Translate

domenica, novembre 03, 2013

Di quell'oteco*

Non credo esista altra opera come "Il trovatore" che giri tutta attorno a una nota, un do (non sempre...) al termine del terzo atto. Per quanto possa affermare sinceramente o meno, non credo ci sia appassionato d'opera che non aspetti la fatidica "pira" per ritenersi soddisfatto. Di cabalette, nell'epoca del melodramma romantico, ce ne sono tante, forse anche migliori di questa, ma questa le batte tutte in fatto di popolarità. E dire che quel do, Verdi, non l'ha mai scritto! Questo fatto richiede, quindi, qualche considerazione che volentieri mi appresto a fare. 

Come penso sia noto, le uniche edizioni degli ultimi decenni in cui non sia stato emesso il do (perlomeno che io sappia), sono quelle dirette da Riccardo Muti, a Firenze prima e alla Scala poi, non senza qualche polemica. La domanda ricorrente in tutti questi casi è: "ma si può fare o no?" Insieme a questo è bene associare anche il successivo do non scritto, quello dell' "all'armi" finale. Per prima cosa svelo, dal mio punto di vista, il motivo per cui la "pira" è così famosa. Lo è perché Verdi colse il giusto grado di eccitazione del Punto Massimo dell'opera. Manrico dopo mille peripezie, si trova a un passo dall'involare l'amata Leonora, sottraendola alle mire dell'odiato Conte di Luna. Tutto è pronto, le canta anche una bella serenata ("ah sì ben mio"), ma sul più bello ecco che giunge la notizia che la (presunta) madre, la zingara Azucena, è stata catturata e sta per essere condotta al rogo, per cui deve ripartire lasciando di nuovo l'amata in attesa. E questa volta le cose andranno male. Dunque in quei pochi minuti di cabaletta si concentra l'ira, l'amore filiale, la sete di vendetta, il sentimento dell'onore e del virile eroismo romantico. Verdi non scrive una bella melodia, ma poche note che sanno tradurre tutto ciò in musica. Non possiamo sapere se Verdi abbia pensato di inserirci un do ma non l'abbia fatto per non mettere in difficoltà i tenori, ma c'è fortemente da dubitare, visto che in passato era stato scritto ben di peggio, e lui stesso di do ai tenori ne aveva già inseriti, e a poco vale qualche lettera o testimonianza secondo cui successivamente l'avrebbe accettato. La nota non c'è. Una logica incontestabile vuole che si esegua solo ciò che è scritto; lui stesso in tarda età pubblicò una nota in cui minacciava che avrebbe applicato una sanzione a chi non eseguiva la sua musica come era scritta (anche solo col Rigoletto avrebbe potuto arricchirsi moltissimo!!). Gli appassionati si attaccano alla "tradizione". Beh, in musica non esiste tradizione che tenga. E' un abominio, non si dovrebbe nemmeno nominare! Ogni cosiddetta tradizione in musica non è che il portato di cattive abitudini e di ignoranza. A questo punto ognuno che legge penserà che io sia totalmente contrario a questo do. Ma la storia non finisce qui! 

Dunque, la cabaletta si struttura come un'aria con da capo, cioè ripetuta (ma è bene notare che arie e cabalette sono sempre scritte per esteso, non ci sono i puntini del ritornello). Coloro che discettano un po' di belcantismo, dicono che quando c'è una ripetizione la si può variare. Dunque, e mi pare che Celletti e anche Gualerzi approvassero questa soluzione, ripetendo, come scritto, la pira, la seconda volta, come variazione, potrebbe essere emesso il fatidico do senza intaccare la scrittura originale e utilizzando una prassi consolidata, che non è da considerare tradizione, ma spazio a disposizione del cantante per alcune fioriture personali. La questione potrebbe chiudersi qui. Già, ma io non sono per niente d'accordo! Le variazioni intanto non sono particolarmente indicate nelle cabalette ma nelle arie, dove esistono le cadenze, che sono i veri punti liberi, previsti dall'autore, che indica una propria linea cadenzale, non obbligatoria, ma soprattutto perché la variazione nell'aria non è fine a sé stessa, cioè non è tanto da ascrivere alle compiaciute esibizioni vocali del cantante, che è questione da relegare al repertorio barocco, ma la bravura sta nel rendere i sentimenti che scaturiscono nell'intimo del personaggio in quel determinato momento. In pratica, Manrico avrebbe buon gioco a variare l' "ah sì ben mio" sulla cadenza finale, ma nella cabaletta non c'è spazio per cadenze, tutto è molto esplicito e diretto (e in effetti l'aria si può considerare una fase introversa e la cabaletta la fase estroversa del momento drammatico). Quindi l'idea di inserire il do come variazione non regge, senza contare che una variazione non può essere UNA NOTA! Ma c'è dell'altro. Se il do è, come io ritengo, un Punto Massimo dell'opera, non ha senso che trovi posto nella ripetizione, perché dove il materiale è già noto non può esserci che distensione, la tensione ormai è in fase decrescente. A questo punto qual è o quali sono le soluzioni? 1) con sapiente dosaggio delle dinamiche tensive, si esegue una sola volta la cabaletta inserendo il do, P.M. e si va alla conclusione. Questo asseconda quella estrema sinteticità e fulmineità delle azioni dell'opera che Verdi ha più volte dichiarato, al punto che molte scene in quest'opera... non ci sono! sono solo descritte o le dobbiamo comprendere dagli avvenimenti seguenti o leggendo il libretto! Infatti, il quarto atto si apre già su Manrico in carcere, da cui dobbiamo dedurre che... le ha prese! 2) si esegue due volte la cabaletta senza do, ma non TALE E QUALE, come fa Muti, ma dando comunque risalto, sempre con l'opportuno dosaggio del climax, al punto massimo, che si trova effettivamente sul "o teco almen". Sinceramente sono più favorevole alla prima ipotesi. Si dirà che si contravviene alla "filologia", ma in effetti siccome è piuttosto difficile trovare degli esecutori, cantanti e direttore, che sappiano correttamente gestire la tensione, per cui rischiano di far venir meno questo punto fondamentale, è preferibile eseguire una sola volta, come è del resto quasi sempre stato fatto fino a qualche decennio fa, con la condizione sine qua non che si esegua rigorosamente IN TONO. O si fa in do, o non lo si fa. In alcune registrazioni preistoriche, quando era troppo oneroso inserire anche il coro, il cantante spesso ometteva l'ultima parte (anche per questione di spazio sui dischi) e terminava ancora con un do su "morir". E veniamo all'altro do, l' "all'armi". Questo, mi spiace tanto, ma NON SI PUO' FARE! Ha ragioni da vendere Riccardo Muti, quando afferma che non si può tenere un do mentre orchestra e coro alternano accordi di do maggiore e sol maggiore, perché il do sopra gli accordi di sol NON CI PUO' STARE, crea una serie di dissonanze impensabili in quel momento storico e in quel repertorio, per cui, anche se lo fanno tutti, c'è poco da fare: SBAGLIANO!

*: ps: per onestà confesso che il titolo non è farina del mio sacco, l'ho preso in prestito da un articolo su una rivista musicale degli anni 70 ad opera di Piero Rattalino.

1 commento:

  1. Ma in generale si può considerare corretto musicalmente inserire variazioni nella ripetizione delle cabalette? Penso al repertorio rossiniano dove l'abilità di esibire variazioni spettacolari nei da capo delle cabalette è stato uno degli aspetti peculiari di artisti come Marilyn Horne o Rockwell Blake che hanno segnato la rinascita di questo compositore negli anni Settanta e Ottanta.

    RispondiElimina