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lunedì, febbraio 25, 2019

L'eredità

Chi insegna canto in genere insegna ciò che ha ereditato dal proprio o dai propri insegnanti. In alcuni casi gli allievi hanno avuto la sensazione, diciamo hanno capito, che l'insegnante o gli insegnanti non avevano capito granché e quindi si sono messi a rielaborare in proprio gli insegnamenti. In diversi altri casi hanno riproposto teorie lette o sentite da altri insegnanti. Quindi: insegno in questo modo perché è la strada segnata da tizio o da caio; l'ha detto questo, tizio faceva così, ecc. ecc. ecc. Cosa manca in tutto questo? il pensiero. Anche nella mia scuola talvolta viene l'osservazione che una certa cosa il mio maestro non l'aveva mai detta o mai fatta. Ma guarda caso il trattato del m° Antonietti inizia con "un metodo (...) d'insegnamento del canto non esiste..."; cosa significa? che non era importante lo specifico esercizio che lui faceva fare, ma il pensiero che lo produceva, ovvero il perché si fa quel tipo di esercizio e perché non un altro, in quali tempi, in quali settori, ecc. Ciò che il m° ha prodotto in me e penso e spero in altri è stato comprendere le radici profonde in cui affonda e prende linfa il grande canto artistico, quindi capire il perché di tutto ciò che sta alla voce e alla sua evoluzione. Se io so perché si genera un determinato difetto o perché è difficoltoso e faticoso per alcuni generare determinate vocali, determinate note, determinati colori, ecc., so anche quale percorso fare per poterlo affrontare e superare. Spesso faccio fare ai miei allievi esercizi uguali o simili a quelli che faceva il m° per comodità, ma faccio sempre capire che esercizi ugualmente efficaci si possono inventare sul momento, anche utilizzando pezzi dei brani che stanno studiando. Il nostro obiettivo è sempre uno: far sì che il respiro atto al canto si sviluppi, o meglio si evolva. Quindi il superamento delle difficoltà e dei difetti passa sempre per esercizi che, tramite l'uso della voce, possano generare un'esigenza respiratoria più avanzata. Non c'è niente da ricordare, niente da "imparare", è questione di perseveranza, di umiltà, di attenzione, concentrazione, pazienza (infinita!), riflessione. Anche l'idea di "pensiero" è spesso da rivedere. Dico spesso agli allievi: non pensare! Sembra una contraddizione, ma il fatto è che l'allievo che si accinge a fare un esercizio il più delle volte è in realtà distratto da pensieri inutili e dannosi. "dove devo mettere il suono", "come devo attaccare", ecc. Questi pensieri non sono producenti, perché tolgono la fluidità e un certo grado di spontaneità; il pensiero da sviluppare è di natura opposta, ovvero, come fare a far sì che il suono si liberi e si libri nello spazio, evitando proprio tutte quelle trappole, quegli ostacoli che oltre a innalzarsi nel momento in cui cerchiamo di cantare oltre una normale semplicità soggettiva, noi stessi tendiamo a generare allontanandoci dalla naturalezza del parlato. Naturalezza che non ci deve, a sua volta, ingannare, perché riconosciuta dall'istinto di conservazione della specie, mentre il canto artistico non lo può essere, in quanto impegnante gli apparati ben oltre le esigenze di vita e quindi, riservato a una certa minoranza di persone che avvertono un'esigenza interiore spirituale di elevazione conoscitiva, che può proiettare il pensiero oltre le normali esigenze, e di conseguenza può supportare un percorso di apprendimento dell'arte stessa. Quindi non si tratta di ereditare dei metodi, delle frasi, dei concetti dai maestri, ma solo i pensieri che stanno dietro a un insegnamento, che ne costituiscono la base. Avendo compreso con assoluta chiarezza cosa sta alla base dell'insegnamento di un'arte, ciò che sta sopra di essa ognuno se lo può creare individualmente senza problemi, sarà sempre efficace e sicuro. Gli insegnamenti copiati, replicati a pappagallo, per quanto derivati anche da grandi insegnanti, non produrranno granché di buono, perché non saranno frutto di alcun pensiero cosciente. Nell'atto artistico, compreso quello docente, c'è impresso il sigillo conoscitivo di chi lo compie; se il docente non ha compreso il motivo che sta alla base del suo atto, non imprime niente, è un gesto vuoto, senza energia e senza sostanza. Forse in questo caso può valere molto l'esempio del direttore d'orchestra. Il m° Celibidache, caso forse unico nella storia di autentico insegnante di direzione d'orchestra artistica, arriva a far capire il gesto-musica; quando si comprende questo, si prende coscienza che la stragrande maggioranza dei direttori d'orchestra gesticola senza criterio, e questi gesti sono assolutamente vuoti, non comunicano niente e non producono realmente niente; non c'è relazione tra direttore e orchestra, non c'è alcuna "unità" di intenti e di risultati. Allora anche il maestro di canto quando propone esercizi, non lo può e non lo deve fare come una consuetudine, come una prassi, una conformazione. Ci deve essere assoluta unità di intenti; il m° è nell'allievo, è la sua coscienza, e percepisce in ogni momento ciò che necessita, dove può andare, quanto può progredire e quanta resistenza oppone. Purtroppo la materia viva reagisce,  soprattutto quando la materia è così lontana dai parametri di vita ordinaria. Diventa quindi necessità di invenzione di strategie per aggirare gli ostacoli, per ingannare l'istinto e far scorgere alla mente che c'è un oltre... fin quando l'oltre non ci sarà più!