usato come soprammobile ma anche nelle scuole per spiegare alcuni fenomeni fisici. A noi interessa fare un paragone: immaginate che la pallina di sinistra rappresenti il fiato, e l'ultima a destra la voce; le palline centrali rappresentano la laringe e gli spazi oro-faringei. La cosa interessante dell'esperimento consiste nel fatto che le palline centrali restano immobili e trasmettono il moto all'ultima pallina. L'esperimento riesce se le palline sono tutte uguali; se la prima a sinistra, ad esempio - che rappresenta il fiato - fosse più grossa, quando colpisce le palline centrali, le sposterebbe in avanti, non resterebbero più immobili; la pallina di destra pertanto si alzerebbe meno del necessario e il meccanismo si fermerebbe quasi subito. Quindi il fiato se ha una energia maggiore del necessario, produrrebbe una pressione sottoglottica eccessiva (la laringe si alza) e il suono risulterebbe difettoso, cioè non coerente con quello auspicato; per compensare il minor rendimento, si deve aumentare ancora di più la pressione; siccome questo comporterebbe un sollevamento ancor maggiore della laringe, si contrasta il fenomeno con un suo bloccaggio muscolare che naturalmente produce suoni non esemplari (eufemisticamente). Se la disciplina educa perfettamente il fiato giusta la volontà di alimentare suoni perfetti, si arriverà alla condizione esemplificata, cioè una sorta di annullamento della sensazione di esistenza stessa delle corde vocali, e cioè quella sensazione di "tubo vuoto" (tubo beante) come se fosse una lunga e piacevole espirazione.

sabato, febbraio 23, 2013

Vaga luna

Arietta di Vincenzo Bellini, su testo anonimo. E' probabile che esistano versioni con alcune differenze non di particolare rilevanza, anche se credo faccia testo la stampa della Ricordi. Su Youtube ci sono un numero molto elevato di esecuzioni, ma perlopiù di dilettanti o cantanti poco rinomati, la maggior parte dei quali non ho ascoltato per ovvie ragioni di tempo. Se qualcuno è a conoscenza di qualche versione significativa, per cortesia la segnali.
Si inizia nuovamente dalla Tebaldi; sempre buona la pronuncia e pulita l'esecuzione che mi pare però un po' "seduta", nonostante l'accompagnamento del celebre FavarettoM; la vocalità, per quanto notevole, un po' con la patata in bocca; su quest'aria pesa il grave rischio della noia; non arriva a questo punto ma certo i due artisti non fanno moltissimo per evitarlo. L'esecuzione di Di Stefano è nella stessa serata di Dolente immagine, con la voce messa piuttosto male. Qui, fortunatamente, il celebre tenore mantiene il tempo (persino un po' frettoloso) e fraseggia con ottima musicalità; compie qualche errore, prende diversi intervalli ascendenti "dal basso", comunque è un'esecuzione più che accettabile (esiste anche una registrazione addirittura dell'85, con voce assurda, in tonalità da baritono/basso, con alcuni degli stessi errori, ma molto peggiore sul piano delle intenzioni e del fraseggio). Sull'esecuzione della Bartoli a Vicenza nel 98 potrei scrivere un intero post. Cosa che non mi pare il caso di fare. La voce è perennemente "tirata" indietro, verso la gola, e talvolta anche verso il basso, gutturalizzando le note più basse. E' assente qualunque fluidità del suono (siamo lontani da qualunque idea di canto sul fiato), e c'è anche un vibratino piuttosto fastidioso. Fa, qui, un po' ciò che segnalavo di Di Stefano nel "dolente immagine", cioè un uso arbitrario di ritenuti su alcune parole, che finiscono per rendere difficile la comprensione unitaria del brano. La Caballé nel 79 si esprime meglio che in altre pagine simili. La pronuncia è abbastanza buona, quantunque schiacci un po' quando scende e talvolta mistifichi il timbro. Il legato però è prezioso e impeccabile. Talvolta prende gli intervalli ascendenti "da sotto", e qua e là ci sono variazioni più bislacche che originali e di riconoscibile utilità e varietà musicale. Pavarotti, nell'85 a Parigi, la butta letteralmente via! Tanto per far qualcosa, ci mette qualche mezza voce, ma è veramente un cantar le note (pur con la sua bellissima voce e un legato naturale), senza alcuna intenzione, senza partecipazione, e con alcune emissioni discutibili (le A). Il finale comunque è migliore di quanto non fa nella prima metà dell'aria. Si senta, al confronto, Bergonzi nell'84, quindi non più giovane, come è più "dentro" il brano, musicalmente e verbalmente. C'è una vibrazione, una tensione, costante di voler dire, con molti spunti di ottima vocalità. Poco meglio di Pavarotti e forse anche della Caballé, è l'esecuzione della Ricciarelli nell'80. La pronuncia rimane sempre più avanti, anche se non ha le finezze di legato della spagnola, e ci risparmia le strambe variazioni. Sentire subito dopo la Frittoli alla Scala nel 2007 ci fa "cascare dal letto"! Fraseggio sempre spezzato, pronuncia falsa, legato approssimativo. Voce poco a fuoco. Qui le variazioni bislacche le fa il pianista! (nel finale anche una lei; perdonabile). Carreras nel 75 canta come Di Stefano già avanti negli anni!! Voce dura, benché bellissima, pochissima fluidità, accentacci, intenzioni, fraseggi buttati via. Non è molto diversa l'esecuzione dell'88, più bassa di tonalità e timbro più usurato. Non è degna di nota la prova di June Anderson. Solo in alcuni punti esibisce una valida pronuncia e vocalità, spesso è generica e tira via. Meglio del previsto la Sutherland; la dizione è approssimativa e nebulosa, però appare un certo abbandono e una partecipazione abbastanza sincera. Il legato poi è eccellente, buono anche l'accompagnamento, che presumo del marito. Mi ha deluso Petre Munteanu, che ricordavo più bravo. Ha buona dizione e discreto senso delle frasi, ma non lega sempre con abilità. In alcuni momenti, però, appare il grande artista, con squarci alquanto suggestivi. Devo segnalare però anche un vibratino alla base di una fonazione non libera, e anche qualche lieve oscillazione di intonazione. Passabile l'esecuzione di Ramon Vargas, sempre nel quadro di una certa genericità e vocalità non molto adeguata (e variazioni perlopiù fuori luogo). Mi spiego: non è che io sia contro le variazioni, quando l'aria si ripete identica (però non è un "da capo", dove tutto è ripetuto, testo compreso), per quanto il cambio di testo dovrebbe già risultare sufficiente a "variare", perché ci sono intenzioni e significati diversi. La variazione è una procedura difficile e che va pensata e realizzata con molta sobrietà e aderenza allo stile, cosa che nelle esecuzioni che ho analizzato non ho sentito. Quindi si arriva all'idea di variare, e si varia un po' alla carlona, perché si ha coscienza che si sta correndo il rischio di annoiare perché non si sa valorizzare l'unione tra musica e parola.
Devo dire, questa volta, che l'esecuzione di Matteuzzi (92) è valida, molto sentita, pronunciata eccellentemente. Il fraseggio è un po' discutibile comunque vario, piacevole. Ancora eccellente l'esecuzione di Roberto Bellotti sul piano della vocalità quasi sempre immacolata. Il solo uso ottimale della parola crea un buon fraseggio, senza dover ricorrere a altre bizzarrie. Aprile Millo non si discosta dalla solita genericità e dal solito cercare di rendere interessante la pagina con rallentamenti e ritenuti solo in apparenza suggestivi, perché non danno alcun rilievo alla parola, al momento emotivo. Brava la Danco, ma troppo frettolosa. Se volete proprio sentire come NON va cantata, ascoltate (ma non mi assumo responsabilità) il basso Anton Diakov (che godette di una certa celebrità qualche tempo fa). Orribile sotto ogni aspetto. Poco meglio Roberto Scandiuzzi, che utilizza una gestualità che vorrebbe convincerci delle buone intenzioni, ma la voce le nega! Vocalità artefatta, scurita, e quindi piuttosto indietro. Ancora molto buona la Scotto, anche se non al livello dell'altra aria belliniana, con frequenti accentazioni delle sillabe finali. Comunque la migliore esecuzione femminile, con la Tebaldi, ma più sincera. Esisterebbe anche la versione di Nella Anfuso, ma non sul "tubo" (e nuovamente non mi assumo responsablità!). 

venerdì, febbraio 22, 2013

Togliere lo zucchero

Se a chi è abituato a prendere il caffè con lo zucchero lo togliete di colpo, è probabile che resti nauseato e lo sputi via. Chi si è fatto un'idea del canto su se stesso o presso qualche scuola di canto che privilegia l'approccio muscolare, fisico, materiale, passa a una scuola dove invece si privilegia il canto sulla parola, sul fiato, dirà che trova poco piacevole, poco soddisfacente questo canto che sembra più una recitazione. E' vero, e allora, così come chi supera l'eliminazione dello zucchero dal caffè, che di fatto ne altera il vero gusto, non potrà più tornare a dolcificarlo, perché lo troverà pessimo, sappia costui che la vera scuola di canto è quella che elimina gli inquinanti, le impurità, gli addittivi "emulsionanti" che corrompono l'essenzialità e la sublime bellezza del suono proprio di ciascun essere umano. Questione di tempo, di pazienza, di volontà e impegno. Se riesce a superare la fase iniziale, poi non potrà più tornare a muscolarizzare il canto, così come avrà difficoltà ad ascoltare una simile emissione in altri.

mercoledì, febbraio 20, 2013

Dolente immagine

Noto brano di Vincenzo Bellini.
Iniziamo da Renata Tebaldi, che canta con apprezzabilissima pronuncia e buon legato. Come spesso avviene, c'è parecchio manierismo e una partecipazione poco sincera. Pavarotti con Levine al pianoforte (88), mostra la corda proprio in questi brani da camera; la vocalità non è scorrevole, piena di accenti fuori luogo, dura, talvolta ingolata. Non apprezzo molto neanche l'accompagnamento, che trovo un po' tirato via. Faccio persino difficoltà a parlare della versione di Di Stefano del 68 a Vienna. Trovo l'idea di intepretare ogni parola, che potrebbe sembrare apprezzabile, assurda, paradossale, e alla fine antimusicale. La voce è disastrosa. Il "Carneade" Roberto Bellotti canta con molto gusto e vocalità eccellente. Peccato che ci siano notevoli problemi ritmici e di insieme col pianista. Non trovo l'esecuzione della Cossotto, nel 95 dal vivo, particolarmente interessante. Anche Carreras, in altre occasioni cameristiche apprezzabile, qui non riesce a valorizzare il brano; la voce è generalmente ingolata, non esprime le parole, i cambi dinamici sostanzialmente innaturali, arbitrari. Senz'altro è una registrazione in età non più giovanile, ma su un brano sostanzialmente semplice come questo, una voce bella e facile come la sua avrebbe potuto far qualcosa di meglio. Ottima l'esecuzione della brava Suzanne Danco, pulita, semplice, ben pronunciata e fraseggiata. Peccato la modestia della registrazione. Poco meglio di Carreras è Aragall, sempre con voce inadeguata, lontano dalla parola, nonostante la buona pronuncia. Una registrazione ancora di Pavarotti del 73 è invece da segnalare positivamente. Si sentono qua e là affiorare i suoi vezzi in nuce, però la parola è sincera e il fraseggio e la vocalità scorrevoli e gradevoli, quantunque non sfugga un certo disagio nella gestione del fiato, specie quando va nei piani e pianissimi, che sembrano più trattenuti che emessi a mezza voce. Renata Scotto ci offre forse la migliore esecuzione presente su Youtube. Bella dizione, ottima partecipazione, fraseggio sempre presente e raffinato. La vocalità è molto buona, purtroppo non sempre; in qualche momento indurisce e perde la presenza di suono. Il pianista da esiliare!!. http://www.youtube.com/watch?v=ijbIgg1TXfM Senza infamia e senza lode l'esecuzione di Salvatore Fisichella. Purtroppo di questa pagina non ci sono registrazioni dei grandissimi del passato.

Il fiato minimo

Da un sito di fisica relativo alla musica (http://fisicaondemusica.unimore.it/Voce_umana.html), traggo queste due affermazioni:
  1. La quantità d'aria necessaria alla produzione della voce è molto piccola rispetto a quella necessaria alla respirazione. Ce ne si può rendere conto facilmente espirando a fondo, ed osservando che anche a polmoni "quasi vuoti" si può ancora produrre e modulare suono per diversi secondi. Questa osservazione rispecchia il fatto che l'onda sonora non consiste nel trasporto del fluido (in questo caso l'aria) che la propaga, ma dall'oscillazione del mezzo. In linea di principio, quindi, non sarebbe nemmeno necessario che l'aria fisicamente uscisse dalla bocca; tuttavia questo accade perché ad ogni apertura periodica delle corde vocali un po' d'aria sfugge (un parametro detto debito glottideo). Un cantante ben addestrato è tuttavia in grado di produrre note anche di grande intensità senza che una fiamma di candela posta davanti alla bocca si muova sensibilmente. La capacità di un cantante di mantenere un suono molto a lungo, quindi, dipende più dall'educazione dei riflessi respiratori che dalla sua capacità polmonare, e comunque è molto più difficile mantenere a lungo un suono grave che uno acuto, perché il debito glottideo è molto maggiore per il primo che per il secondo.
  2. Anche la pressione dell'aria necessaria alla fonazione è piccola rispetto, per esempio, a quella necessaria per suonare uno strumento a fiato. Ad una pressione maggiore, tuttavia, per mantenere la frequenza invariata, deve anche corrispondere una maggiore tensione delle corde vocali. Esiste quindi un intervallo di pressione ottimale, determinato dall'impedenza acustica del tratto vocale.
Senza addentrarci troppo nelle questioni prettamente scientifiche, riporto queste frasi perché riportano sostanzialmente aspetti cui ho già fatto riferimento numerose volte, e sulle quali è bene riflettere e che sono alla base della disciplina vocale che propongo. Il redattore dell'articolo non si sofferma, anche per non complicare troppo l'esposizione, su questioni di altezza del suono e intensità, ma credo sia facilmente intuibile che più la nota è acuta o intensa, più le corde si tenderanno e si ispessiranno, necessitando perciò di maggior apporto energetico da parte del fiato. Se si leggesse astrattamente questo articolo, potrebbe sembrare che l'emissione vocale sia estremamente facile. L'articolo non fa nemmeno distinzione, a dire il vero, tra un suono di voce parlata e uno di voce cantata. Ma, in fondo, si può dire che così sia, cioè la facilità dell'emissione non sia molto difficile. Ciò che la rende tale, come ripeto, è la resistenza del nostro corpo fisico a impegnarsi in un'attività "inutile". Ciò che impedisce alla maggior parte delle persone di cantare bene non è la reale difficoltà di produrre suoni di qualità e sonorità elevati, ma è l'opposizione che il nostro corpo fisico produce. La cosa che può sembrare molto strana e quindi suscitare perplessità e scetticismo, consiste nel fatto che il nostro corpo sembrerebbe rifiutare e opporsi a qualcosa che lui stesso produce. Ma, a ben pensarci, la cosa non è poi così strana. Ciò che crea l'opposizione non è in sè la generazione del suono, infatti nel parlato non succede, ma la VOLONTA' di modulare quel suono secondo parametri che esulano dalle necessità fisiologiche e di uso comune. Insomma, anche camminare è normale e quindi perfettamente incluso nelle possibilità del nostro corpo, ma se mi metto a danzare, senza esercizio, cioè a muovere il corpo e segnatamente le gambe, oltre le esigenze di vita comune, ne avrò conseguenze di stanchezza e persino dolori e anche peggio, se non mi fermo in tempo. Anche qui, dunque - e gli esempi potrebbero essere molti - abbiamo un'attività fatta dal corpo, quindi del tutto "naturale" che in determinate condizione può essere ostacolata e creare problemi. Il canto va molto più in là di questo esempio, perché riguarda un'attività che CONTRASTA la normale attività fisiologica, in quanto il fiato non è previsto che funga da "archetto" delle corde vocali, cioè che alimenti continuativamente suoni vocali di lunga durata, intensità costanti, frequenze molto variabili da molto alte a gravi, ecc. Questa attività è evidente che sottrae, distrae, il fiato alla propria fondamentale e vitale funzione. Questo non può essere normalmente accettato, quindi i casi sono due: o si forza in vario modo il fiato a compiere quest'azione sfruttando la tolleranza di reazione del nostro organismo (approccio tecnico), ma si vivrà sempre con la necessità di continuo allenamento, "manutenzione" e rischio di perdere progressivamente tonicità vocale, estensione, sonorità, oppure aderire a una disciplina semplice ma molto più impegnativa sul piano cognitivo, mentale, e coinvolgente e profondo su quello psicologico ed emotivo, richiedendo molta più introspezione, analisi, meditazione e pazienza. Al termine, però, ci si troverà in quelle condizioni descritte dall'articolo, cioè un consumo minimo di aria e una necessità esigua di pressione da impiegare.

domenica, febbraio 17, 2013

Crescere dentro

La cultura artistica vocale non riguarda solo l'informazione scientifica; crescere dentro significa porsi le domande le più strane, imbarazzanti, imprevedibili e misteriose, e meditare, conversare, leggere, chiedere e sviluppare nella propria interiorità fin quando nella coscienza saranno sbocciate le risposte sincere e profonde, verificate nella pratica. Torniamo ancora una volta, è un vero stillicidio, lo so, sulla questione dei registri. Come sempre, per poter assumere a coscienza, quindi non solo "capire", cosa succede quando si canta a un certo livello, bisogna partire dalla situazione di partenza. L'uomo "normale", che cioè ha una normale respirazione con due polmoni nella media, senza tare o difetti, presenta una situazione di meccanica laringea vocale alquanto disordinata e complessa. Le cosiddette corde vocali si presentano, per l'azione verbale quotidiana da parte da tutti i maschi e dal 90% delle femmine (oggigiorno), nella cosiddetta "corda spessa", cioè vibra tutto il fascio muscolare di cui sono formate e sono mosse dagli stessi muscoli interni tesi dalle cartilagini aritenoidi. L'altra meccanica di tensione delle corde viene gestita da muscoli esterni la laringe, che inclicano la cartilagine tiroide dove sono attaccate anteriormente le corde, che si presentano pertanto più tese e sottili (e da qui il colore più chiaro). Un dieci per cento delle donne, sì e no, utilizza questa emissione, oppure entrambe. La questione meccanica finirebbe qui, questa è la scena. Manca l'attore principale, che adesso farà il suo ingresso: signore e signori: il fiato! Il fiato è artefice nel bene e nel male di tutto ciò che accade, è accaduto e accadrà alla voce. Come già molte volte scritto, il fiato è il principale artefice dell'esistenza dei cosiddetti registri. La natura opera a risparmio, è economica, e quindi riduce al minimo utile o toglie tutto ciò che non serve. Noi abbiamo la vista di cui necessitiamo, non abbiamo quella dell'aquila perché non ne abbiamo bisogno. Probabilmente è mutata nel corso dei millenni, e probabilmente cambierà ancora perché la nostra attività visiva è sempre più improntata alla lettura di libri e schermi e sempre meno paesaggi lontani, dove un tempo si combattevano battaglie e si cacciava. Anche la voce è sicuramente mutata, da quando si parlava alle folle, agli eserciti, ci si chiamava e comunicava tra valli, nei campi. Quando le necessità si abbassano, anche i sensi si riducono. Quindi il fiato, in mancanza di una esigenza a mantenere attiva un'unica estensione omogenea vocale, ha fatto sì, riducendo il proprio potenziale, di alimentare solo i suoni del centro, per poter parlare, e in minima parte per mantenere attiva una porzione acuta per motivi di difesa, di allarme, di gioco, di sfogo competitivo. Questa riduzione energetica ha però prodotto anche altre "fratture", che si evidenziano con scalini, singhiozzi, rotture, serie difficoltà e persino impossibilità ad attaccare o mantenere determinati suoni. Tra corda spessa e corda sottile, come già scriveva Garcia, è probabile che si crei un "gradino", un passaggio brusco tra questi due atteggiamenti. La tecnica ha "inventato" diversi sistemi per far sì che non si verificassero inconvenienti. Passare "prima", oscurare, alleggerire, affondare... tutte metodologie esteriori, fisiche e inconscie che non possono risolvere il problema, ma attutirlo. Che poi, appunto, è un "problema"? Sì, lo è, viene vissuto come tale perché impedisce l'omogeneità, ma per i meccanicisti scientifici, si parte da una divisione da cucire, da due pezzi di stoffa diversi da unire meccanicamente, non un'unità da riattivare.
Il fiato, nella situazione che abbiamo presentato, è il fiato fisiologico. Il fiato fisiologico non consente di cantare in modo esemplare, perché è avulso da quel tipo di necessità, non avverte lo stimolo a potenziarsi, perché solo un cambiamento ambientale straordinario potrebbe indurre un'evoluzione simile. Ma in ognuno di noi c'è anche un margine di potenziamento, diciamo "tolleranza", per una serie di motivi legati alla vita di relazione. Dunque il fiato può migliorare le proprie prestazioni nei riguardi dell'attvità vocale, quando sia stimolata da esercizi e volontà. Allora mentre l'atteggiamento cordale meccanico del centro, cioè in corda spessa, può migliorare in potenza, in sonorità, in volume e intensità senza particolari differenze di carattere, nella corda sottile sono presenti più "strati" (essendo un atteggiamento e una meccanica più rozza, meno utilizzata e utile per motivi non raffinati), cioè la corda può vibrare in modo più leggero o più pieno e intenso (il secondo caso fu chiamato falsetto rinforzato). Tra queste due espressioni, nella maggior parte delle persone vocalmente incolte, si crea uno scalino, perché non esiste la possibilità di sostenere un passaggio graduale di intensità respiratoria con tutto ciò che consegue a livello diaframmatico, o è "spinto" o è "scarico", per cui si pensa che siano due meccaniche differenti (e saremmo già a tre, dunque). Gli uomini, poi, hanno la possibilità di imitare le donne, facendo una voce molto chiara, talvolta molto intensa e rimarchevole, che consente loro di esibirsi anche in opere al posto degli antichi castrati (come sopranisti o contraltisti), (e saremmo quindi al quarto tipo), talvolta invece con un falsettino molto debole e non intensificabile (e siamo a cinque!). Nella voce femminile, poi, più raramente in quella maschile, come dirò appresso, superando il do#4, cioè l'ultima nota dove le due corde, sottile e spessa, coesistono, la corda sottile può continuare a vibrare "in solitaria". A partire da questo punto verso acuti e sovracuti tutti i grandi maestri del passato hanno dato al settore il nome di registro di "testa". Di fatto non è un registro (come ha argutamente scritto Garcia), ma solo una porzione di gamma vocale dove è richiesto un atteggiamento respiratorio leggermente diverso perché la porzione di bordo vibrante diminuisce.
Ecco, dunque, che ancora una volta ci troviamo di fronte a una volontà divisoria. Se è vero che esistono questi scalini e questi diversi colori e intensità, è vero che essi non devono farci presupporre differenze e divisioni, ma solo povertà respiratoria, limitatezza qualitativa, che una sana, rispettosa e illuminata scuola di canto che prende con le molle le "scoperte" scientifiche (che poi... qual è la fonte ufficiale di tante scoperte? Fussi? è l'oracolo della vocalità scientifica?) sa che esiste un'unica "corda", un'unica gamma vocale, che si è divisa a causa di un risparmio respiratorio e si è divisa in più parti, cui sono stati dati nomi di varia natura, a seconda delle percezioni soggettive, delle analisi visuali o altro, ma che non starò a ricordare e riportare perché sinceramente credo che sia ora di finirla. Conta solo e unicamente una cosa nel voler percorrere un sentiero di miglioramento vocale, e cioè quello di conoscere la via per ritrovare quell'unità perduta. Il mio maestro, il sottoscritto, molti allievi del mio maestro e miei e di altri che hanno seguito questa via, hanno dimostrato e possono dimostrare nei fatti che una voce acuta molto leggera, al limite del sussurrato, può essere rinforzata fino a farla diventare un acuto pieno, vibrante, squillante, sonoro, intenso e viceversa, può essere ridotto a zero. Questa è sempre stata l'arte di cui hanno parlato i testi, i trattati, e che sarebbe totalmente impossibile senza un'arte respiratoria di supporto (ma, per andare su esempi più elevati, si senta cosa è in grado di fare Lauri Volpi o si sentano alcuni esempi di Angelo Lo Forese). La meccanica non esiste, in chi raggiunge quel traguardo, e non esisterebbe, non avrebbe alcun senso, se noi avessimo già una respirazione tale da sostenere una modificazione delle percentuali di corda che vibrano. Ciò che sto dicendo è semplicemente che le meccaniche tornano a fondersi in una sola, che dalle note centro-gravi a quelle più acute utilizza sia i muscoli intrinseci che quelli estrinseci, e che utilizza dal bordo alla pienezza del muscolo vocale e viceversa. Punto. Con questo non dico, non posso dire, che il cantante avrà un'unica voce. Ci saranno ancora due aspetti: la volontà e le singolarità. La volontà significa che il cantante esemplare può usare a piacimento i colori di cui dispone, il che porterà a utilizzare differentemente fiato e laringe, ma questo sarà un servizio mentale, di cui non dobbiamo occuparci razionalmente. Le singolarità sono la cosiddetta voce di testa nei maschi che non posseggono, per impossibilità fisica, una prosecuzione della corda sottile oltre le note che definiamo "sovrapposte", cioè fino al do4. In questi soggetti (bassi, baritoni e tenori "classici") la voce di testa si presenta staccata dal resto della gamma e può essere utilizzata, grazie all'abbondante fiato a disposizione in concorrenza con la modesta porzione di corda vibrante, per cantare repertorio femminile con voce simile, e poi l'emissione dei primi armonici di corda spessa, che danno luogo a un falsettino molto limitato e leggero, che ha pochissime possibilità di utilizzo pratico in teatro ma può essere utile, come tutto, nell'esercizio respiratorio applicato. Se leggete il Garcia troverete tutto questo, che era il saggio pensiero di tutti i strepitosi cantanti e maestri del passato. La scienza può dare un'illustrazione più evidente e minuziosa, ma non insegnare ciò che si è sempre saputo come fosse l'acqua calda.

venerdì, febbraio 15, 2013

Mi par...

Non farò in questa occasione un'analisi musicale di un brano, ma un'analisi vocale, stimolata da Jack con cui ho intrapreso una discussione sui registri. La proposta cade su un brano particolarmente acuto, "Je crois entendre encore" dai Pescatori di perle di G. Bizet (in italiano "mi par d'udire ancora", celebre la registrazione di Gigli), e sulle esecuzioni di Alain Vanzo e Alfredo Kraus. Il nocciolo della questione riguarda l'uso di registri definiti falsetti, falsettoni, testa e via dicendo. Siccome l'uso di questa terminologia da sempre porta scompiglio ed equivoci, cercherò di spiegare queste due esecuzioni evitando di utilizzarle e basandomi propriamente su ciò che accade. Iniziamo da Alain Vanzo.

Attacco pulitissimo e facilissimo. La prima domanda da porsi è: è una voce femminea, quella che udiamo? No, è voce estremamente facile, ma non femminea; non ci ricorda sopranisti o contraltisti imperanti nel mondo dell'opera barocca. Questa è una voce che fa uso praticamente di solo fiato, che sfiora e mette in vibrazione le corde senza alcun apporto di intensità, quindi esse si trovano in uno stato particolarmente rilassato, pur essendo in zona acuta, perché non vi è "peso", cioè intensità. Questo modo di cantare è straordinario, molto difficile da conseguire (alcuni lo hanno in natura, ad esempio talvolta lo si sente nel giovanissimo Di Stefano, ma lo si perde con altrettanto facile rapidità) e soprattutto difficile da mantenere su tessiture impervie. Ascoltando le prime frasi da Vanzo, si può godere del meraviglioso leggerissimo appoggio, che permette alla gola di rimanere ampia e rilassata, il che produce suono sempre bello, vivo, espressivo e controllato. La pronuncia è chiara, precisa, e senza articolazioni dure, ma quasi sempre aerea, esterna; giusto in qualche discesa (de ramiers) si nota un certo indurimento, ma di poco conto. Purtroppo anche lui ha dei limiti. La tessitura che riesce a reggere in quella condizione quasi magica finisce intorno al La3. Il primo si naturale (ivresse) non appartiene più allo stesso tipo di emissione precedente, si è perso l'appoggio. Essendo un valido ed esperto cantante, egli fa un suono piccolissimo, particolarmente suggestivo, ma se lo ascoltate attentamente noterete la differenza. Infatti per proseguire si interrompe e riprende (nonostante ciò un piccolo "scalino" si sente ugualmente). Anche nel secondo Si capita la stessa cosa, la voce (qui sì) diventa femminea, e nuovamente è obbligato a interrompere prima di riprendere la melodia. Anche il La di Charmant perde appoggio (e quindi timbro), e quindi conclude senza il do, che (apprendo adesso) non è previsto. Passiamo a Kraus. 

Fin dall'attacco, Kraus, pur instradandosi anch'egli verso un suono leggero, cerca più corpo. E' immediatamente in difficoltà, non regge sul fiato l'innalzamento di tessitura, ed è costretto a stringere e quasi gridare la E finale di "encore" e mantiene questa emissione piuttosto fibrosa sul "cacher"; nonostante la tessitura torni giù, la E non è meno spinta, però è evidente che "palmier" è sulla stessa emissione sul fiato di Vanzo. Quindi il mio pensiero è che cantino esattamente allo stesso modo, ma Vanzo ha una libertà, cioè un appoggio sul fiato, che Kraus, benché eccellente vocalista, non possiede. Devo lamentare, peraltro, da parte di Kraus un fraseggio e un legato assai più deficitario, discontinuo di quello di Vanzo. L'acuto, naturalmente, viene preso a piena voce. L'appoggio non è meraviglioso, la voce un po' indietreggia e la gola, e quindi il suono, non può avere l'ampiezza del collega francese; peccato non vederlo. Tra l'altro, proprio visualmente, si nota in Kraus una rimarcata tendenza a stirare le labbra orizzontalmente, il che, in alcuni momenti, è causa del sollevamento della base del fiato. Mentre la pronuncia di Vanzo è sempre vaporosa e avanti, le varie vocali, in Kraus, si spostano avanti e indietro (le i ad es. tendono a indietreggiare). Lo spagnolo esegue il do, sempre a piena voce e conclude in modo poco espressivo, ma comprensibilmente, perché l'approccio piuttosto meccanico dell'emissione non gli consente altra soluzione, a meno di eliminare completamente il peso, cosa che Kraus non credo abbia mai fatto. Sulla stessa linea di Vanzo è il grande Leopold Simoneau, anche se trasporta il brano un tono sotto. Non è niente male Brownlee, che con poca più intensità di Vanzo riesce a sostenere accettabilmente la tessitura fino al Do4. Gedda è interessante. Canta sul fiato senza avere la piena libertà di Vanzo, con un po' di gola, però, dotatissimo, riesce in alcuni punti anche a intensificare; però alla fine, sul do, non riesce a mantenere l'appoggio, non riuscendo a recuperarlo neanche sulla frase conclusiva. Di Stefano, nonostante fosse il 1944 o 45, e nonostante l'abbassamento di un tono, canta piuttosto perigliosamente non riuscendo quasi mai a trovare la leggerezza e l'abbandono magici di altre esecuzioni giovanili. Un esempio interessante è quello di Yasuharu Nakajima, che vorrebbe... ma non può! La zona centrale è facile e sul fiato, ma non appena deve salire non ha quella fermezza diaframmatica, oggi sconosciuta, che gli permetterebbe di mantenere libertà e leggerezza, quindi ingola e stringe a tutt'andare... (sentite lo sconosciuto - per me - Tino Rossi nel 36 come canta: sembra una canzonetta! per quanto stilisticamente sia orribile). Piuttosto deludente Bjorling, alquanto monotono in un'aria che rischia molto sotto questo aspetto (sentire Domingo, che la deve urlare da cima a fondo). Un vero ascolto-laboratorio è quello relativo a Roberto Alagna. Mi chiedevo, prima dell'ascolto, come avrebbe potuto cantare un brano del genere, ed ecco la incredibile risposta. Attacca in modo che fa spavento, perché sembra totalmente afono. Butta un mare di fiato e canta per l'appunto senza metterci un grammo di peso. Non avendo la disciplina per reggere una condizione simile, consuma barili d'aria e naturalmente si permette una cosa del genere solo perché ha due bei microfoni davanti, però l'esperimento è interessante perché rappresenta un approccio giusto per conquistare il canto sul fiato, ampio e libero, però ci vorrebbe quel dominio respiratorio che lui è ben lungi da avere, però tanto di cappello al coraggio! Tagliavini canta con ottimo legato e buone intenzioni vocali, ma ahimè non aveva il magistero di Gigli e men che meno quello di Schipa, sicché negli acuti stringe e mette di mezzo i muscoli non riuscendo a reggere tutto sul fiato, nonostante anche lui canti un tono sotto.
Lemeshev nel 48 fa un attacco da 10 e lode, un sogno, e dimostra di possedere i mezzi per cantare tutto sul fiato come su una nuvola, ma non lo fa! Rovina tutto andando alla ricerca di timbro e intensità e ogni volta ingolando orribilmente. Un vero peccato (l'acuto - sib, è uno strazio). Florez, devo dire, non è niente male. E' una registrazione dall'opera integrale dal vivo; certamente c'è emozione e timore, quindi corre seriamente il rischio di apparire monotono, monocorde, monocromo. Però qui è nel suo ambiente, e buona parte del brano è cantato con fluidità, anche se non riesce mai a essere realmente espressivo, non diminuisce mai l'intensità, non sogna e non fa sognare, ma forse potrà arrivarci. Ottimo, ma non eccezionale, McCormak, in difficoltà sugli acuti, nonostante canti un tono sotto. Pessimo a mio avviso Kunde, nonostante sia nel 2001, tutto invischiato in artifici muscolari. Piacevole Giuseppe Lugo (un tono sotto), lontano culturalmente da questo repertorio, con vocalità tendenzialmente sempre alla ricerca di squillo e timbro, però sempre facile ed espressiva (ma anche lui incorre in uno spoggio rischiosissimo - ma sappiamo che la stecca diventerà purtroppo la caratteristica dei suoi ultimi anni di carriera). Buone le intenzioni di Rudolf Shock, con anche un buon supporto orchestrale, ma anche qui c'è troppa distanza sia sul piano stilistico che vocale. Celso Abelo, una delle scoperte di questi ultimi anni, non appare all'altezza della situazione, decisamente in difficoltà negli acuti; molto meglio Brownlee. Piuttosto buono Sobinov, in russo, nel 1911, vocalità assai piacevole e fluida. Anche lui soffre per la tessitura, benché col solito tono sotto. Matteuzzi, con voce alquanto artificiosa, fin dall'inizio è in gravi ambasce di intonazione, il suono oscilla nei quarti di tono e produce un effetto mal di mare. Il suono comunque è querulo, ingolato negli acuti e quasi sempre fisso e inespressivo. Non so di quando sia la registrazione, ma probabilmente è tardiva. Deludente Miguel Fleta. Lo sconosciuto Richard Crooks non ha un imposto eccelso ma canta con eccellente gusto. Eccezionale prestazione di Smirnov nel 1911 in un impeccabile italiano. Escluso uno scivolone di gusto nel finale, per il resto è una delle migliori esecuzioni. Deludente anche Lauri Volpi (in effetti non sapevo nemmeno avesse registrato questo brano). Canta in un pessimo italiano, e nonostante abbia le caratteristiche di imposto per poter fare cose notevoli, appare decisamente non a suo agio, indeciso se stare leggero o dare voce, e pasticciando un po'. Le chicche ci sono, come l'acuto finale (che non è un do perché anche lui canta un tono sotto), però da lui ci si poteva aspettare molto di più. Non mi pare granché Osborn nel 2010 a Londra, abbastanza espressivo, ma vagamente ingolato e non a proprio agio sugli acuti. Piuttosto buono Legay (in tono). Meraviglioso Devries (anch'egli in tono); peccato per il vibrato che in disco è alquanto fastidioso (probabilmente in teatro non si notava granché). Voce di omogeneità, facilità, espressività, sicurezza, controllo rari. Nash è molto buono come stile e musicalità, ma non riesce a staccare totalmente la voce, e si sente un continuo controllo faringeo che limita la sua libertà di emissione e il piacere dell'ascolto. Grande Valletti, che copre la mancanza di Schipa. Non è sempre a proprio agio negli acuti (un tono sotto) ma la realizzazione generale dell'aria è superba. Caruso non mi garba affatto. Non ho ascoltato Bonisolli, Licitra e Villazon.

Divide et impera

Dopo tanti post in cui ho esortato all'unificazione e al traguardo dell'unità, parlerò di qualcosa che invece va diviso. Non mi riferisco a qualcosa che è unità o che si possa intendere come tale, ma di stimoli che coagiscono influenzandosi, ma che vanno divisi e ripristinati nella loro purezza. Semplicemente potremmo dire: azioni e reazioni. La nostra volontà di agire, specie nel campo artistico, non è isolata, e pertanto non può esperire tutta la forza di cui è capace, perché stimola - o provoca - i nostri sensi e ciò comporta reazioni, che possono essere di carattere fisico, nervoso ed emotivo. Sto raccontando, in pratica, sotto altra forma le cose già dette mille volte, ma nella convinzione che ciò possa accendere lumi ulteriori in chi legge, dato che senza un apporto operativo diretto, le parole risultano sempre e comunque limitate e interpretabili. E' sicuramente una legge molto dura da superare quella che lega la volontà alla parte sensibile e al pensiero. Un esempio di persone che devono allenarsi a lungo per superare questo legame sono coloro che hanno a che fare con eventi traumatici e rilevanti, come i medici chirurghi, i vigili del fuoco, alcuni poliziotti particolarmente addestrati, alcune tipologie di piloti. Si vedono spesso nei film i poliziotti che durante l'addestramento devono sparare a delle sagome che appaiono all'improvviso e in questa attività devono evitare di sparare a persone non coinvolte, come passanti, bambini, ecc. Cioè si deve rompere quella catena di azione-reazione legata all'istinto di difesa. Chi compie missioni molto pericolose, deve riuscire a superare, impresa davvero ardua, il senso di sopravvivenza propria nella superiore necessità di salvare altre persone. Quando si compie un cammino di introduzione all'arte, non si arriverà a simili livelli di sacrificio, ma per certi versi l'impegno da profondere sarà assai simile, e ci porterà a quello stadio di conoscenza di noi stessi indispensabile per il riconoscimento di ciò che vogliamo trasmettere. L'azione vocale, per risultare purificata e ricondotta all'essenzialità di un'arte respiratoria capace di suscitare suoni totalmente liberi, deve essersi sgravata da quei legami con reazioni che passano dalle incontrollate spinte diaframmatiche alle immagini emotive di timore, trattenimento, chiusura, ecc. L'allenamento consisterà nel concentrarsi, meditare, sulla unicità della fonte emittente, cioè la parola semplice e le vocali e consonanti che in essa compaiono. Occorre prendere coscienza della enorme potenza contenuta nella parola. [Ogni parola è un nucleo energetico che rappresenta un’idea, o un insieme di idee; essa, inviata a una persona, o a un gruppo, produce effetti proporzionali alla potenza dell’emittente e consequenziali alla maggiore o minore purezza della sua intenzione. Ciò corrisponde ad una precisa verità sostenuta dalla Saggezza antica: “L’energia segue il pensiero e la Parola è ciò che lo concretizza” -  da "Il sentiero"]. Essa dobbiamo considerarla un concentrato, una forma esponenziale di componenti. Sono state le scuole di canto più recenti che hanno esaltato il valore del suono avulso dalla parola a far decadere quest'arte ai suoi minimi storici, e chi ancora oggi non riesce a cogliere il fondamento "nucleare" contenuto in essa, rimarrà legato alla gestione fisica, meschina e inutilmente sforzata di un canto sterile per quanto grossolano e rimbombante. Occorre saper cogliere ciò che è reazione, ciò che non nasce dalla volontà ma da forze non da noi autorizzate e guidate per poterle separare e scartare dall'azione vocale, che dovrà rimanere pura volontà, cioè flusso indisturbato e staccato da brame, desideri materiali ed emotività istintive per poter essere ricondotte alla responsabilità della coscienza vocale e musicale di chi può e sa operare in piena e assoluta libertà.

martedì, febbraio 12, 2013

Due organi simmetrici

L'orecchio è il mezzo sensibile che ci permette di cogliere i suoni fisici provenienti dall'esterno. Al momento ancora nessun OTORIATRA (termine da me inventato sul momento e di cui forse un giorno reclamerò il copyright) ha preteso di insegnare "come si ascolta", nel senso di suggerire che bisogna, che ne so, alzare i padiglioni, aprire il canale, chiudere le trombe d'Eustachio e via dicendo. Questo per la diffusa convinzione che sentiamo tutti nello stesso modo. Ovviamente non è così ma non solo e non tanto per questioni relative alla struttura fisica dell'orecchio, ma perché il nostro ascolto dipende da come i suoni vengono elaborati dalla nostra mente e dalla nostra coscienza. Ora, come l'orecchio è lo strumento che permette di recepire l'onda sonora proveniente dall'esterno, l'apparato vocale è quello che permette di emettere un'onda sonora di particolari caratteristiche. In altre parole si tratta di due organi di senso simmetrici. La differenza consta solo nella provenienza dell'onda sonora; da fuori, nel primo caso, da dentro nel secondo. Sul piano originale, istintivo, il comportamento dei due apparati è il medesimo. Così come non siamo capaci, senza disciplina, di apprezzare molte caratteristiche di suoni esterni, non siamo capaci di emettere suoni al di sopra di determinati livelli qualitativi. E così come è perfettamente inutile - fortunatamente - tentare manovre fisiche per migliorare il livello uditivo (ma molte persone, ad es., si mettono la mano a conchiglia  davanti al padiglione per captare diversamente), così è un grossolano errore farlo con il nostro strumento produttore. Il fatto che buona parte dell'apparato vocale possa essere reso mobile volontariamente, non significa che vada fatto! I motivi per cui l'apparato può essere mosso volontariamente non ha attinenza con la voce, ma con le diverse esigenze vitali che condivide (masticazione, deglutizione, respirazione...). In sintesi: così come si impara ad ascoltare con la mente e la coscienza, analogamente si impara a cantare, escludendo tutto ciò che impedisce la fluidità, la spontaneità e la piacevolezza del flusso sonoro. Questa disciplina mette in moto un processo EVOLUTIVO, per cui il tempo consentirà di sentire sempre meglio (discorso identico potrei fare per l'occhio o il tatto o il gusto...) e di cantare sempre meglio, escludendo tutta quella meccanica che non fa che imbrigliare, imprigionare, frenare, occludere il passaggio libero e piacevole della parola cantata.

domenica, febbraio 10, 2013

l'Io e il Canto

Non sono rare le situazioni in cui la voce risulta come "staccata" dall'Io, come se non fosse creata dalla persona, come se non nascesse e non si sviluppasse entro di lui per poi uscire, ma come se fosse un' "entità" esterna, cui quella persona guarda, ascolta e, ed eccoci, giudica, e che può arrivare a deridere, a schernire. Non è fantascienza quella che racconto, ma realtà che mi trovo anche ad affrontare. Faccio una panoramica anche più ampia e interessante.
Siamo in una società, in questa società ci sono persone dominate da un forte ego. Prendiamo ad esempio i "bulli". Non starò a fare l'esame sociale; in questo spazio mi interessa solo far notare che l'ego coinvolge anche la sfera vocale. Nella sua determinazione possessiva, dominatrice, violenta, il bullo esprime anche mediante la voce il suo stato, per cui sarà una voce forte, violenta, muscolare, che non deve far transitare alcun sentimento, alcuna debolezza, alcuna emozione positiva. La questione non finisce affatto qui. A questo punto entra in gioco la questione della "maschera". Il bullo prenderà di mira determinati soggetti, tra di essi ci sarà anche chi presenterà una voce opposta alla sua, cioè che lascia trasparire dolcezza, simpatia, affetto, ecc. Incoscientemente ci saranno degli emulatori dei bulli, che per non cadere vittime, si creeranno una "maschera" oltreché sulla personalità anche sulla voce, per non incorrere negli atti di violenza, e altri che la maschera se la metteranno perché possono arrivare a pensare che è così che ci si conquistano gli amici e le ragazze, che non si viene esclusi dai gruppi, che si possono avere cose. Non è ancora finita. Questa "filosofia" può non fermarsi agli anni dell'infanzia e dell'adolescenza. Queste persone si sposano e fanno figli, i quali non è per niente detto che assomiglino al padre, ma sentiranno la necessità di dover assumere determinati comportamenti, voce compresa, perché questa è l' "educazione" imposta e questi sono i valori trasmessi (salvo poi sensi di colpa e nevrosi e psicosi varie). Nel cerchio di persone coinvolte da questa metodica impositiva ci possono essere persone che si dedicano al canto. Come potranno accettare che la voce esprima sentimenti gentili, dolci, affettuosi, che la voce possa piegarsi a languori carezzevoli, chiari, flautati? Ecco, dunque, tra le diverse ipotesi, un esempio di persona che risulta "dissociata" dalla propria personalità vocale, a cui l'insegnante dovrà insegnare a riprendersi ciò che è proprio, a riconoscere quel frutto del proprio io, a non maltrattarlo, a metterlo al servizio di un proposito nobile e altruistico, non per reprimere sè stesso e gli altri, ma per star bene e far star bene. Anche qui, lo si sarà capito, entra in gioco l'unificazione; in questo caso però si può anche transigere sull'unificazione vocale, perché se il soggetto riesce a riappropriarsi della propria identità vocale, sarà già una conquista meravigliosa.

venerdì, febbraio 08, 2013

Libertà e silenzio

Così come siamo abituati a vivere nel brusio continuo, se non nel rumore - e possiamo ben dire che tutti viviamo in un ambiente rumoroso, tant'è che se chiedete ai bambini cos'è il silenzio, non è raro sentir rispondere "la paura" - e ci trovassimo per qualche ragione in un ambiente pressoché totalmente silenzioso, a parte i sentimenti che scaturirebbero, forse anche angosciosi, ci accorgeremmo di alcuni suoni del nostro corpo che di solito non avvertiamo, come la respirazione e il battito cardiaco, se non addirittura il "fischio" dei nostri nervi. Analogamente quando improvvisamente ci si trova a cantar nel "vuoto" del fiato libero, ci si accorge finalmente che si sta espirando! Anche questo può provocare angoscia, timore e disorientamento; a tutta prima si ha l'impressione di avere una sorta di "emorragia" d'aria, un consumo esorbitante di fiato; poi ci si accorge che non c'è nulla di straordinario, è una normale emissione d'aria, ma tolti gli ostacoli e le resistenze, la fluidità libera e sciolta a cui il cantante non è assolutamente abituato, anzi per la sua mente è sbagliato, creano quella sensazione (cui spesso si reagisce trattenendo) che col tempo diventerà invece fonte di enorme soddisfazione, di conquista artistica insuperabile. Un fresco, minuscolo zampillo che sgorga, defluisce si propaga e riempie l'ambiente.

mercoledì, febbraio 06, 2013

L'importante è è è è.... unire


Scopo superiore dell'arte è l'unificazione, trovare l'uno. Ho già detto diverse volte che il cantante esemplare è colui che ha raggiunto l'unificazione dei tre apparati, respiratorio, produttivo e articolatorio-amplificante. E' un obiettivo straordinariamente esaltante e impegnativo, al limite dell'impossibile. La grande difficoltà è anche data dal fatto che quella meta passa anche per altre unificazioni, a partire da quella delle meccaniche laringee, dette registri. Contrariamente a quanto affermano e credono cantanti e insegnanti in grande maggioranza, i risultati ottimali passano non per i registri o meccaniche, che sono incolpevoli delle notorie divisioni che conosciamo (petto, falsetto, testa, misto, falsettino, falsettone e chi più ne ha più ne metta) essendo passive, ma per le condizioni respiratorie. Si può dire che si sarà raggiunta l'arte respiratoria, o del sospiro, vocale quando essa sarà in grado di unificare le meccaniche. Mi servirò ancora una volta di un semplice disegno. Ognuno di noi emette le proprie note più gravi in registro di corda spessa - petto - e le note più acute in registro di corda sottile - falsetto o testa. Salendo di poco, rispetto le più gravi, e scendendo un po' rispetto le più acute, la situazione delle corde di sdoppia, cioè per quasi tutta l'estensione vocale noi abbiamo due meccaniche coesistenti; salendo abbiamo più facilità e naturalezza a mantenere il registro di corda spessa, scendendo dalle note acute abbiamo più facilità e naturalezza a mentenere la corda sottile, però è sempre possibile produrre una nota nell'una o nell'altra meccanica. Il problema di quasi tutti è fare in modo che si possa passare dall'uno all'altro atteggiamento cordale senza che si avvertano "singhiozzi", scalini, diversità. La maggior parte degli insegnanti fa risolvere questa problematica mediante l'oscuramento delle note di passaggio, talvolta facendola poi superare, cioè tornando col tempo a un uso indifferente dei due colori - chiaro e scuro - talatra no, cioè mantenendo sempre il colore scuro. In ogni modo è bene sottolineare che pur con risultati accettabili e anche buoni, pressoché nessuno giunge alla vera unificazione (diciamo pure annullamento!) delle due meccaniche, e da questo ne discende che quasi nessuno raggiunge quell'arte respiratoria cui agogniamo.

 Praticamente - e mi scuso per l'orribile paragone - il fiato elevato a perfetta alimentazione dei suoni vocali, chiude la doppia meccanica dalle note più basse alle più alte quasi fosse una "zip". In sintesi, le idee diffuse sono: o che il problema riguarda solo l'area della gamma vocale intorno al cosiddetto passaggio di registro, o che riguarda un'area molto ampia, ma col perenne rischio di mandare la voce indietro perché non si tiene in conto che le due meccaniche divise richiedono apporti respiratori molto diversi, o, ancora, di non credere affatto all'esistenza delle due meccaniche (ovvero che una è quella buona, l'altra inutile!!), andando un po' a tentoni e in qualche caso producendo danni, in altri casi "imbroccando" una soluzione accettabile, per quanto incosciente. La soluzione invece consta nell'educare con costanza, determinazione e chiara meta il fiato affinché ritrovi quella potenziale caratteristica già presente il lui di poter formare un perfetto strumento vocale. Per essere ancora più precisi, diciamo che, dopo le primissime note gravi, sicuramente in corda spessa, la meccanica, grazie al fiato che ha conquistata la giusta qualità, inizierà a muovere la meccanica in modo centesimale verso un assottigliamento della corda, che raggiungerà pienamente quella condizione solo nelle note più acute. E' come il glissando su un violino, dove vengono toccate tutte le altezze sonore persino in frazioni di comma. Questo deve essere garantito da una assoluta libertà di emissione del fiato, che non deve incontrare la minima resistenza o ostacolo, e tutto l'apparato deve comportarsi come un tubo completamente vuoto e inerte.

sabato, febbraio 02, 2013

Non capite niente (esortazione!!)

Questo scrivere sovente mi permette di affinare e penetrare a fondo questa disciplina, e ho fiducia nel fatto che possa tornare utile anche a chi legge, che può trovare spunti e riflessioni che accendano fiammelle di intuizione fondamentali in chi apprende un'arte, posto sempre che la presenza di un insegnante-maestro è indispensabile. Non so se qualcuno ha letto il libro: "impare a disegnare con la parte destra del cervello" di Betty Edwards. Purtroppo non ho quel testo, ma ne ho lette alcune parti, che ho trovato molto istruttive. Ora io pongo la questione dell'apprendimento del canto in una prospettiva simile, ma con qualche differenza di impostazione generale, generatami in gran parte dal alcune letture recenti. In fondo l'argomento non riguarda solo il canto, anche se qui mi soffermerò pressoché solo su quello, essendo lo scopo del blog. 
Ancora una volta le osservazioni riguardano quell'involuzione cui stiamo assistendo nel mondo del canto e della cultura in genere; la Edwards pone la questione dell'apprendimento tra le due parti del cervello, io faccio un'analisi un po' più forte e parlo di mente e coscienza, o se preferite, mente e spirito, mente e anima o come altro vi può piacere. Ciò cui stiamo assistendo da diversi decenni è una prevalenza sempre più accentuata del fattore scientifico nelle attività umane, compreso l'insegnamento - in generale - e il campo artistico, segnatamente il canto. In questo non ci sarebbe niente di male e niente di sbagliato, se non fosse che la mente tende a chiudere i canali comunicativi con la coscienza, in sostanza vuol comandare lei (ed ecco che si vuole AVERE RAGIONE!, dove ragione - ancora una volta attenzione al significato delle parole - esprime propriamente il potere razionale, della mente) e non lasciare spazio all'immenso campo della spiritualità e dei sentimenti, che essa considera illogici, quindi estranei alla propria funzione, e inutili. Nonostante si stia parlando di approccio razionale e scientifico, questa prevalenza mentale è da considerare un'involuzione, perché la mente è comunque un organo del mondo puramente fisico, dell'evoluzione animale, istintivo. Certo che nell'uomo questa ha visto uno sviluppo straordinario, ma l'essere 'esseri umani' significa ben di più, e cioè possedere una coscienza umana, che è cosa molto diversa ed esponenzialmente superiore. Purtroppo, mentre la mente funziona abbastanza semplicemente, meccanicamente e automaticamente (uff, tutte ste rime in mente... che poi "mente" significa anche ... mentire!!!!), la coscienza richiede tutt'altro approccio e diverso impegno. Come stavo dicendo all'inizio di questo paragrafo, se noi andiamo un po' indietro nel tempo, in realtà ci accorgiamo che in passato era molto più frequente e naturale approcciarsi in modo interiore, non solo perché la scienza era ancora indietro (ma non sto parlando della preistoria, mi riferisco anche solo a pochi decenni fa, quando la scienza era già molto avanti), ma perché l'uomo era molto più coinvolto emotivamente, sentimentalmente e interiormente. Il fatto è che, come dicevo, l'approccio scientifico e mentale col tempo tende a soppiantare del tutto ogni altro tipo di apprendimento, e questo ci porta a vivere in un mondo sostanzialmente illusorio, dove la ragione (appunto) non consente di intuire la verità (perché è razionalmente inconcepibile, come l'eternità e l'infinito), la nega e ci impedisce di pensare che esista. (Questo riguarda anche la scuola tout-cour, detto per inciso! ma lasciamo stare). 

Entriamo in argomento. Da dove parte la rovina di tutto il campo canoro? Dalla necessità di "capire" come si canta, cioè dal voler razionalizzare il processo di apprendimento del canto. E' chiaro, poi, che ognuno che si fa un'idea propria su questo argomento e in questo modo ritiene di aver ragione, e da qui le dispute infinite e anche violente e il coinvolgimento - e questo fin dall'Ottocento - di medici e scienziati che, poverini, credono di aver capito tutto!. Ribadisco che non sto ponendo l'approccio scientifico contro o in alternativa a quello empirico o artistico o come altro lo si vuol chiamare! Ciò che intendo dire è che l'apprendimento non è appannaggio esclusivo della mente e della ragione, ma prima ancora di qualcosa che possiamo chiamare UMANITA', cioè una prerogativa assoluta dell'essere umano che fa affidamento ANCHE sulla ragione. In poche parole, la coscienza - o spirito - ha bisogno degli occhi fisici, delle orecchie fisiche, delle mani fisiche, ecc., per percepire il mondo attorno a sè, ma ha anche bisogno di un cervello fisico per elaborare le informazioni, però quell'elaborato è come il cibo masticato, cioè non è ancora ASSIMILATO! Allora il grave rischio cui stiamo correndo incontro è una sorta di morte dell'anima per mancanza di sostentamento, perché se continuiamo a "masticare" con la mente ma non diamo modo alla coscienza di assimilare, l'uomo, cioè l'essere umano nella sua completezza, rischia grosso. 
Il motivo fondamentale per cui la scienza e l'approccio scientifico e meccanicistico non basta e non è utile alla causa del canto, è presto detta: essa divide, separa, atomizza. Il riferimento cui guardare, poco piacevole, è quello autoptico!! cioè l'unità vitale non si può separare pena la morte! Le forme vitali non si possono dividere e poi rimettere insieme, perché esiste una rete che pone tutte le parti in relazione tra loro, e separandole tutto il complesso - cioè l'unità - collassa e muore. Nel canto abbiamo la stessa situazione. Noi abbiamo una forma di funzionamento vocale già presente, che quindi afferisce a una unità formata da una rete di connessioni. In genere parlo di relazione, allineamento, sintonizzazione dei tre apparati, ma ovviamente la questione è molto più complessa. In ogni momento in cui usiamo la voce, per qualunque motivo, un complicatissimo sistema permette di gestire - entro limiti umani - questo strumento senza la necessità di alcun pensiero razionale o scientifico. Quando questo sistema entra in crisi? Quando si vuol usare la voce OLTRE le necessità di uso quotidiano o eccezionale, cioè quando non vogliamo usare stabilmente la voce NE' per parlare, abitualmente, NE' per gridare, occasionalmente. Questa cosa risulta possibile per la coscienza ma non per la mente, che non sa come fare. Semplicisticamente potremmo dire che basterebbe escludere il ragionamento razionale, e lasciarsi portare dalle intuizioni - ed è ciò che hanno fatto i grandi maestri, in fondo - ma la cosa è di estrema difficoltà, perché la mente non ci lascia liberi di fare questa scelta, che va maturata col tempo, con le esperienze e il più delle volte con delle guide. Si potrebbe allora definire questo approccio "naturale"? Fin dai primi post di questo blog ho sottolineato come il canto artistico sia un risultato naturale, ma passi attraverso un approccio che non possiamo definire naturale perché carente di un'esigenza spontanea che lo faccia assimilare alla mente come tale. Se l'approccio naturale vuol passare attraverso un ragionamento - ad esempio paragonare meccanicamente l'espirazione all'inspirazione, ho già compiuto un passo falso, perché la naturale disposizione dei due atti è stata tradita per esigenze che la mente non può capire, e quindi si creeranno falsi risultati, che illusoriamente potranno considerarsi naturali. L'unico atto naturale della voce è il parlato (ma anche il gridato, con il dovuto distinguo) e se non si parte - e non si prosegue - da quel punto, ogni progresso sarà anche un regresso, perché si potrà aumentare il volume, l'intensità, l'estensione ed altri parametri, ma questo sarà un puro prodotto mentale - e mi permetto di definirlo artificio della mente - intessuto su principi limitati e illusori e che non fanno riferimento all'essere umano nella sua completezza, non passiamo, cioè, alla sfera artistica o di coscienza, e quindi non possiamo parlare di reale naturalezza (il gravissimo problema è che anche l'ascolto diventa sempre più cerebrale e sempre meno spontaneo e interiorizzato). In conclusione faccio un'affermazione che potrebbe risultare persino imprudente e dissacrante, ma se presa con la giusta dose può aiutare: approcciatevi al canto senza voler capire! Il mio m° diceva: si capisce quando si fa. Frase illuminante. E' inutile cercare di capire qualcosa che non sappiamo fare. Non si può neanche capire quello che un altro fa, ed è per questo che il mondo dell'arte si basa su un insegnamento imitativo. Imitare aiuta a fare in un certo modo; è inutile cercare di capire perché non siamo in grado di fare certi suoni o la O di Giotto perfetta - anche se l'abbiamo spiegato - ed è inutile cercare di capire come si fa a fare il suono perfetto o la O perfetta - anche se l'abbiamo spiegato. Occorre FARE, seguendo le indicazioni, concentrandosi per rimanere uniti con la mente che coordina udito e apparato vocale; quando ci sarà il progresso, lo si apprezzerà, quando si raggiungeranno determinati risultati, si capirà di aver capito! (in passato avevo scritto un post dal titolo "capire prima", quindi la naturale conseguenza è che in realtà si capisce dopo!). Ogni delusione, senso di smarrimento, di sfiducia, sono illusioni della mente, da superare ignorandole, sviluppando invece fiducia nella propria scintilla divina, che dobbiamo far emergere rimettendo in equilibrio quanto serve - ragionamento - per la vita d'ogni giorno, per le occupazioni materiali e leggere e quanto serve - esercizio artistico - per la nostra vita spirituale o se preferite, per l'illuminazione della nostra coscienza.