Translate

domenica, maggio 31, 2015

Dualismo

La tendenza umana è quella di dividere, anche quando pensa di fare bene, virtuosamente. Ad esempio un principio molto diffuso è quello del dialogo; perbacco, chi non sosterrebbe che il dialogo è importante e va incentivato? Pensiamo a tutto il discorso sulla pace nel mondo: non è col dialogo che si può, se non fermare le guerre perlomeno mitigarle o diminuirne il numero? Sì, però il dato negativo è che il dialogo sempre di una divisione parla, "io e te" o "tu e lui", che col dialogo sicuramente potranno trovare qualche posizione meno contrastante, ma che non partono (e quindi difficilmente arrivano) (d)a un'ipotesi di unificazione. Lasciando da parte i temi giganteschi dell'umanità, e dedicandoci invece ai nostri più abbordabili argomenti musicali, ci troviamo comunque nella stessa situazione. Pubblico ed esecutori: una divisione. Si potrebbe trovare non solo logica ma indispensabile questa divisione di ruoli, e infatti è così, ma la questione è che non c'è una volontà unificante; gli uni sono lì per suonare e cantare, cercando in qualche modo il plauso di coloro che ascoltano, gli altri per ascoltare. Quante volte abbiamo sentito, o anche detto, oggi non abbiamo suonato tanto bene, ma "tanto nessuno se n'è accorto"? Oppure l'amico che viene a salutarvi dopo il concerto e voi gli dite: "oggi non eravamo molto in forma, abbiamo commesso diversi errori" e quello: "oh, non se n'è accorto nessuno". Cosa c'è dietro questa situazione? Diverse cose; prima di tutto l'ignoranza, detto non con cattiveria o accusa, ma con malinconia, con tristezza. Le persone sentono imperioso il desiderio di ascoltare musica, ma non sanno perché, e non sanno COSA ascoltare. E di qui, come ho scritto precedentemente, ecco l'INVENZIONE! Inventano gli esecutori, inventano gli spettatori. Non sapendo cosa ascoltare, ci si inventano dei criteri senza fondamento, cui poi molti si aggrappano perché offrono un appiglio alle critiche che diversamente rimarrebbero vuote, silenziose, e siccome le persone non ci stanno a fare la figura di coloro che non hanno nulla da dire, trovano buon gioco nell'attaccarsi a qualunque spunto, magari, nel caso di persone più modeste - almeno apparentemente - premettendo un "io non me ne intendo tanto ma...". E appunto in quel "ma" ci stanno tutte le contraddizioni del mondo. Pensate un po' a un esecutore qualsiasi, che viene avvicinato da uno spettatore che dice: "io non me ne intendo, ma lei mi sembra proprio bravo". Si risponde "grazie", ma qual è il valore di quel messaggio? "il mio giudizio non vale niente". Ma se, al contrario, il messaggio fosse: "non mi è piaciuto molto", la risposta del musicista sarà, il più delle volte, "lei non capisce niente!". Il vero fondamento di tutta la questione sta nell'assunto che, pur con diversi ruoli, le persone, gli uomini, si ritrovano per UNIRSI nella musica. Se un concerto, o una rappresentazione, fosse, come dovrebbe, un EVENTO, non di tipo spettacolare in senso esteriore, ma di tipo interiore, si troverebbero non gli elementi che dividono, ma quelli che uniscono. Sempre più persone vanno in teatro per trovare ciò che non piace, ciò che non funziona, per lamentarsi, per criticare, accusare e incolpare. Il guaio è che... hanno quasi sempre ragione. Ecco, però, che qui già compare un elemento di frizione, cioè: la ragione! Non è romanticume dire che in primo luogo bisognerebbe ascoltare "col cuore". Può significare anche solo togliere quella vocina interna e quella prevenzione rispetto a ogni cosa che tocca i nostri sensi. Meglio ancora, significa escludere i sensi; non in senso fisico, ovviamente, che è impossibile, ma in senso di approccio volontario; lasciarsi conquistare dall'evento senza giudizio e senza fretta. La musica non è una "cosa" quindi non la si può afferrare, ma la ragione vuole possederla in qualche modo, e il sistema più banale è quello di definirla, di trovarne aspetti concreti su cui disquisire (dibattere, discutere... come si noterà, tutte parole che, come dialogo, iniziano per "di", cioè "di"videre, vedere da due angolazioni). Tutto questo si basa su un vero ma allo stesso tempo erroneo assunto, cioè la diversità delle persone, o meglio singolarità. E' assolutamente vero che siamo tutti diversi, ed è un principio fondamentale e intoccabile. Allo stesso tempo non dobbiamo sottovalutare il fatto che apparteniamo a una stessa specie. La diversità dell'uomo non consiste nell'essere uno un pesce, uno un uccello, uno un insetto, oppure uno un marziano, uno un vesuviano, ecc. Siamo tutti appartenenti a una stessa specie e quindi siamo dotati tutti di uno stesso "kit" di sopravvivenza in questo mondo fisico in cui ci troviamo a vivere, e questo è lo stesso per tutti, vuoi dal punto di vista, per l'appunto, fisico, che conoscitivo, anche se ognuno si trova a farne un uso diversificato per diverse ragioni, volute in parte dalla conoscenza stessa, in parte dalla fisicità o razionalità, che vuole limitare quegli aspetti irrazionali, astratti trasmessi dal pensiero. Dunque, dicevo, ignoranza da un lato, cioè carente o erronea istruzione generale, requisiti limitati per consentire il risultato unificante. Specifichiamo meglio. L'istruzione nelle scuole è scarsa e fondamentalmente poco significativa; si basa su esecuzioni banali e prive di requisiti pregnanti, su ascolti di valore culturale, quindi poco significativi ai fini dell'appropriazione artistica, nei casi migliori si basa su un'educazione dell'orecchio, che ha qualche buon valore, ma certo marginale. Ma quando mai si parla di percorsi tensivi, di apici, di "valli", di punti massimi, di momenti di tensione e distensione da vivere e qualificare? Alla fine tutto si esaurisce in "capolavori", lavori di buona fattura, lavori modesti, ecc., il tutto deciso non si sa bene da chi. Ma non è che gli esecutori ne sanno tanto di più! Spesso e volentieri tutto si esaurisce in "suonare" le note di un brano il più precisamente possibile, talvolta, o nel suonarle secondo visioni personalistiche, arbitrarie, altre. In queste condizioni l'obiettivo di condivisione, di un vissuto unificante e fuori dal tempo e dello spazio si fa arduo. Quale ruolo gioca in questo la tecnica e l'aspetto più squisitamente e materialmente esecutivo? Suoni non ben intonati, errori di lettura, incertezze, fraseggi stentati o di difficile gestione, voci ingolate, belanti, velate, dizioni pessime, possono inquinare un risultato unitario? Certamente sì! Con tutte le migliori intenzioni e conoscenze teoriche, se mancano e risultano carenti determinati requisiti come minimo distraggono, assumono un rilievo dove il rilievo deve andare altrove. Però non è questione, o solo questione, di professionismo! Si tratta di saper fare anche le giuste scelte. Anche in questo senso l'umiltà, il giusto peso da dare a ciò che si vuole eseguire, è determinante. Un cantante che vuole affrontare prima del tempo brani di notevole impegno, si pone già fuori dalle possibilità di gestione esemplare. Facendo scelte giuste, anche uno studentello può realizzare sogni meravigliosi, cioè, lo ribadisco, non "avere successo", ma consentire a chi ascolta di vivere insieme a lui un attimo di verità.

6 commenti:

  1. Quanti dualismi occorre superare e cioè unificare, per poter fare del vero canto! Il più classico è il dualismo legato alle due meccaniche cordali di petto e falsetto; oppure il dualismo tra color chiaro e color scuro; quello tra suono e pronuncia; quello tra "tecnica" ed espressività; o ancora quello che li riassume tutti, tra il corpo e la mente. La polverina magica che permette di superare queste dicotomie si chiama fiato! E allora si entrerà in una condizione nuova, inimmaginabile, che non è data dalla semplice somma delle sue componenti ma potremmo dire dal loro elevamento a potenza. Una voce che non è più né di petto né di falsetto, ma che galleggia in un terzo registro che del petto ha la solidità, il metallo, la forza, del falsetto l'altezza, la velocità, la soffice leggerezza. Un colore non più piatto, cioè ora schiarito ed ora scurito, ma tridimensionale, luminoso e ombreggiato allo stesso tempo. Un suono semplice, calmo, bello, che della perfetta pronuncia diventa la conseguenza e la premessa, e non più l'alternativa. Una tecnica che in verità non è affatto una "tecnica" ma è una seconda natura frutto di un percorso educativo, e pertanto non si pone in contrasto con le ragioni espressive del canto: è tutt'uno con esse. Un corpo che da ribelle che era, diventa docile strumento a disposizione della mente, a sua volta cosciente e rispettosa dei limiti fisici che non si può pretendere di forzare.

    RispondiElimina
  2. Bravissimo Francesco! Hai sintetizzato perfettamente la poetica che contraddistingue il nostro approccio all'arte musicale. Una importante lezione per tutti coloro che vogliono entrare in un'idea del canto e della musica sgorgante dal profondo di ciascuno di noi.

    RispondiElimina
  3. Salvo6:09 PM

    Aggiungerei, secondo me, un altro aspetto che ha me è servito tantissimo nella crescita musicale, di canto e anche personale e che è indubbiamente conseguenza positiva della umiltà con cui bisogna affrontare quest'arte e non solo: l'autocritica; che non significa sentirsi falliti, ma al contrario capire dove si sbaglia e migliorarsi. Per la mia esperienza, sono pochissimi i cantanti che conosco e che fanno autocritica costruttiva, la maggior parte non l'affronta proprio, ne fugge ed è come in una partita di calcio dove giochi amle e dai colpa all'arbitro o al campo che non è perfetto....

    RispondiElimina
    Risposte
    1. L'autocritica è necessaria ma allo stesso tempo è un tasto delicato e non di rado "dolente"; purtroppo manca proprio l'equilibrio o la capacità di valutazione, per cui è più sovente che ci si esalti e autoincensi o ci si deprima e massacri. Ne parlerò, è un buono spunto. Grazie

      Elimina
  4. La vera autocritica per me si può fare solo a posteriori, quando si guarda al passato con gli occhi dell'esperienza. Nell'hic et nunc è molto difficile auto valutarsi, anzi credo sia più che altro una forma di narcisismo. Spesso non si riescono a capire subito le osservazioni che fa il maestro, ma si arriva a comprenderle solo dopo un po' di tempo (giorni, settimane o anche mesi), quando gli stimoli che il maestro ha dato hanno avuto modo di maturare dentro di noi. Allora si può fare autocritica, nel senso: com'ero cocciuto!

    RispondiElimina
  5. Io parlavo di un livello già avanzato di canto.... certamente all'inizio autovalutarsi è un sogno anche se fatto in buona fede e non sempre in chiave narcisistica. Io agli inizi mi "criticavo" parecchio ma solo perchè sentivo dentro di me che qualcosa non andava... cercavo di costruire in maniera mi permetto di affermare, molto umile nel senso che mi affidavo ai vari insegnanti per "capire", sperimentare, e quasi sempre era un susseguirsi di devi maturare, ancora non puoi capire, devi studiare, e i più incompetenti invece: utilizza il cucchiaino, il turacciolo, fai esercizi tirando i fili in testa, ecc.ecc. L'allievo non sempre è narcisistico e spesso lo è quando segue un "maestro" narcisista!

    RispondiElimina