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lunedì, febbraio 27, 2017

Meglio alleggerire

L'utilizzo della cosiddetta "maschera" da parte di molti insegnanti di canto, intesa non semplicemente come sensazione di un buon canto, piacevole, sonoro, omogeneo, ma come "posizione" di suono interno, variamente posizionato, a seconda delle percezioni, in zona nasale, oculare, frontale, ecc., a cosa può servire, sebbene ingannevolmente? Grazie alle esperienze e ricordi dei primi anni di studio e a successive letture, sono in grado di descrivere il ruolo e gli obiettivi di questa metodica, non privi peraltro di controindicazioni appunto perché ignoranti i fondamenti dell'arte vocale e alla ricerca di "tecniche" che in qualche modo superino l'ostacolo, senza conoscere i risvolti. Questo significa "comprendere": una autentica scuola di canto, che di quest'arte conosca i fondamenti, è in grado di comprendere, cioè di annettere nella prospettiva, ogni metodologia o prassi educativa, e di saperle valutare e coglierne aspetti positivi e negativi e di capire gli scopi che si prefiggono da ogni tipo di consiglio-tecnica, con le ricadute possibili.
Per un gran numero di insegnanti di canto, "mettere il suono in maschera" significa cercare di indirizzare la voce, o meglio il suono vocale, nelle regioni alte del capo, come accennavo dianzi. Qualche decennio fa erano gli stessi foniatri a consigliarlo, e si accodarono molti insegnanti, senza aver capito realmente, ma semplicemente perché sembrava logico che la voce dovesse essere indirizzata verso maggiori spazi che secondo un luogo comune dovrebbe dare maggiore intensità e corpo alla voce. Celletti si innamorò di questa visione che illustrò ovunque nei suoi scritti che ambivano a parlare di canto "professionale" e portò ancora a maggior divulgazione questa tecnica sostanzialmente illusoria. L'allenamento più frequente per migliorare il canto in maschera sarebbe il c.d. "bocca chiusa", ovvero il vocalizzo sulla "M". Per la verità non si capisce cosa ci sia da allenare, visto che non si sviluppa niente, ma lasciamo stare. Il dato su cui poco si riflette, e che solo alcuni ammettono candidamente, senza peraltro desistere, è che il vocalizzare a bocca chiusa porta il suono nel naso, con abbassamento del velo palatino (contrariamente a quanti molti di loro credono). La ricerca di voce a livello nasale-maschera comporta uno spoggio della voce, ovvero un sollevamento complessivo della colonna d'aria dal diaframma. Questo illude perché il minor carico su quel muscolo si manifesta con minor impegno per il cantante, ma ignorando che quel minor impegno si traduce con minor efficienza e rischi.
Dunque, vediamo però tra una verità e una tecnica illusoria dove si cela la difficoltà vera e dove la tecnica aggirante ma non risolutiva. Prendiamo l'emissione della vocale "I". E' una vocale per molti assai difficile, perché l'estremo sollevamento della parte mediana-anteriore della lingua comporta un passaggio limitato del fiato-suono. Questo porta molti allievi a spingere per cercare di dare suono, intensità maggiori, ottenendo sempre difetti anche molto evidenti. Mettendo la I "in maschera", cioè nel naso, il problema potrebbe trovare una simil soluzione, perché si toglie una parte di suono e una parte di spinta. Sarà, ovviamente, una "I" che "puzzerà" fortemente di risonanza nasale, ma il fatto di trovare una posizione che tolga un po' di problemi giustifica tutto. Ammettiamo però che invece la I riesca correttamente, e che quindi la sua emissione avvenga regolarmente con il passaggio tra lingua e palato (che poi, è bene ribadirlo, quello è davvero solo un passaggio, la vera I si formerà fuori, come tutte le altre vocali artisticamente pronunciate). Il problema rinasce quando si vuole emettere altre I su diverse note, oppure passare alla "é" (e "stretta"). Il dato comune di chi canta è che per pronunciare altre vocali (o la stessa su altre note), non trova di meglio che dare accenti e pressioni verso il basso, a cominciare dalla lingua stessa. Quindi "ì - ì - ì ..." si realizzerà con una serie di colpi sulla lingua, che la faranno abbassare, producendo varie tensioni, e distruggendo la pronuncia corretta. Peggio ancora se si fa "ì - é - é ..." dove, già ammesso che si abbia chiaro cosa significa pronunciare "é", si assisterà a una maggiore apertura della bocca, rispetto alla "I", con rigidità mandibolare, e abbassamento della lingua. Accenti, colpi che tolgono ogni possibilità di scorrimento del fiato-suono, che quindi non possono rientrare nell'alveo di un'ottima fonazione. Se il passaggio dalla I alla "é" venisse fatto con un passaggio "in maschera", il risultato sarebbe non eccellente, a causa della nasalizzazione (e conseguentemente spoggio), ma toglierebbe il problema della pressione sulla lingua. Ecco dunque che la "maschera" diventa un palliativo, un escamotage per superare un problema ricorrente. Viceversa la correttezza dell'emissione passa attraverso il "togliere" pressione, spinta, alleggerendo e utilizzando il "sospiro"  (non la H) che favorisce la dinamica respiratoria senza creare quella valvolizzazione della lingua che tenderà a chiudere lo spazio. Se passiamo poi alla A, cruccio di tantissimi cantanti e insegnanti, che in mancanza di fondamenti preferiscono abolirla, dove è necessario aprire almeno un po' la bocca (cioè abbassare la mandibola), eccoci di nuovo a spinte e colpi verso il basso. Ancora una volta i "mascherari" (ma non solo, anche qualche fautore della vocalità naturale) prediligono il non aprire tanto la bocca (magari sorridendo... "internamente") e spostare il fuoco negli spazi superiori, dove ovviamente non si potrà pronunciare perfettamente la A, ma... che importa? (!!). Invece se si lavora "di fino", togliendo pressione e spinte, l'apertura potrà avvenire con dolcezza e quel "cuscinetto" sonoro dinamico che ha prodotto la "ì" e la "é" proseguirà senza cadute, senza interruzioni e sbalzi (il vero LEGATO), e contribuirà a produrre anche le altre vocali (sempre fuori, cancellando la rozza percezione di anteriori e posteriori). Quindi le tecniche che fanno uso di spostamenti risonantici rispetto la prassi naturale (bocca), sono da evitare in quanto possono dare un momentaneo sollievo, rispetto le difficoltà che si incontrano, ma non risolvono affatto alcun problema, sono sistemi illusori e ingannevoli, che alla lunga (se non già alla breve) creeranno problemi di vario ordine.

sabato, febbraio 25, 2017

La lingua musicale

Fin da quando mi interesso di musica ricordo di aver sentito persone pontificare circa la musicalità di questa o quella lingua, individuando in questo la causa o il merito di avere una particolare Storia musicale. Qualcuno disse che siccome l'inglese non è molto musicale, ecco spiegato perché non c'è stata molta produzione operistica, però altri replicano dicendo: quanta musica leggera in inglese, grazie alla musicalità di questa lingua. Tutti sarebbero d'accordo sulla scarsa musicalità del tedesco, salvo che c'è stata una produzione solo seconda all'italiano in campo di musica vocale. Lo spagnolo dovrebbe essere musicale tanto quanto l'italiano, eppure non esiste quasi una Storia di opera lirica... Insomma, per dire che si disquisisce di tutto un po' a vanvera. Quello di cui volevo parlare, in realtà, riguarda la nostra musicalità, quella italiana dell'opera, dell'oratorio, delle romanze, ecc. Sono tutti pienamente concordi (credo) sulla musicalità dell'italiano, eppure nell'insegnamento del canto trovo una carenza disarmante proprio su questo aspetto. Si canta senza rendersi conto che il primo aspetto da curare dovrebbe essere la musicalità della lingua. Prima di cantare una qualunque aria, sarebbe fortemente consigliabile recitare il testo, ma qui forse nasce un problema più grande ancora del saper cantare. Conosciamo tante poesie, ma quanti sanno veramente recitarle? Spesso non si comprende nemmeno il fraseggio, ci si ferma a ogni "a capo", senza rendersi conto se il senso della frase prosegue o meno, e poi si fanno delle cantilene imbarazzanti, oltre al fatto di non sapere assolutamente tenere un tempo adeguato. Colpa, una volta ancora, della scuola, ma qui le responsabilità sono alte, perché i docenti che formazione possono aver avuto sulla recitazione? Si studiano, o meglio, si fanno studiare le poesie, magari a memoria, si fanno le versioni in prosa, si devono trovare tutti i significati, ma quando le si sentono leggere cadono le braccia. Da qui il passo ai brani da cantare, che sono poi sostanzialmente delle poesie. Chi canta raramente si interessa realmente al testo, sia nel suo significato complessivo e dettagliato, sia nel modo di recitarlo. Se lo si recitasse una frase alla volta prima di passare al canto, ci si renderebbe conto delle tantissime cose che si sbagliano. Il grande tenore Ferruccio Tagliavini, nell'86 consegnò un premio a Tiziana Fabbricini e al baritono Dino Patrussi; dopo i complimenti al soprano, si accostò a Dino dicendogli: "stasera mi hai fatto un grande regalo". Aveva cantato "non più andrai" dalle Nozze di Mozart e la scena della morte di Posa dal Don Carlo. Solo qualche tempo dopo seppi che quando qualche giovane andava da lui per avere consigli e pareri, prima di cantare un brano glielo faceva recitare. Naturalmente chi non sapeva di questa particolarità, si trovava in grave imbarazzo, con suo sommo rincrescimento. Patrussi cantava "come un libro stampato", ed ecco, presumibilmente, il perché del "regalo". Si cantano intere opere a memoria, ma se si dovesse recitare solo il testo, penso che un po' tutti i cantanti si troverebbero in difficoltà fin dalle prime battute. Ma questo non è poi così importante; il fatto invece è che, memoria o meno, sapendo o leggendo il testo, lo si sappia DIRE con tutte le caratteristiche di una buona lettura, trasponendo poi tutto ciò nel canto. Sono spesso costretto a riempire gli spartiti di chi canta di segni agogici e dinamici per ricordare che, ad es., non bisogna accentare le finali di frasi e parole (meno quelle che lo prevedono espressamente), ma sono anche testardamente a far notare come le parole molto spesso siano "astratte", cioè le si recitano come se si stesse cantando in una lingua sconosciuta, senza dare autenticità di significato a quanto si intona e si dovrebbe esprimere. Purtroppo nel canto lirico degli ultimi decenni si è data una tale importanza al suono (badate: suono, non voce) da passare come rulli compressori sul vero protagonista del canto, che è il testo, che ha ispirato i musicisti che ne hanno tratto stupende musiche. Il canto è decaduto, e la colpa, in gran parte, sta proprio in questo abbandono del recitar cantando, che dell'Opera sta all'origine. Se non si percorre tutto il tragitto che parte dal testo e passa attraverso il compositore (quindi con una analisi piuttosto attenta del materiale musicale), come si può arrivare a darne un'esecuzione degna di nota? Infine dirò che per il solo fatto di saper ben recitare il testo, si sarà già compiuto un enorme passo verso una vocalità corretta volendo rendere quel testo con la stessa autenticità.

lunedì, febbraio 20, 2017

Fare musica

Cosa significa davvero "fare musica"? Il musicista suona uno strumento, mettiamo pure bene, e crede di far musica, cioè produce "suoni", solitamente in base a uno scritto prodotto da un compositore (ma può essere anche diverso, per ora lasciamo stare). Ciò che per molti significa far musica consiste nel cercare di suonare il meglio possibile quelle note, cioè in modo "pulito", oltre che esatto. Dare significato alle molte indicazioni dell'autore... come? Il brano inizia "p" (piano), in tempo "andante". Cosa significa? Oppure non c'è scritto niente. Come ORIENTARSI? Allora uno spartito non è un progetto di una casa o di un oggetto, dove c'è scritto il materiale, dove ci sono misure esattissime, varie viste, in modo che, con gli strumenti idonei, tutto venga realizzato in QUEL modo. Si pensa generalmente che una partitura sia la stessa cosa, cioè si debba realizzare ogni indicazione come se fosse univoca. Ma siccome ci si rende facilmente conto che così non può essere, perché se un oggetto deve essere lungo 25 cm, non è la stessa cosa che indicare il tempo di esecuzione di un brano, anche se qualche autore un po' ingenuamente ha pensato anche di indicare la durata! Le stesse note, rispetto a un'indicazione tecnico-meccanica, sono oggetti alquanto generici e sostanzialmente errati, se riteniamo davvero che dovrebbero avere identica durata; può essere vero in teoria, ma non quando andiamo a eseguire un brano che auspichiamo diventi musica, dove il SIGNIFICATO fraseologico delle singole cellule componenti difficilmente può essere realmente identico, ma assume una durata, oltre che un accento, una dinamica, in relazione al tutto di cui fa parte e che deve assumere un RUOLO specifico all'interno di quel contesto, non estraibile dallo stesso. Ordunque, quando realizziamo un insieme di suoni con cui vorremmo far musica, dobbiamo considerare che questi suoni, esterni a noi, non possono mai diventare musica, essendo mere realizzazioni fisiche, vibrazioni regolari di corpi elastici. Quando queste vibrazioni entrano nell'uomo, principalmente mediante l'udito, possiamo riconoscerne una natura diversa da quella di semplici suoni, cogliendone significati reconditi, cioè che non siamo in grado di tradurre verbalmente, ma che ci comunicano qualcosa di profondo. Questo però lo potremmo definire un "tentativo"; cioè la nostra coscienza cerca di carpire da quell'insieme il significato complessivo, ma può riuscirci solo se il "cerchio si chiude", cioè se il brano è sintetizzabile in un UNO (cioè se riusciamo a coglierne l'intero), ovvero ancora se le singole parti di cui è composto, sono a loro volta cellule chiuse in sé relative al tutto, cioè all'uno complessivo. Il musicista esecutore, quindi, deve saper reagire al suono che produce potendolo far diventare musica, cioè una volta eseguito il primo suono, dovrebbe sapere come eseguire il secondo affinché possa relazionarsi col primo al fine di costituire un'unità; dopodiché questa dovrà relazionarsi col terzo suono, che entrerà a far parte dell'unità... e così via, fin quando il tragitto giungerà al suo punto massimo per poi tornare a zero, cioè chiudere il cerchio e diventare un'unità complessiva. Ciò che muove la coscienza in questo tragitto è la tensione, per cui occorre seguire il tragitto tensivo che si dipana man mano, grazie ai contrasti messi in campo dal compositore, per realizzare ciò che esso non ha inventato, ma ha scoperto a sua volta. Se non si sviluppa la "bussola" per seguire questo tragitto, non si hanno elementi per sapere come vada realmente eseguito il brano, e a questo punto si "interpreta", cioè si eseguono i vari elementi non graduabili meccanicamente (ma quasi nessuno lo è) in base a teorie più o meno scientifiche o più o meno assennate, ma in ogni modo molto soggettive e dunque non UNI-VERSALI, ma poli-versali. Si deve considerare che un brano musicale non è un "linea" con un inizio e una fine posti linearmente, quindi agli estremi, ovvero nei punti più lontani tra loro, ma su una linea curva, dove l'optimum è che il punto finale coincide con l'inizio. Affinché ciò sia possibile occorre che gli elementi di cui è costituito il brano non si allontanino continuamente, ma mantengano costantemente una relazione con quanto è avvenuto, diventando premessa per ciò che avverrà, che già possiamo prevedere, non nel contenuto ma nello sviluppo. Quando leggiamo un buon giallo sappiamo che ci sarà il momento in cui verrà scoperto il colpevole, questo è un dato scontato, ciò che ci appassiona è scoprire chi è e le varie trame. Il compositore, consapevolmente o meno, dovrà portare al parossismo l'elaborazione tematica mediante tutti gli strumenti a sua disposizione. Se questo sviluppo sarà mal condotto, il brano non "decollerà", non porterà soddisfazione e facilmente cadrà nell'oblio. Spesso ci si meraviglia che un brano con un bellissimo tema, ben strumentato, molto fascinoso e coinvolgente, venga dimenticato. Non basta il "bel tema", anzi, spesso diventa una "zavorra"; Mozart e Beethoven hanno composto i loro più grandi capolavori con temi di una semplicità che sfiora la banalità. Ma come hanno saputo elaborare quelle poche note, come sanno prenderci per mano e portarci nell'universo. Ma se chi esegue non sa riconoscere il percorso, ecco che dopo un po' qualcosa comincerà a sfuggirci, non seguiamo più, pensiamo ad altro, ci distraiamo, per poi tornare e poi ri-distrarci, sentire "qualcosa" e non tutto. In quella condizione la nostra coscienza non chiude cerchi, non unifica, non coglie il senso e i nessi. Sarà un insieme di pezzi, gradevole, ma non ci avrà comunicato il suo messaggio. Naturalmente anche il canto non può essere insegnato come fosse un progetto tecnico, cioè pensando di applicare formule e osservazioni scientifiche. Alla scienza sfugge l'extrasensorialità. Nelle nature umane che si trovano a utilizzare risorse di "doppia appartenenza" (cioè suono che può diventare musica, o voce che può diventare canto), la scienza si trova di fronte a un enigma, che cerca di spiegare con le conoscenze di cui dispone, che sono di natura fisica e fisiologica, ma ignora o non comprende quelle artistico-spirituali. Una speculazione fisico-razionale tenterà sempre di spiegare con questi strumenti il fenomeno vocale, per cui non penso che anche i foniatri che studiano canto riescano a entrare nel giusto alveo di riconoscimento della natura vocale, ma tenteranno sempre di conciliare canto e foniatria (e lo posso comprendere), rimanendo estranei all'unica natura dell'arte, che è gnoseologica, spirituale e trascendente (in senso fenomenologico, il m° Antonietti direbbe sublimante) la fisicità. Il vero canto può portare alla vera musica.

sabato, febbraio 11, 2017

Creare l'esecuzione

Gli esercizi perfetti per arrivare al canto esemplare sono di una semplicità assoluta, ma anche di una difficoltà inimmaginabile per la concentrazione che richiedono. Questo poi si accentua ancora quando dall'esercizio si passa al canto. Dire qualche parola con il giusto significato già richiede impegno; questo si amplifica quando le stesse parole le dico su una o più note, senza perdere nulla della sincerità, della nitidezza del parlato. Salire in questo modo di qualche semitono darà la misura di quanto sia faticoso per la mente. "Guardare" la propria voce e sentirla, riconoscere che ogni sillaba è la tessera che compone QUELLA parola e QUELLA frase, con il giusto rilievo, il giusto peso di accentuazione. La parola, la frase è la tessera di un brano. La disposizione indispensabile per cantare artisticamente è quella di DIMENTICARE che quel brano già esiste e qualcuno l'ha già cantato in un certo modo. La musica nasce ogni volta, e il più grande tradimento che possiamo fare all'autore è eseguirlo "tradizionalmente" seguendo le orme di questo o quello.
Conosco il Requiem di G. Verdi da quanto ero adolescente, ma me ne innamorai a fondo quando ebbi l'opportunità di cantarlo col coro del Teatro Regio di Torino a Nizza M.ma. Ebbene, c'erano due o tre punti che non mi soddisfacevano: il Te decet himnus, all'inizio, e il Sanctus. Li trovavo fracassoni, confusi, poco spirituali. Ne ho sentite decine di edizioni con i più grandi direttori e solisti. Un bel giorno sentii il Sanctus diretto da Celibidache, quando ancora sapevo poco o nulla di lui. Rimasi a bocca aperta e mi venne proprio da dire: "caspita, ma allora non è Verdi che l'ha scritto male, sono gli esecutori che non lo sanno affrontare!". Quindi cercai il disco e lo ascoltai per intero, e ancor più stupefatto rimasi all'ascolto del "te decet hymnus". Ne feci una raccolta di decine di versioni, da Giulini a Karajan, a Toscanini, a Muti, Abbado, Bernstein, ecc. ecc. Ebbene, messe una vicina all'alta risultavano pressochè tutte identiche! Cori di avvinazzati (Toscanini in testa). E quante volte ho letto e sentito costoro affermare che rileggevano e ristudiavano le partiture come fossero nuove. E invece non è così, nessuno di loro ha saputo veramente azzerare la memoria e rimettersi a studiare il brano come non fosse mai esistito ed entrare in quelle parole come se fosse Verdi e ricreare quella musica come una cosa loro, trovare la freschezza, la verità che illumina ogni frase verbale e musicale. In Celibidache ho potuto apprezzare proprio la "verginità" con cui affronta, legge e lavora con l'orchestra, il coro e i solisti al fine di raggiungere il più alto livello di verità possibile, come se tutti insieme stessero creando in quel momento quel brano.
Quanti allievi e cantanti eseguono, per es. "vaga luna" di Bellini, ma quanti la cantano dando il senso giusto ad ogni sillaba (come fosse la più importante), ad ogni parola (come fosse la più importante), ogni frase ... per far sì che il brano diventi, come è, un piccolo capolavoro dove nulla può essere meno importante, ogni cosa deve trovare la propria luce, il proprio colore, la propria magia, la propria corrispondenza nelle corde (cuore) di ciascuno di noi. Son poche note, son poche parole semplici, ma sono anche un cerchio chiuso, perché chi l'ha composto sapeva "chiudere i cerchi" e chi canta e suona deve aver consapevolezza di questo. Cantare andando dietro alle note, buttare le vocali, le parole senza coglierne fino in fondo il senso e le relazioni, significa buttarlo via e buttarsi via. Non comprendere il giusto tempo complessivo e dei singoli elementi vuol dire ucciderlo. Idem per le dinamiche. Nel momento dell'esecuzione conta solo questo intreccio di relazioni che si devono riconoscere e trasmettere, da spirito a spirito. Mal sopporto le minimizzazioni tipo "Ah, quel brano è semplice". Non esistono brani semplici; esistono brani meno impegnativi dal punto di vista vocale o musicale, ma spesso, come sappiamo, la semplicità richiede molto più impegno e concentrazione di brani complessi  e molto elaborati. Questo approccio è l'unico che porta all'arte, e vale per l'esercizietto come l'arietta e la grand'aria e un intero oratorio o opera. A lezione mi soffermo per molto tempo su esercizi di parlato dove deve emergere non semplicemente la buona pronuncia, la comprensione, ma la veicolazione di quanto detto. Se all'interno di una frase, per quanto breve e "anonima", non si raggiunge quel SENSO (direzione), dato dalla UNICA possibilità di giustapposizione dei vari elementi collegati relazionalmente tra loro, non posso permettere di proseguire. Diventa un'esecuzione priva, per l'appunto, di senso, quindi sostanzialmente fine a sé stessa, inutile, meccanica, priva di qualunque spirito vitale. Si tratta preliminarmente di comprendere a fondo come e quanto infondere in ciascun elemento verbale e musicale al fine di realizzare un percorso che ha un inizio e una fine, che devo riconoscere, non inventare, e entro cui devo instillare quel minimo di energia affinché possa emergere e coinvolgere tutti. Dall'inizio alla fine.