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lunedì, aprile 27, 2015

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Con questo post spero di riuscire a dare una più definitiva e chiara descrizione di cos'è l'arte respiratoria; dopodiché potrei anche chiudere questa infinita serie di post che dura da qualche anno (ma non vi preoccupate [o forse sì], continuo!). Dunque, fin dall'inizio di questo blog ho ripetuto più volte che la peculiarità fondamentale del fiato nella produzione vocale artistica risiedeva NON nella quantità di fiato, che ha comunque una sua importanza - non la si intende sminuire, ma nella sua qualità. Questa è una caratteristica che io non avevo mai letto da nessuna parte e mai sentito pronunciare da nessun insegnante o teorico del canto fin quando conobbi il m° Antonietti. Dopodiché nulla è cambiato; oggigiorno continuo a non vederlo scritto da nessuna parte, salvo vedere appuntare dei "mi piace" o ricevere commenti positivi quando lo scrivo in determinati forum o social network. Forse è meglio così perché non c'è l'ipocrisia di dire un qualcosa che poi non si sa spiegare. Questo concetto ho provato a illustrarlo in molti modi, ma forse mi sono sempre mancate le parole concise, sintetiche e pregnanti per fissarlo in modo realmente comprensibile. L'artista vive una realtà che è propria di una dimensione del pensiero, e mal si coordina con i limiti imposti dal mondo fisico e delle concezioni razionali. Esprimere a parole cosa vuol dire respirare artisticamente ai fini di una vocalità esemplare è cosa quasi impossibile, o forse lo è del tutto, ma per approssimazione è probabile che input efficaci possano arrivare a chi è aperto ad accorglierli. Come dico sempre, le soluzioni sono più semplici di quanto si possa pensare e più "davanti al naso" di quanto non si creda, ma non si hanno mai occhi abbastanza puri per vedere la verità che ci sta di fronte. Dunque, partiamo dal fatto fondamentale: cos'è un suono? E' la vibrazione REGOLARE di un corpo elastico. Nel nostro caso abbiamo delle lamine parzialmente muscolari e in maggior percentuale formate da tessuto connettivale elastico. Quando esse sono chiuse e l'aria deve passare, ne forza l'apertura finché esse cedono, ma appena lasciata passare una piccola quantità d'aria, esse si richiudono, e ripetono questo ciclo all'infinito, pertanto potremmo dire che la regolarità produttrice del suono è quasi casuale. Questo sistema non è governato da una volontà di tipo musicale, ma solo da una legge elastico-meccanica (che è la stessa delle corde degli strumenti ad arco, salvo che quelle saranno sempre così, mentre le corde vocali umane hanno una possibilità di cambiamento). Le corde oppongono una lieve resistenza e l'aria che passa provoca una continua apertura-chiusura che genera suoni. La stessa cosa la possiamo facilmente provare con le labbra (è ciò che fanno i suonatori di strumenti in ottone); non per nulla le c.v. si chiamano più propriamente labbra della glottide. Proprio facendo esperimenti con le labbra vi renderete conto che questa vibrazione se è abbastanza semplice in alcune note centrali, diventa molto difficile, irregolare, man mano che si provano a fare suoni acuti, e questo perché si genera un difficile equilibrio tra la quantità di aria necessaria a far vibrare le labbra e la pressione stessa che insiste su di esse e che per reazione si tendono a indurire, tendere. L'aria "non sa cosa sta facendo", esce con una pressione e in una quantità dettata da una nostra idea vaga delle dosi che occorrono per emettere un certo suono, ma anche da una conoscenza interiore, che però collide con il grossolano funzionamento fisico. Ora, il cuore di tutta questa disciplina sta in questa realtà: l'unico modo affinché si producano suoni perfetti, è far sì che il fiato possegga una qualità fondamentale: la REGOLARITA' (da cui il fiato respiratorio si trasforma in ALIMENTAZIONE); a questo proposito vi rammento l'analogia che proposi molto tempo fa: la cintura di sicurezza. Se la estraggo con regolarità essa si srotola tranquillamente, se strattono, la valvola blocca. La regolarità, poi, NON E' distaccata rispetto l'appoggio e la pressione; ne è la necessaria SINTESI, cioè: affinché un arco respiratorio (alimentante) possegga esatte condizioni di regolarità rispetto un suono vocale che si vuole emettere, deve possedere adeguata pressione e intensità. Se non ci sono queste caratteristiche non potrà esserci neanche la regolarità. Quindi non si può pensare di esercitare e conquistare solo una di queste caratteristiche, perché non si arriverà mai alla sintesi, che è la regolarità. Se manca questa, manca la CONDIZIONE essenziale CONOSCITIVA interiore del fiato affinché si possano emettere suoni perfetti. Se il fiato alimentante lo possiamo definire un ORDINATO FLUSSO di molecole d'aria avente una determinata densità, unica condizione affinché le c.v. vibrino con esatta e indefettibile regolarità, dobbiamo anche considerare che quando il fiato ha una pressione leggermente inferiore o superiore al necessario, le corde mutano il proprio atteggiamento; se il flusso è regolare e in perfetta sincronia con l'impulso nervoso proveniente dalla mente (coordinato con l'orecchio) le corde vibreranno con una libertà e una semplicità massima; nel momento in cui si perde questa regolarità, quindi il fiato arriva con maggiore (o minore) pressione o intensità rispetto a quanto previsto e necessario, le corde tornano a opporsi per cercare di "ubbidire" alla richiesta mentale, oppure si sforzeranno per integrare la vibrazione per quanto non giunge in termini energetici dall'aria produttrice. In pratica, quindi, esiste una sola condizione affinché lo strumento vocale si comporti come tale in modo meccanicamente perfetto, e cioè che esista un comportamento "musicale" anche da parte del fiato. E' una EVOLUZIONE del fiato (non più solo respiratorio ed erettivo), quindi possiamo dire che esso diventa più "intelligente", ovvero con un grado di conoscenza superiore. Lo stesso avviene per le corde vocali quando esse, in virtù di quella ricchezza respiratoria, potranno vibrare in tutta la gamma con un'unica meccanica, risultato di una gradualità vibratoria. Se si evolvono fiato e corde, è anche grazie a una più semplice e raggiungibile evoluzione (che è il traino, l'esigenza che innesca tutto il processo successivo): quella delle vocali o meglio del parlato. Sono stato criticato per aver esposto come esercizio il "perfezionamento" del parlato, il che secondo alcuni è una procedura scorretta. Allora accetto la critica e cambio terminologia: non perfezionamento, ma evoluzione del parlato, il che è decisamente più appropriato! Il parlato si evolve da mero strumento di comunicazione di basso livello (che è tale perché richiede un basso consumo di energie; un po' come il lavoratore che durante la settimana utilizza un'utilitaria per consumare meno, e lascia l'auto buona - che però consuma - ai periodi di vacanza)a uno di elevato livello. Detto ciò qualcuno potrebbe chiedere: bene, e come si fa a ottenere questo strepitoso risultato? Intanto è fondamentale saperlo e meditarci sopra. Quindi qualche suggerimento. E' evidente, l'abbiamo segnalato poco sopra, che l'equilibrio si realizza abbastanza facilmente nelle note centrali, generalmente più facilmente riproducibili, quindi, come dice il M° Antonietti nella registrazione, occorre far diventare anche il settore acuto come fosse il centro; come si ottiene questo? Parlando man mano su tessiture più acute (ma anche più gravi), o, all'inizio, cercando di parlare (alzando di poco la voce) con la stessa semplicità ma verità che si usa nel centro. L'altro suggerimento riguarda il falsettino e la produzione del primo armonico (di cui parla nel suo trattato il m° Delle Sedie). In questo genere di suono si ha poca istintività alla spinta e infatti ci risulta un'emissione più facile. Talmente facile che le persone (maschi) spesso non vogliono farlo sia perché assomiglia troppo alla voce femminile (disdicevole per i maschi...!), sia perché dicono essere troppo debole (idem). Ma quello è il "bandolo" che ci permette di "acchiappare" il filo della vocalità che si sviluppa esternamente, quindi è necessario, indispensabile. Per le donne, che già hanno il falsetto, ma non per questo non spingono, devono avvicinarsi alla voce infantile. Qualcuno si vergogna e pensa che sia poco dignitoso, non rendendosi conto di quanto poco sia dignitoso un suono gutturale o nasale, che emettono e con cui cantano intere serate senza alcuna vergogna. A proposito di esercizi sul parlato, inserisco questo inciso tratto da una intervista al nipote di Beniamino Gigli:
<< - Senta, che tipo di vocalizzi ha sentito che faceva (Gigli) quando studiava? - Eh, nonno faceva, a parte quelli classici, un vocalizzo che diceva (intona su una nota) : "Padre Gallo aveva un gallo, bianco rosso verde e giallo, per addomesticarlo usava pane e miele"; senza calare mai fino a andare su vocalità alte, quindi lo teneva con un fiato solo, e quando si va su è difficilissimo, cioè se spingi non arrivi a metà di questa frase>>
(tratto dall'Intervista al Dott. Beniamino Gigli, nipote del grande tenore italiano, condotta da Astrea Amaduzzi) Ora questi esercizi sono molto vicini a quelli che si fanno nella mia scuola (come per quelli di Tito Schipa), il che vuol dire molto poco perché poi l'efficacia non dipende tanto dall'esercizio proposto quanto da come viene gestito, però è abbastanza emblematico di un certo approccio, e sono lieto di cogliere in queste poche parole molta comunanza con le idee e le intuizioni sia di Schipa che del m° Antonietti. Tra l'altro sarà bene ricordare che questi esercizi saranno stati congegnati dal m° di Gigli, Enrico Rosati.

martedì, aprile 21, 2015

À la recherche du temps...

E' abbastanza noto, credo, che ciascuno ha un proprio tempo, un proprio ritmo. Conosciamo sicuramente persone che impiegano un tempo enorme per dire una cosa, anche molto semplice, così come conosciamo persone che ci creano ansia per quanto parlano veloci e magari si mangiano pure le parole (non parliamo poi della velocità dei ragionamenti e del cogliere le situazioni). Il tempo è una condizione che risente di molte caratteristiche, alcune ontologiche, proprie di un soggetto, altre legate a fattori contingenti, come la salute, le condizioni ambientali e sociali; possono essere fisse o di breve durata, cosicché, in questo caso, possiamo notare se e quando mutano sensibilmente. Queste condizioni hanno un'influenza anche sul tono vocale e su alcuni caratteri timbrici, per cui una persona in uno stato di stress può diventare irritante a chi ascolta perché nella voce si trasmettono picchi acuti fastidiosi, oppure la persona ha un ritmo respiratorio molto frequente, rubato, che crea anche, per simpatia (neuroni specchio?) ansia e imbarazzo (il limite è la balbuzie). Questi fattori non sono propriamente istintivi, ma fanno parte di un bagaglio di requisiti personali su cui si imposta il funzionamento generale di una persona, per cui diventa una sorta di istinto soggettivo con cui si devono fare i conti. Questo nostro tempo, o ritmo, va in crisi quando qualche situazione ci richiede un mutamento. Ad esempio io sono una persona che cammina piuttosto frettolosamente; talvolta incontro persone per strada con cui si chiacchiera, e dopo un po' questa persona si ferma e mi chiede di camminare più lentamente perché non ce la fa. Però ho trovato anche persone che camminano più rapidamente di me e che dopo un po' mi mettono un po' in difficoltà. Naturalmente avrete capito che è una questione di fiato, però non è lo stesso vocale, anche se qualche influenza può esserci. Ma il tema su cui mi soffermo è il tempo del parlato. Date un testo a una persona e fateglielo leggere. In genere le persone leggono molto rapidamente, incespicano sui fiati, sulle parole meno consuete e sulla punteggiatura, si mangiano le finali delle parole, esaltano i dialettismi, non sanno sempre dare il giusto carattere alle domande, non sanno esprimere convenientemente le frasi scherzose o umoristiche o quelle drammatiche. Non per nulla esistono corsi di dizione e di lettura; e questa è un'attività che potrebbe, molto più che il canto, definirsi "naturale". Questo perché non ci sentiamo, non abbiamo una reale immagine o coscienza di questa nostra attività, e infatti rimaniamo imbarazzati fino alla vergogna quando ci si riascolta in una registrazione. Per diversi anni feci radio, in gioventù, in un programma di musica operistica. Ricordo quale mazzata fu risentire le prime registrazioni! Però fu utile, perché molti errori riuscii a correggerli da solo. Dunque, per venire allo scopo pratico di questo post, vi propongo di prendere un breve testo, anche conosciuto, e provare a leggerlo con un tempo estremamente lento. Non significa separare le parole, sia chiaro, il testo deve conservare la propria scorrevolezza e il proprio fraseggio comprensibile. Scoprirete che questo cambio di ritmo viene male accettato dalla vostra psicologia, appunto perché collide con una certa immagine di sé che si è creata nella coscienza. Non saprete più bene gestire i fiati, non saprete più bene come pronunciare certe parole, scoprirete che avete una bocca (!!), labbra, mandibola, lingua che si presentano e vi chiederete dov'erano state fino a quel momento!! Quindi scoprirete, per l'appunto, che queste parti anatomico-meccaniche sono relazionate al fiato. Se non avete mai svolto attività recitative e non avete seguito corsi, ecc., sicuramente questo esercizio vi provocherà qualche fastidio, perché, come dicevo, questo cambiamento non avviene in virtù di un cambiamento di stile di vita necessario, ma perché dipende solo dalla vostra volontà, non è legato ad esigenze esistenziali, e quindi provoca "scollamenti" tra i centri mentali che governano le nostre abitudini e le parti anatomiche che eseguono; una sorta di disarticolazione o scoordinamento. Ci sarebbe da fare poi tutto un discorso sul... discorso! Quando leggiamo, per quanto ci possiamo sentire "presi" dal contenuto, con difficoltà riusciremo a riprodurre le stesse cadenze, gli stessi atteggiamenti vocali, ritmici, tonali; si rischia sempre di essere finti, poco credibili, artefatti, sopra le righe, noiosi, ecc. Manca quella scioltezza, quel coinvolgimento interiore che guida i nostri centri a un'espressione sincera, realistica, aperta o intima a seconda del caso. Solo così si può realmente comunicare. Questo lo sappiamo bene dal teatro o dal cinema, ma sembra meno evidente nel canto. E questo è un errore madornale, uno degli aspetti che sta facendo regredire l'opera a spettacolo vetusto e retorico. Nell'800 le cronache e le locandine non dicevano: cantanti, ma ATTORI! e questo non solo perché lo spettacolo avviene sul palcoscenico con tutta una gestualità relativa all'azione rappresentata, ma perché il testo deve arrivare con tutto il proprio contenuto a chi ascolta. A parte il "solito" studio del canto, se non ci si esercita a modificare il tempo di espressione verbale, si sarà limitati anche nell'apprendimento del canto artistico, quindi: cercate il tempo, non tanto il "vostro", che emergerà nel momento in cui lo varierete, ma un altro, anzi, molti altri, e fate le vostre considerazioni. Intanto che ci siete, magari, quando siete in giro a camminare, provate a esaminare il tempo del vostro passo (e magari che relazione c'è tra i vostri pensieri e il vostro passo e tra il respiro e il passo), oppure provate a vedere il ritmo con cui vi muovete in casa e provate a modificarlo; se non altro sarà una cura contro le nevrosi. Però se conoscete qualcuno molto lento, provate a non giudicarlo con insofferenza, ma provate ad allinearvi con lui. E' un ottimo esercizio per lo svelamento della coscienza e l'abbattimento dell'ego.

sabato, aprile 18, 2015

Il trattato - 16

Sappiamo, per cognizione di causa, che la respirazione con la parete addominale anteriore leggermente depressa (denominata "costale"), se usata nei primi periodi di studio, porta, se l'insegnante non è di primissimo ordine, verso la compressione sottoglottica e, quindi a difetti più o meno vistosi quando addirittura non comprometta un qualsiasi avvenire dell'aspirante cantante. E' nota la falcidia di voci che non hanno superato un simile metodo. Se manca la cognizione di causa, si va immancabilmente incontro alle conseguenze che sono relative a questa mancanza.
Deve essere chiaro che qui non si sta facendo una valutazione positiva o negativa di un certo stile respiratorio; quanto scrive il M° Antonietti si riferisce esplicitamente a un atteggiamento da evitare NEI PRIMI PERIODI DI STUDIO. Sappiamo infatti che all'inizio le reazioni istintive portano a sollevamenti repentini e potenti del diaframma; premere sulla parete addominale anteriore significa anche premere al di sotto del diaframma e, di conseguenza, sollecitare ulteriormente tale reazione e sollevamento.
L'istinto è una sufficiente esigenza esistenziale, ed è già una coscienza che non ne accetta una nuova e sostitutiva.
Si ribadisce un concetto chiave! Il nostro corpo fisico è governato da un principio regolatore che non può accettare che la respirazione agisca secondo principi diversi da quelli contenuti nel DNA (cioè da scambiatore gassoso e all'occorenza da complemento erettivo del busto ad alimentatore di suoni di elevata qualità).
Se non è opportunamente assecondato, la sua reazione tende, entro i propri limiti, a degenerare. Il superamento dell'istinto, quindi, diventa possibile solo quando l'azione educativa opera entro i limiti di concessione istintiva
L'istinto reagisce ma tale reazione può avere nel tempo ampi margini di tolleranza. Sappiamo che l'allenamento costante porta nel tempo ad ampliare le possibilità (ad esempio per i sub) sia di durata che di resistenza muscolare. Non è però questa la strada esemplare da percorrere, perché la concessione tende a svanire quando l'allenamento diminuisce o cessa. Intanto occorre esercitarsi facendo sì che l'istinto abbia la minor esigenza reattiva possibile, quindi è bene non provocarlo con suoni molto potenti e/o scuri e/o acuti, perché quelle sono le condizioni di maggior sollecitazione.
e quando pone l'istinto in una condizione di blanda reazione che consente all'azione educativa di proiettarsi oltre l'intenzione, arricchendo così la mente che viene a conoscere che esiste un oltre dove prima esisteva un limite.
Altri concetti fondamentali, su cui occorre soffermarsi a riflettere a lungo, senza giudicare. Allorquando l'esercizio consente, senza forzatura, di conseguire un buon risultato, ci si dovrebbe porre l'interrogativo del perché accade questo; esiste un "oltre" alla nostra fisicità che si può conquistare senza forza, ma escludendo le cause della reazione, e questo perché, una volta superato l'ostacolo, la mente apprende un dato fino a quel momento sconosciuto, in quanto non contenuto nell'istinto, anche se possibile perché contenuto nelle potenzialità umane. In questo senso potremmo parlare di una "doppia appartenenza", cioè la fisicità, governata in primis dall'istinto, e la natura umana, che si gioca anche sul piano conoscitivo, spirituale, volitivo.
Il fatto poi che questo procedere possa condurre a superare tutti i limiti, sino a quel non oltre inteso come Arte e diverso dal non oltre inteso come concessione istintiva, investe il concetto stesso di Arte.
Torniamo, necessariamente, a input gnoseologici, che sono alla base di una disciplina realmente artistica. L'istinto animale limita le possibilità concrete del nostro pensiero, che sono immense, per cui non c'è altra strada, per raggiungere le massime possibilità di manifestazione artistica, che superare quei limiti, il che però, come già scritto, non può e non deve avvenire con la forza, altrimenti sarà una lotta contro l'istinto che avrà sempre la meglio perché è un codice vitale, quindi dobbiamo aggirarlo e, in un certo qual senso, "convincerlo" che quanto facciamo non confligge con i suoi limiti, ma anzi amplia le nostre possibilità e i nostri orizzonti.
Se il metodo asseconda l'istinto entro i propri limiti e non lo domina (ovviamente quando non lo peggiora), quei limiti sono e diventano insuperabili, cioè limiti tecnici che hanno, ovviamente, un oltre che non possono né raggiungere né comprendere, perché un limite relativo ad un certo conoscere presuppone l'impossibilità di superarlo.
Qui si presenta un "nodo" importante, cioè superare l'istinto senza provocarlo. Se assecondiamo l'istinto possiamo agire in un ambito limitato, anche se è un fattore soggettivo, per cui alcuni possono compiere azioni di maggior interesse rispetto ad altri, ma saranno sempre azioni limitate e che, nella loro peculiarità, non possono rientrare in una qualità di tipo artistico (ad esempio certi cantanti di musica leggera, che possono suscitare un elevato interesse per specifiche doti di bella voce e di intelligenza testuale e creativa, ma non si possono contraddistinguere per una vocalità rilevante). Per molte persone e alcuni campi può essere un dato sufficiente. Non lo è e non lo può essere (o potrebbe) in un campo come la vocalità operistica e concertistica classica, che fa della voce un punto di eccellenza.

martedì, aprile 14, 2015

L'inganno (in)felice

Utilizzo questo titolo di una giovanile opera rossiniana per addentrarmi in un campo che oserei quasi definire demoralizzante. Mi scrive una studentessa di canto, non più alle prime armi: "... il metodo che mi è stato insegnato [per undici anni, ndr] è sempre stato lo stesso, cioè la voce che non esce dalla gola ma dalla testa e soprattutto le vocali non aperte ma chiuse per permettere alla voce di scurirsi e di poter cambiare registro.... Insomma ció che vorrei capire sta proprio in questo.... come posso permettere alla mia voce di appoggiarsi se lascio tutto cosi largo? e il colore? e poi la sostanziale differenza tra lirica e musica moderna non sta proprio nel fatto che noi usiamo le casse di risonanza e loro il microfono? ma.se le vocali si allargano e le parole vengono scandite cosi bene come puó la voce sentirsi fin all'ultimo loggione di un teatro?". La voce non può NON uscire dalla gola, su questo dobbiamo eccepire, ma che la SENSAZIONE debba essere quella, ok, può essere condivisa. Ma "uscire dalla testa" cosa significa? La testa è "oggetto" alquanto voluminoso con molti organi, molte parti e anche diversi "fori". Per qualcuno la voce deve uscire da "sopra" la testa; per qualcuno dalla parte frontale alta, per qualcuno addirittura dalla parte occipitale, tutti luoghi privi di orifizi, da cui non può uscire nulla, pertanto non posso non definirle un mucchio di idiozie pericolose. La voce esce da dove la natura ci ha consentito di farla uscire: dalla bocca. Però c'è la questione "risuonatori". Qui si attaccano gli insegnantucoli che si sono appiccicati quattro cose e che ripetono a pappagallo senza un che di pensiero autonomo e critico. "Bisogna utilizzare i risuonatori". Ma cosa significa?? Per qualcuno (i più arretrati) bisogna proprio "mandare" la voce nelle parti alte della testa dove ci sono ampi spazi liberi (qualcuno di spazi liberi ne ha, evidentemente, davvero tanti!!), come fosse un oggetto che si manda dove si vuole. Certo, è vero che ci sono delle canalizzazioni e che è possibile indirizzare il flusso un po' più in una direzione che in un'altra e che determinati movimenti muscolari possono creare canalizzazioni diverse, per cui il suono può andare nelle cavità nasali, almeno in parte, anziché in bocca, ma sempre con conseguenze negative. Il fatto è che solo a pochi viene in mente che abbiamo un "ponticello", costituito dal palato anteriore (alveolare), che quando colpito dal suono mette in vibrazione automaticamente la parte superiore del volto e delle cavità connesse. Perché questo ponticello non funziona sempre al meglio? Perché il suono non possiede innatamente, se non per alcuni privilegiati, le caratteristiche di intensità che permettono a questo amplificatore di svolgere efficacemente il proprio ruolo. E qui, per l'appunto, veniamo all'altro punto critico, cioè l'appoggio. La scarsa conoscenza fa dire a gran parte degli insegnanti che l'appoggio non c'è e va imparato e sostenuto con forza. E così facendo vanno esattamente in direzione opposta!! Guardate un po' che inganno si cela dietro a un concetto che viene inculcato nelle menti: "se pronunci troppo viene meno la risonanza "di testa", quindi diventi un cantante di musica leggera (aspettate che rido) e perdi l'appoggio, perché per avere l'appoggio ci vuole il suono scuro (poveri Lauri Volpi, Tamagno, Schipa, Pagliughi, ecc. come avranno mai fatto con quelle voci chiare e con quella pronuncia ineccepibile??). Poi pure "cambiare registro". E già, se non si usa il colore scuro... addio registri! (aspettate che rido di nuovo). Che poi sui registri cosa avranno capito? Comunque il centro di tutta la questione sta in questo: creo un colore oscuro entro di me, mi guardo bene dall' "aprire" i suoni, li tengo ben ben chiusi in modo che si crei una "bomba" interna che genera appoggio. Capito? E magari questi sono quelli che sparano a zero sull'affondo non rendendosi conto che in un modo o nell'altro sono tutti affondisti. Anche il mio primo insegnante mi parlava in modo negativissimo dell'affondo, ma alla fine cosa mi ha insegnato? ad affondare. Questo è l'inganno infelice! Tutti parlano e sparlano, ma poi una linea di pensiero e educativa della voce realmente efficace e chiara non ce l'ha quasi nessuno! Anche il fatto di far "parlare", ok? Ma sanno esattamente cosa stanno facendo quando propongono esercizi parlati, o lo fanno per distinguersi da altri e provare un'altra strada? Non solo i suoni vanno aperti e chiari, ma i pensieri, la mente deve essere aperta e chiara, luminosa! L'appoggio non va imparato, non c'è nulla da inventare, dobbiamo avere la pazienza e procedere con prudenza, con sicurezza verso una meta conosciuta, non navigando "a vista", o peggio, con la sicurezza dell'incoscienza.

sabato, aprile 11, 2015

L'effusione

Definizioni di Effusione: "Spargimenti, fuoriuscita, diffusione; dimostrazione d'affetto. dal latino: effusio, da effondere, composto di ex fuori e fundere spargere (ma anche fondere e sconfiggere). Effusione del sentimento umano: il dentro si libera, evapora nell'aria circostante o sgorga fuori - espressione di sé sincera e immediata, veramente pura, autentica: dopotutto, con quali persone ci abbandoniamo in effusioni d'affetto? Con quelle con cui non sentiamo il bisogno di frapporre distanze o maschere, che sanno il nostro sentimento e che soprattutto lo sanno accettare." Definizione nell'ambito della Chiesa: "Il termine “effusione” deriva dall’espressione degli Atti degli Apostoli: "Giovanni ha battezzato con acqua, voi invece sarete battezzati in Spirito Santo, fra non molti giorni" (At 1,5). Fu a Pentecoste che si compì questa promessa di Gesù. Agli Apostoli venne effuso lo Spirito Santo e restarono profondamente trasformati." Esistono anche definizioni di carattere medico e fisico-chimico piuttosto interessanti: processo tramite il quale le molecole gassose attraversano un foro sottile senza collidere fra loro)"). Le implicazioni nel canto che derivano da queste definizioni mi paiono molte e parecchio interessanti e arricchenti. L'intuizione su questo termine mi venne durante una lezione in cui dissi: "il suono vocale non deve essere compresso ma effuso". Qualcuno può ritenere sia un sinonimo di diffuso (e infatti è riportato come tale nella definizione che ho copiato), ma non è propriamente così. L'effusione si contraddistingue per una diffusione, sì, ma avente un carattere particolarmente "sottile", privo di significativa pressione per cui si effonde senza incontrare resistenze (si veda sopra la definizione affettiva del termine, che ho messo in grassetto, ma anche la definizione fisico-chimica). In un certo senso ci vedo anche un'analogia con la stessa resistenza dell'aria, quindi con l'areodinamica. Il suono è caratterizzato da onde dove l'aria si presenta ora più ora meno compressa; questo fatto però può essere ulteriormente caratterizzato dalla pressione o dal movimento. Sappiamo bene cosa capita quando passa un'ambulanza con la sirena attivata; avremo sensibili modificazioni dell'altezza del suono a seconda se ci troviamo di fronte o alle spalle dell'ambulanza, e questo è particolarmente evidente quando la stessa arriva (quindi viene verso di noi) e passa (e ci troviamo dietro); immediatamente sentiamo un abbassamento del tono sonoro. Questo è dovuto alla pressione che si genera con il movimento dell'ambulanza. Nel canto tutto ciò ha un impatto pressoché nullo, davvero poco incidente, ma qualche conseguenza d'altro tipo può esserci, e riguarda per l'appunto la differenza tra una normale diffusione e una effusione, cioè una sottile e profonda infiltrazione in ogni spazio raggiungibile. La massa di suono, cioè una molteplicità di eventi sonori non puri, quindi inquinati da una emissione caratterizzata da interessamenti muscolari, fibrosi, incontrerà una sensibile resistenza da parte dell'aria, e con maggior difficoltà si propagherà nell'ambiente. Ho avuto, e penso molti di coloro che leggono abbiano avute, esperienze di cantanti con voci "tonanti" da vicino (uno lo ricordo particolarmente, il basso che cantava nei Due Foscari di Verdi al Regio quando ero nel coro, che mi faceva impressione per quanto suono producesse a pochi passi di distanza, benché mi spaventasse quasi da quanto tremava e fosse rigido tutto il corpo, e la sorpresa che mi colse quando lo sentii dalla parte della platea: neanche la metà del suono che avevo avvertito sul palco!) e misere da più lontano (il classico: non si sente oltre la terza fila!), da cui nacque anche il motto: "la voce che corre". Concetti come "superare la barriera orchestrale" o "farsi sentire in un grande teatro", "affrontare le impervie tessiture delle opere moderne", in genere si pensa di risolverli mediante una maggior pressione, cioè aumentando il cosiddetto appoggio diaframmatico, e infatti mi pare che così la pensino soprattutto coloro che cercano l'"affondo", cioè una pressione sul diaframma che generi, per reazione, una forte pressione sull'aria (e le corde vocali) che avrebbe le caratteristiche ideali per rispondere alle richieste che ho elencato. Certo che la forza bruta qualcosa genera, se si hanno le caratteristiche fisiche e nervose per superare le difficoltà e i possibili (quasi sicuri) disturbi che si sviluppano per contro, bene, ma, come ho già scritto recentemente, andrebbe sempre redatto un bilancino tra ricavi e spese, e qui sono piuttosto certo che la bilancia è in passivo, però sul piatto molti ci mettono i possibili profitti finanziari o comunque di immagine che potrebbero scaturirne se si vincesse la sfida, e a questo punto il discorso si interrompe. Nel 600 e buona parte del 700, il successo eccezionale di alcuni cantori castrati, portò molte famiglie a praticare quella vandalica operazione ai loro figli, nella speranza di un significativo cambiamento di vita (e questo era sicuro! purtroppo di rado in positivo); non è certo la stessa cosa, non è nemmeno avvicinabile ed è comunque una scelta che si compie per sé stessi e non per altri, però credo che la maggior parte di chi affronta determinate metodiche di apprendimento del canto ignori le conseguenze cui va incontro.

lunedì, aprile 06, 2015

Revision delle revisioni - video

Video relativo ai post "revision delle revisioni" pubblicati nel dicembre scorso ( http://cantolirico.blogspot.it/2014/12/revision-delle-revisioni-2.html )

sabato, aprile 04, 2015

Modalità Vs evoluzione

Ciò che emerge dalla maggior parte dei testi e delle parole di chi insegna o teorizza l'insegnamento del canto è che il passaggio da allievo a cantante 'pronto' avvenga tramite una modalità "statica", cioè apprendendo una tecnica. La tecnica consiste nel fare determinate cose: respirare profondamente, atteggiare le pareti interne (faringe, palato molle), compiere movimenti con le varie parti del busto (parete addominale, in particolare) e dello strumento (laringe), immaginare di indirizzare il suono ora qua ora là (naso, maschera - qualunque cosa possa significare e quindi verso quale parte della testa indirizzare il suono, calotta cranica, nuca), a seconda dell'inclinazione del docente (belcantismo, canto in maschera, verismo, affondo, ecc.). Si consolida così l'idea che per cantare occorra imparare a fare cose che col tempo diventano automatiche. Questa cosa è profondamente errata, o meglio, è possibile, ma conduce verso un tipo di canto che è e rimarrà per sempre "immaturo", cioè basato su forzature degli apparati fono-respiratori che si trovano costretti a produrre una fonazione compressa e rumorosa, opposta a qualunque principio musicale e artistico. Ben diverso è il concetto evolutivo, cioè di una progressiva maturazione di un principio che non trasforma volontariamente apparati e meccaniche, ma genera condizioni e urgenze spirituali che non potranno che andare a far evolvere apparati e meccaniche nel senso richiesto. Questo significa che qualsiasi trasformazione non sarà sottoposta a forzatura, ma sarà l'adattamento di una condizione istintiva, in partenza, in una artistica, poi. Non solo questo non può andare contro a nessun tipo di attività fisiologica, pertanto sono da escludersi patologie a carico degli apparati, ma anzi eleverà anche il grado di resistenza ad agenti patogeni grazie alla cura, all'uso equilibrato ed emolliente del fiato. Fiato il quale non può trasformarsi in qualcosa di diverso (da agente scambiatore chimico a alimentatore di suoni puri) modificando il modo di respirare (con la pancia, col petto o altro). L'evoluzione avverrà man mano che l'esigenza artistica si accompagnerà a una diversa richiesta dell'emissione, mediante un utilizzo mirato della voce e del parlato (intonato o meno). Creare contrasti più o meno forti tra le varie parti dell'apparato (diaframma e laringe) per indurre una maggior ampiezza di vibrazione della corda, come propone qualche ingenuo "esperto", non ha niente a che vedere con una emissione artistica, dove non si produce alcun contrasto ma si consente uno sviluppo costante e superbo dell'azione respiratoria fino alle sue massime possibilità, a patto di "togliere di mezzo" tutti quei contrasti, quelle opposizioni e reazioni che la richiesta di un canto più impegnato ed esteso provocano. Ma se si nega l'esistenza di questa reazione, siamo al punto di partenza, non c'è altra soluzione che un canto che in qualche modo sarà meccanicistico e forzato, oppure con qualità assai eterogenee e incapaci di fraseggi ampi ed espressivi su tutta la gamma, di raffinate dinamiche, di esplicazioni sincere e convincenti del testo proposto. E' l'uomo nella sua essenza che deve promuoversi a un livello evolutivo superiore per poter accedere a questo canto, e ciò vale se oltre a comprendere il percorso da seguire, si accetta di mortificare il proprio ego e il proprio narcisismo, filtri neri tra sé e coscienza.