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domenica, dicembre 13, 2020

La repubblica dei bei suoni

 Ormai da tanto tempo, sicuramente almeno dal dopoguerra ma con molti esempi anche precedenti, è diventata popolare la "bella voce", laddove il requisito viene separato e valorizzato dal resto del canto.

Soprattutto in campo femminile, dove la pronuncia può costare maggiormente in termini di studio, "il suono", quindi non "la voce", viene sempre più identificato come l'oggetto primario di una cantante e quindi posto come requisito indispensabile e venerato. Non per nulla una cantante quasi del tutto priva di dizione quale fu Joan Sutherland è stata additata da schiere di fan e di critici come una dei più grandi soprani del XX sec. Lo stesso può dirsi dallo sciocco confronto tra la Tebaldi e la Callas, dove senz'altro la seconda aveva voce meno bella della prima (ma la Tebaldi valeva molto più della Sutherland). Con questo non voglio togliere dei meriti che hanno avuto tutte queste cantanti, ma che non possiamo indicare come esemplari, perché carenti di uno dei requisiti fondamentali, che è appunto la parola, la pronuncia. L'involuzione musicale e vocale in cui ci troviamo sicuramente da almeno 20-30 anni, non fa che amplificare questo fenomeno. Oggi trovare soprattutto cantanti (nella fattispecie donne) con la voce avanti, fuori, e perfettamente comprensibile è cosa rara, e per lo più dovuto a fattori naturali, perché dubito che vi siano altre scuole oltre la nostra che curino la dizione non solo quale requisito necessario da un punto di vista espressivo, ma quale attributo fondamentale per l'educazione vocale in toto. Bellissime donne con la mandibola inchiodata, che cantano davanti a microfoni aperti, con acuti forse belli, ma totalmente vuoti perché non sorretti da una chiara e fondamentale vocale. Vibrazioni artificiose e rumorose che servono a ingannare le orecchie ormai avvelenate e atrofizzate dei sedicenti appassionati d'opera sono ormai il piatto quotidiano degli spettacoli lirici; più in alto si va e più domina il puro estetismo dello spettacolo fine a sé stesso, senza una reale base artistica che ci faccia vivere, sognare, coinvolgere in un flusso musicale autentico, continuo, drammaturgico, poetico, vero, sincero e realmente bello. Nella voce umana non ci può essere bellezza senza significato (quindi resta solo il significante). In un suono strumentale per certi versi è ancora più difficile far scaturire la vera bellezza musicale, perché oltre a ciò che può donare uno strumento costruito da mani geniali ed espertissime, riuscire a farlo "parlare" è cosa miracolosa; l'uomo ha a disposizione l'elemento principe per raggiungere lo scopo, anche se a livello base è scadente, cioè la parola (scadente da un punto di vista artistico, ma perfetto per il suo scopo, cioè la comunicazione interpersonale). E' estremamente faticoso, impegnativo, difficile, elevare questo elemento ad arte, già nell'eloquio verbale puro, ma ancor più (molto di più) in quello musicale. Ma è un dato indispensabile e ineliminabile. Quanto sarebbe bello risentire nei teatri e, per quel che può valere, tramite i mezzi di riproduzione, recitar cantando! Quando una voce parla e recita musicalmente con verità, ogni altra componente diventa secondaria, non ci accorgiamo neanche più se una voce è "soltanto" bella, ma la bellezza diventa requisito insito nel tutto. Quanti, ascoltando Schipa, come prima reazione notano una voce non bella, sono preistorici, totalmente ignoranti in materia, devono fare tanta strada per poter parlare di canto artistico. Lo stesso, pur con notevoli distinguo, vale per altre voci, come quella della Callas e, a un livello ancora un po' inferiore, Pertile. 

Comunque, mi rendo conto di scrivere e parlare al deserto. Seguire questa strada richiede un coraggio non solo estremo, ma forse anche inutile, perché chi giudica, e quindi chi apre la strada ai cantanti (e si basa, poi, in gran parte anche su un giudizio popolare) è indirizzato a selezionare, privilegiare e premiare le voci vuote e apparenti. La competenza non esiste più, contano più le opinioni di chiunque che le articolate esposizioni di un pensiero fondato, per cui io, come il mio maestro e alcune altre scuole d'arte, come quella fenomenologica perseguita dal m° Celibidache, sentiamo il dovere di scrivere, insegnare, parlare, perché ci obbliga la coscienza, ma proprio per la differenza sempre più netta che le separa dall'azione comune imperante, restano inascoltate e financo derise e osteggiate. 

Toscanini diceva: "nella vita democrazia, nella musica aristocrazia". Beh, non posso dargli torto! Oggi chiunque, essendosi moltiplicati all'infinito i mezzi di propalazione dei messaggi, può parlare ed esprimere opinioni e giudizi su qualunque cosa; ma possiamo credere che una base, sicuramente molto numerosa, senza requisiti culturali, educativi, espressivi, tecnici, pratici, possa determinare la storia e l'attività concreta di un fenomeno artistico? Ma bisogna anche tener conto della potenza e preminenza dei poteri finanziari, che hanno distrutto la realtà artistica, soppiantata dallo spettacolo e dall'apparenza. Che bello lo spettacolo della Scala. Ma quel "bello" è conforme ai valori? Vedendo alcuni vecchi filmati in bianco e nero di spettacoli, non possiamo non ridere di alcuni allestimenti scenici, che "poveri" è dir poco, ma che ci rapiscono per quanto esprimono alcuni cantanti veri, che riescono a far scaturire i significati di quanto hanno prodotto librettisti e compositori. Oggi il vero non riusciamo nemmeno a scorgerlo, perlomeno da quanto ci viene proposto platealmente. Forse qua e là potremmo intravvederlo in qualche situazione locale minore. Chissà che da lì non possa risorgere qualcosa di valido, quando ci si renderà conto di vivere come in una "cinecittà", dove le case sono solo facciate di cartone. 

mercoledì, dicembre 02, 2020

Il falsetto "totale"

 Il punto saliente di qualunque discorso che riguardi una voce completa e perfettamente educata, sta nella sua omogeneità. La semplice esistenza di un passaggio (o più d'uno, come alcuni sostengono e richiedono) già rappresenta la negazione di un simile principio. Molti sanno e osservano che se si prende una nota acuta e si scende, difficilmente si avvertirà un passaggio, a meno che, specie nelle donne, non si scenda nelle note gravi, dove è di nuovo possibile che si senta uno scalino, a meno che non si lasci "morire" la voce. Senza stare a girarci tanto attorno, diciamo subito che il tutto è riconducibile all'ignoranza diffusa sulla questione dei cosiddetti registri e in particolare sul "falsetto". Già il nome è oggetto di molte discussioni e polemiche! Nella donna nessuno parla di falsetto ma di "misto"; non è una questione terminologica, ma di comprensione. Per molti esiste un registro "di testa" nelle note acute, un registro medio E un registro misto, cioè un mescolamento tra centro e acuto. Assolutamente così non è! I registri sono due, certo, ma quello centrale, che anticamente fu chiamato falsetto, domina tutta la gamma vocale, anche se si presenta debolissimo nel settore centro-grave, e fu definito "testa" solo a partire dal re4 quando perde ogni relazione con la vibrazione di petto, però occorre aver ben presente CHE E' SEMPRE LA CORDA DI FALSETTO. Ma nell'uomo è la stessa cosa, solo che non raggiunge quasi mai la parte di testa, perché solo alcuni contraltini riescono a cantare abilmente dal re4 in su (e comunque occasionalmente). Quindi tutta la gamma vocale maschile è cantabile nei due registri, ovviamente molto debolmente nel centro grave per il falsetto, e più appropriatamente nella zona centro acuta dove invece il petto da solo è gridato. A questo punto entra in gioco la necessità artistica di omogeneizzare il tutto, il che non avviene e non può avvenire con un "passaggio di registro"! Questa, che è a tutti gli effetti, una manovra, è una sorta di ponte o scala. Se io ho due lotti di terreno a diverse altezze, ho due possibilità di superare questo dislivello: erigere un artificio o livellare. L'artificio forse si farà prima a costruirlo, ma rimarrà sempre qualcosa di innaturale e ostacolante, che potrà anche creare problemi, e soprattutto non potrà MAI assicurare omogeneità. Se io livello, cioè porto materiale dove non c'è e lo tolgo dove ce n'è troppo, alla fine avrò una soluzione perfetta, dove tutto è coerente e costante, dove non ci sono cambi di colore, manipolazioni foniche e soprattutto fonetiche ai danni della pronuncia. Quindi occorre ricordarsi che laddove si usa più frequentemente il petto, c'è anche il falsetto, che per scarso uso, oltre che per le proprietà insite nelle corde vocali, è più debole, e laddove si usa, o è più corretto usare più regolarmente il falsetto, c'è anche il petto, e queste due modalità non devono essere pensate - e utilizzate - separatamente, ma coinvolgendoli sempre entrambi. Cosa significa questo? Che IL FIATO, che è abituato e allenato (ovvero è più comodo) ad alimentare in questo modo la voce (cioè voce parlata e voce gridata), può invece sostenere con continuità e uguaglianza l'intera gamma; sarà un lavoro assai più impegnativo, che richiede una rimodulazione del fiato in chiave fonica, anziché respiratoria (senza, ovviamente, neanche tentare di compromettere questa funzione vitale). Pertanto, allenando il falsetto in zona centrale (come lo stesso Garcia consigliava, mentre non parla assolutamente di passaggi oscurati) e attenuando il petto, e estendendo quest'ultimo in zona acuta, noi indurremo una nuova esigenza al fiato che lentamente si adatterà fino a ottenere la piena e meravigliosa omogeneità vocale (con la possibilità sempre di utilizzare i colori a propria volontà e in ogni zona) senza alcuna necessità di ricorrere a ponti, scale, passaggi e manovre meccaniche di alcun tipo. Ma in fondo queste scoperte non è che richiedano dei geni per essere riportate alla luce, basterebbe il buon senso! Ma tutte le scuole preferiscono attaccarsi a questo o quel "metodo" invece di riflettere, intuire, osservare e non cibarsi sempre della pappa pronta, oltretutto avariata!.  

La "non" altezza

 Una delle cose più interessanti di una raggiunta perfezione dell'emissione, sta nella totale assenza di percezione dell'altezza, intesa in vari sensi, ma in particolare che, salendo, il suono (non) si alzi. E' persino ovvio che dal momento che l'emissione è esterna, essa si forma frontalmente all'area della bocca, qualunque siano le note da emettere, vuoi grave, vuoi media, vuoi acuta. Cambiano appena alcuni parametri, ma l'attacco o il passaggio da una nota all'altra avviene rimanendo alla stessa altezza, cioè davanti, fuori. L'istinto per molto tempo stimolerà a alzare internamente, più o meno indietro, ma metterà sempre in difficoltà a mantenere una linea o un piano orizzontale, questo anche perché c'è una motivazione fisica che spinge in quella direzione, a cui però noi non dobbiamo sottometterci, non perché vogliamo contraddire le leggi della fisica, ma perché esse entrano in gioco solo in determinate situazioni (nella fattispecie quando si richiedono notevole intensità e tessiture in zone impegnative) e sono controllabili, cioè riconducibili alla normalità del parlato (quando esse non sentono l'esigenza di entrare in azione). 

giovedì, novembre 26, 2020

Spingere da sotto o spoggiare?

 Spingere la voce, anche da sotto, è spesso una istintiva difesa contro il rischio di spoggiare la voce (che sembrerebbe un controsenso, visto che spingere in su è proprio l'azione di sollevamento del fiato...). Giacché i moderni insegnanti di canto sono ossessionati dall'appoggio della voce, molti anche dal possibile sollevamento della laringe (scioccamente ritenuta la causa dello spoggio), nel richiamare varie tecniche inducono gli allievi a bloccare quest'ultima, e comunque a premere verso il basso, che per conseguenza necessita di spinta verso l'alto per liberarsi (quindi due forze contrapposte). In questo pandemonio assume un ruolo importante la tecnica respiratoria utilizzata; gonfiando la pancia, come vogliono quelli della respirazione diaframmatica (o, peggio, addominale-ventrale), inizia una battaglia concorrenziale tra sotto e sopra, che porta fatalmente a premere verso l'alto, in quanto se si spingesse solo verso il basso la voce non uscirebbe!. Ecco perché per parecchio tempo è necessario liberare il corpo da queste guerriglie, perché il risultato sarà premere sul fiato dal basso per spingerlo verso l'alto. Ed ecco che si è creato un danno, perché la pressione agirà in primo luogo sulla laringe, che sarà portata a sollevarsi anche quando non dovrebbe, e la voce risulterà comunque compressa, priva di libertà e delle caratteristiche di ricchezza interiore. Il fiato non deve mai essere premuto, deve uscire spontaneamente, almeno fino a un certo punto, cioè fin quando agirà la differenza di pressione tra dentro e fuori, dopodiché continuerà ad agire con la stessa costanza la componente polmonare. Tutto il gioco vocale deve essere gestito dall'esterno della bocca, togliendo ogni azione volontaria dagli organi coinvolti. 

Però alcuni pensano che se non si preme, non si gonfia, ecc. ecc., la voce non è appoggiata, anzi, è proprio spoggiata. In linea di massima la maggior parte di essi confondono l'appoggio con l'ingolamento. Con le spinte e controspinte di cui sopra, la gola tende a chiudersi (anche se gli insegnanti continuano a dire - inutilmente - "apri la gola") e quindi il suono sfregando sulle pareti rumoreggerà, e questo è appunto un brutto ingolamento. In un certo senso noi dobbiamo proprio pensare, rispetto a quelle azioni, a spoggiare, cioè a lasciare che il fiato scorra, a non pensare e non favorire alcuna pressione o blocco vuoi a livello addominale, che, ancor meno, glottico. Si avrà una meravigliosa sensazione di rilassamento e libertà, che alcuni paurosamente riterranno mancanza di appoggio. In realtà in questo modo si favorirà proprio l'azione contraria al sollevamento della base della voce, cioè quella pressione che indurrà il diaframma, per conto dell'istinto, a sollevarsi e a creare le carenze e i difetti. Non che le cose siano così facili, perché l'istinto sentirà ugualmente una minaccia dalle varie azioni che si intraprendono per cantare con determinate caratteristiche teatrali, però si punta nella direzione di superare le reazioni e non si metteranno in moto azioni bellicose tra muscoli e parti interne del corpo, ma si favorirà invece la scorrevolezza, la totale libertà, il pieno controllo espressivo e musicale a livello mentale, scaricando da muscoli  e cartilagini ogni coinvolgimento. Solo in questo modo le pareti oro-faringee potranno assumere plasticamente le giuste posizioni e dimensioni foniche rapportate, e tutto potrà vibrare sinergicamente dando alla voce le caratteristiche più elevate che sia concepibile. 

sabato, novembre 21, 2020

Cosa significa "parlare"

 Questa scuola ha un principio fondamentale che si basa sulla parola. Non solo essa è importante ai fini di esplicitare un testo poetico, drammaturgico, che come è servito al compositore per suscitare una musica, non può disgiungersi da essa e deve essere valorizzato in ogni sua minima cellula, ma è il motore e lo stimolo fondamentale dell'educazione vocale. Essa è l'elemento che permette, se correttamente esercitata, di amplificare e omogeneizzare tutta la gamma vocale di un soggetto al massimo delle possibilità. Questo era compreso anticamente, ma completamente abbandonato e anzi vituperato negli ultimi decenni a favore di un arido suono, privo di reali possibilità artistiche. 

Detto ciò, mi rendo sempre più conto che non si ha realmente l'idea di cosa voglia dire "parlare". Ci si riferisce al parlato spontaneo, ed è giusto dal punto di vista dell'obiettivo, ma in mezzo ci sta uno sviluppo che richiede uno studio, un impegno che non ci si immagina! Diciamo pure, per capirci, che occorre fare un lavoro pressoché identico a quello di un attore, e infatti anticamente il passaggio al canto operistico avveniva da parte di attori, e ancora nei primi decenni dell'800 i cantanti erano spesso chiamati "attori". 

Dunque, per chi può, consiglio senz'altro di frequentare corsi di dizione e recitazione. In ogni modo in una scuola di canto come si deve è bene si sappia che devono essere svolti anche esercizi analoghi.

Quindi, in cosa consiste questo lavoro? 1) individuare gli accenti tonici delle parole e esercitare la corretta dizione (accenti acuti o gravi, s e z sonore o mute...); 2) individuare gli accenti fondamentali delle frasi; 3) individuare i registri espressivi (colloquiale, drammatico, allegro, burlesco, ironico, ...) e saperli applicare praticamente; 4) saper utilizzare le dinamiche e i ritmi, i tempi, le indicazioni di punteggiatura (esclamazioni, domande, sospensioni). 

Se manca in modo rilevante questa capacità, anche il canto ne risentirà totalmente. Con un buon impegno, tra i sei mesi e un anno si può raggiungere un buon controllo del parlato espressivo, che si potrà applicare costruttivamente al canto. 

venerdì, novembre 20, 2020

Nascondere, più che coprire

 Da ormai molto tempo è in uso il termine "coprire" per intendere il passaggio di registro. Da un altro punto di vista, potremmo intendere proprio coprire, celare, nascondere un'incapacità di raggiungere un importante obiettivo che potremmo semplicemente definire omogeneità. Infatti da ormai diversi decenni è rarissimo ascoltare cantanti che mostrino le stesse caratteristiche vocali nelle tre sezioni grave-centro-acuto. Si danno tante spiegazioni, ma mancherebbe quella più importante: è possibile avere una reale omogeneità, e quindi poter esercitare la stessa comprensibilità del testo e lo stesso colore su tutta la gamma? se no perché e se sì, perché la maggior parte dei cantanti non raggiunge questo risultato?

Per intanto abbiamo bisogno di tornare a specificare un aspetto tipicamente vocale a differenza di quello strumentale: gli strumenti emettono unicamente suoni, la voce ha due "stadi" di emissione, il suono e la voce vera e propria; come ho già scritto frequentemente, il suono è il solo prodotto della vibrazione laringea, e costituisce il "serbatoio" di cui si alimenta, esternamente, la voce. 

Bisogna poi anche intendersi su un criterio di osservazione del suono in relazione all'omogeneità. In realtà nessun suono di nessuno strumento è realmente omogeneo, in quanto è fatale, per ragioni acustiche, che i suoni schiariscano andando verso l'acuto e scuriscano andando verso il grave. Questo dato però può avere delle differenze in base alla caratteristiche strumentali. Ad esempio una stessa nota, cioè un suono con il medesimo numero di vibrazioni, emesso da un violino o una chitarra, ecc., avrà un colore diverso se eseguito su due o tre corde diverse, in quanto il diametro delle corde cambia. Lo stesso accade se quella stessa nota viene emessa da un violino, da una viola o un violoncello, sia per le dimensioni delle corde che per le casse armoniche. Quindi è assai difficile poter assegnare un colore assoluto a una nota o gruppo di note; possiamo solo dire che esiste una progressività per cui salendo il colore schiarisce e viceversa. E' però possibile mitigare questa caratteristica facendo un percorso che potremmo definire di controsenso. Come è logico dalla fisica, per poter andare verso le note acute, le corde degli strumenti, e quindi anche della voce umana, si devono assottigliare, e viceversa. Se volessimo cercare a tutti i costi di mantenere un colore più omogeneo, volendo si potrebbe passare da una corda più sottile a una più spessa. Come mai questo in campo strumentale non succede, a parte eventuali, ma credo rari o inesistenti, eccezioni? Per diversi motivi: intanto perché per ottenere suoni più acuti su una corda più spessa si dovrebbe andare in una zona più alta della corda stessa, che creerebbe problemi di intonazione, ma anche di limite; a un certo punto ci sarebbero anche seri problemi a metter in vibrazione la corda stessa. Quindi si instaurerebbero problemi di qualità! Lo stesso suono acuto eseguito su una corda più spessa risulterebbe più opaco, perderebbe squillo, brillantezza; infatti quando un compositore indica sulle parti degli strumenti ad arco di eseguire determinate note su una corda più grave del dovuto, lo fa per ottenere un timbro "sombre", più scuro, ma anche più opaco, nasale, per ottenere un effetto espressivo particolare. 

Nella voce si era partiti, molto tempo fa, con la "tecnica" dell'oscuramento per aggirare una difficoltà che si presentava quasi a tutti, cioè collegare la zona centrale con quella acuta. Qualcuno scoprì che scurendo la voce a partire da determinate note, si riusciva a entrare più facilmente (cioè in tempi più brevi rispetto ai tempi standard di educazione vocale del tempo) nella zona acuta, evitando di mostrare una voce gridata e difficoltosa. A nessuno forse venne in mente che era un escamotage, non una soluzione! Aggirare il problema può anche costituire una soluzione provvisoria o per chi si accontenta. Accontentarsi può andar bene per chi ne vuol fare un mestiere, non una professione e tanto meno un'arte. Quindi diciamo forte e chiaro che "coprire" i suoni, o peggio modificare la pronuncia nella zona acuta è (già) un modo di affrontare la voce erroneo e che rende mediocre il relativo canto. Ma qualcuno a un certo punto si pose il problema e pensò di risolverlo: se la zona acuta va scurita per affrontare la questione degli acuti, e si crea disomogeneità con il centro-grave, scuriamo anche questa zona!! (cioè una soluzione al contrario!). Per la verità scurire è una possibilità acustica che possiede anche la voce umana, con le stesse finalità della musica in genere, cioè creare degli effetti espressivi per determinate frasi, personaggi, situazioni. Non si dovrebbe mai ricorrere a effetti per lunghi periodi, perché vanno ad annoiare e a mitigare la loro stessa funzione, che è quella di creare un interesse, una novità, una diversità che, per l'appunto, deve avere una breve durata per poter risultare vincente. Ma la comodità di non dover studiare quale fosse la vera soluzione ha fatto sì che il modello si diffondesse fino a diventare metodo. Bisogna poi considerare che l'oscuramento, se fatto su una voce non proiettata esternamente, è destinata a restare indietro, quindi difettosa.

Ma c'è altro. In campo femminile il problema dei cosiddetti cambi di registro è doppio. C'è infatti un reale cambio di registro dal grave al medio e poi un (falso) cambio da medio ad acuto. Ma, da sempre, il primo è sempre stato quello più "antipatico"; nel tratto medio, infatti, la voce femminile risulta in genere più "falsa", debole, chiara, con una diversità non indifferente con le note gravi, che sono invece alquanto piene, sonore e tendenzialmente scure. A un certo punto, quando cominciò a imperversare un'altra sciocchezza, quella della "maschera", qualcuno ritenne che le note gravi (femminili) fossero sbagliate e pericolose e proposero l'abolizione del registro "di petto", che non risultava "in maschera", ma basso ("follie, follie"). Però permaneva il problema di un falsetto molto debole e chiaro che risultava poco convincente e incisivo soprattutto nel repertorio più drammatico. A nessuno venne da chiedersi come mai più anticamente il problema non sussistesse, o, al limite, si prendevano esempi negativi, o presunti tali, dove si evidenziava uno scalino tra i due settori. Ma siamo sempre lì; si preferisce aggirare l'ostacolo o trovare delle scuse per non affrontarlo realmente. Ci vuole troppo impegno, troppa energia, troppo tempo. 

Ancora una cosa; il registro medio, che preferisco definire come falsetto, come indica Garcia, nelle donna si presenta istintivamente poco o per nulla appoggiato, cioè la sua innata debolezza e chiarezza, è dovuta al fatto che necessitando di una corda sottile e tesa, richiede parecchia energia, che l'istinto naturalmente non concede facilmente, per cui resta come una voce "sospesa", che fa vibrare appena il bordo della corda senza coinvolgere più ti tanto il resto della corda, che richiederebbe un impegno molto maggiore. Il resto della corda vibra naturalmente nel registro grave, ma istintivamente si ferma quando si dà l'attacco a quello medio, dove il falsetto è più proprio. Se viene utilizzato con la parola, nel tempo si sviluppa e si arricchisce, ma non nel parlare spontaneo (che lo donne oggi non usano quasi più), che non necessita di particolare volume (peraltro in buona parte compensato dalla maggiore penetrazione). Il problema si pone quando si chiede a una donna di "parlare" e intonare nel registro medio, perché, perlomeno al giorno d'oggi, o va a cercare il petto, gridando, o spoggia, rimanendo su una voce povera e debole. La soluzione c'è, e consiste nel privilegiare sempre la parola, evitando di rimanere pienamente nel petto, ma anche di "gallineggiare", come dico io quando si emettono suoni spoggiati e incomprensibili, che sarebbe l'imitazione infantile (o maschile) della voce di donna. E' un percorso che richiede tempo e pazienza da parte di maestro e allievo, ma questa è la strada, che non ha alternative. Invece, per prendere la scorciatoia, cosa si fa? Si scurisce tutto, rendendo incomprensibile e financo ridicola la voce e quel che è peggio si evita il passaggio al registro grave, rendendo quindi di fatto "zoppa" la voce, e necessitando poi di ingolamento le note più basse, non essendo appropriata la postura della corda a emettere quelle note in modo accettabile (non che questo lo sia, ma siamo sempre alla scelta tra la padella e la brace, e ha vinto la brace).

giovedì, novembre 19, 2020

Da tenere a mente...

NON SI ASCOLTA PER RISPONDERE, MA PER CAPIRE!

Da ormai tanto tempo, mi rendo conto che la gente fa fatica ad ascoltare. Non riesco quasi più a seguire molte trasmissioni televisive, i cosiddetti salotti, perché chi fa le domande, spesso e volentieri non aspetta le risposte, ma interviene quasi subito a interrompere. Perché? Semplice, perché della risposta non gli interessa niente, ciò che interessa è fare la domanda, cioè ascoltarsi, mettersi in primo piano.

Sul tema dell'ascolto, colgo analoghi problemi quando qualcuno parla, cioè cerca di spiegare o di illustrare un argomento a qualcuno che dovrà applicarlo o, peggio, a qualcuno che ha sbagliato. Intanto per prima cosa viene fuori l'ego, che non accetta che si sbagli, per cui salgono in superficie ogni genere di scuse, di giustificazioni, le quali devono essere manifestate il prima possibile, impedendo all'interlocutore di elencarle. Ma non si pensi che il silenzio sia la risposta giusta, perché noi abbiamo sempre quella radio "rotta" che è la mente, che anche se ci siamo imposti di non rispondere, continua a suggerirci che non abbiamo sbagliato, che qui e che là, che chi ci valuta non ha capito, ecc. ecc., e noi dopo poche parole non si ascolta neanche più quanto stanno dicendo. Questo purtroppo è un grave problema! L'esercizio che ci può veramente portare alla libertà è mettere a tacere quella vocetta, ascoltare e non rispondere ma non solo a chi ci parla, che spesso è un dare la ragione dell'asino, ma a noi stessi, al nostro ego. "non imprecare, umiliati", dice Padre Guardiano nella Forza del destino. Imprecare anche contro sè stessi è sbagliato, perché non è un modo di comprendere. Ascoltare è veramente difficile, ci può portare verso abissi di introspezione duri da affrontare e digerire, ma sono necessità per la vita, non solo per il canto. 

venerdì, novembre 13, 2020

Dinamiche e accenti

 Dinamiche e accenti sono due livelli musicali diversi, specie nei brani con un testo. Il testo infatti contiene parole che posseggono accenti, detti TONICI. Anche le frasi contengono accenti, cioè gli accenti delle parole all'interno delle parole non sono propriamente tutti sullo stesso livello, ma hanno una gerarchia. Se io recito uno frase, comprenderò che in questa c'è un accento principale. Ogni parola, poi, avrà un proprio accento, ma esse però non dovranno soverchiare quella principale. In una parola ci sono diverse sillabe; quando si canta, spesso e volentieri non si tiene conto degli accenti tonici e si piazzano qua e là in subordine agli accenti musicali o (soprattutto) a questioni vocali e respiratorie. Gli accenti musicali non sempre coincidono con quelli testuali. Il compositore cerca sempre di far coincidere almeno il principale (il battere) con un accento testuale, ma non è infrequente che l'accento musicale coincida con una sillaba atona. Questo è un problema che non è sempre così facile da risolvere, perché bisogna saper ridurre un accento laddove musicalmente sentiamo che ci andrebbe. E' una questione particolarmente presente nella musica più antica e soprattutto nel genere sacro, dove i "gloriàààà" si sprecano. C'è un punto, ad es., nella "solita storia del pastore" nell'Arlesiana di Cilea, che pur essendo scritto correttamente porta quasi tutti i tenori a sbagliare un accento: "... nel sonnò almen,,,". E' una terzina, quindi l'accento è da porre sulla prima nota, dove c'è "son", che è giustamente sede dell'accento tonico. Eppure se voi sentite la gran parte delle esecuzioni mettono più l'accento su "no" che su "son", o al massimo su entrambe le sillabe. Non lo fa Gigli, però, ma lo fa Kraus, e, scandalo! pure Schipa!!

Gli esempi possono essere tanti. La soluzione in fondo è relativamente semplice: bisogna leggere il testo, direi meglio: recitarlo, mettendo un po' di enfasi sugli accenti tonici, e magari anche facendo un segno sulle parole nel testo sullo spartito; ma poi mettere gli accenti può essere più facile che toglierlo dove non ci va. Bisogna esercitarsi, è una necessità imprescindibile di ogni esecuzione che si voglia definire professionalmente onesta. Lo spartito di un cantante che studi seriamente dovrebbe essere costellato di segni; gli accenti, le forcelle dinamiche per seguire la tensione, i respiri....

Quindi accade che in una frase che va a crescere, dopo l'accento ad es. iniziale, nelle sillabe successive occorre togliere gli accenti. Ad es. "manca sollecita" (1^ lezione del Vaccaj), la frase è in crescendo (sia perché sta salendo, sia perché necessariamente la tensione è percepibile che andrà a crescere), ma dopo l'accento su "man-" e fino a "-le-" le sillabe intermedie non dovranno avere accenti (così come su "-cita", ancor più difficile essendo sulla parte più acuta), pur in un generale crescendo (l'accento su -lècita è accento di frase). Ad esempio, proprio in questa prima lezione, c'è uno "scontro" tra accento musicale e testuale: "ancor che s'agiti", inizia in battere, dunque c'è un accento musicale sulla A, che però risulta errato nel testo, perché l'accento è su "-còr", quindi bisogna attaccare dolcemente per poter dare più enfasi all'accento del testo. Non sono dettagli, ma profondità di studio, che reclamano ore di studio, concentrazione e voglia di fare le cose con serietà, Quando tutto sarà compiuto, sarà una gioia ascoltare un risultato realmente veritiero, musicale, che rende conto di ciò che il compositore ha saputo cogliere dalla propria coscienza. 

martedì, novembre 10, 2020

La rivoluzione vocale

 La proposta di questa scuola di canto, che deriva da un pensiero profondo, da riflessioni lungo decenni, fondata su esperienze, risultati, osservazioni, dovrebbe essere la normalità, e invece finisce per manifestarsi come una rivoluzione laddove la normalità è rappresentata da un coacervo di formule meccaniche (perlopiù mal masticate e mal digerite) senza fondamenti e strumenti artistici e soprattutto antropologici. Se così non fosse non sarebbero ignorati due aspetti ineliminabili del percorso propedeutico: la parola e l'istinto. La parola è considerata un "di più", una necessità per aderire al testo dei brani, e spesso pure un impiccio, di cui non tenere in considerazione più di tanto, e quasi sempre da piegare, cioè da modificare, in virtù delle necessità del suono. 

Il suono è un "pezzo" della voce, un elemento comune a gran parte del regno animale, che non ci contraddistinguerebbe se non avesse potuto contare su un'aggiunta evolutiva, appunto la parola. Essa ha un costo in termini di energia, e per questo motivo l'istinto, l'altro grande dimenticato, la tiene al minimo regime. Come tutte le cose nell'uomo questo "minimo" non è uguale per tutti (anche questo ha precise ragioni gnoseologiche), per cui alcuni sono in possesso naturalmente di voci già molto poderose, sviluppate, oltre a possibili doti musicali, ritmiche, espressive, drammaturgiche, ecc. Questo può aiutare ma non automaticamente proiettare nel regno dell'arte, perché l'istinto è sempre in agguato. Per poter accedere al mondo dell'arte, dobbiamo fare i conti con lui, che è progettato e funziona per preservare le nostre condizioni fisiche, cioè la nostra parte animalesca. Questo è lo scoglio imponente che dobbiamo affrontare. Ogni tentativo logico, scientifico, ragionato di cantare artisticamente si risolverà in un compromesso, più o meno fortuito, per cui si potranno avere risultati eccellenti, ma mai perfetti, mai esemplari. Per la maggior parte delle persone questo probabilmente basta e avanza. Ricordo un ragazzo che venne a farsi sentire, e a un certo punto disse: "a me non importa diventare perfetto, mi basta poter cantare". Non commentai, e non ho nulla da rimproverare. Ognuno deve e può scegliere la propria strada, se ne ha le opportunità, ovvero se si mette nelle condizioni di trovarle. Ma in realtà non è una scelta, cioè non è una scelta ragionata, è una NECESSITA'! Se non avverti tale necessità, c'è poco da cercare, ti interessa il "lavoro", ti interessa l'impiego, l'occupazione, lo stipendio. Non ti interessa realmente l'arte, il tuo completo coinvolgimento, non ti interessa dare, ma prendere. 

L'istinto è una intelligenza, rozza, grossolana, ma molto rapida e cieca. Non interviene in basa a ragionamenti elaborati (non è in grado di elaborare), ma ogni qualvolta percepisce, tramite i sensi, un seppur lontano accenno di minaccia al funzionamento regolare e preordinato del corpo. Il canto interviene sulla respirazione, non funziona con il normale ritmo e ciclo respiratorio, necessita di tempi, quantità e qualità proprie, che non collimano con quelle fisiologiche. Il ciclo respiratorio regolare dura un paio di secondi, assorbe rapidamente aria contenente ossigeno per restituire anidride carbonica e in questo ciclo non vi è alcuna pressione né verso l'interno né verso l'esterno. Un ciclo vocale invece può durare molti secondi,

ed emette suoni e parole, quando è perfetta VOCE PURISSIMA, avente tutte le caratteristiche potenziali del nostro corpo e del nostro spirito, ma crea o può creare pressioni sia verso l'interno che l'esterno. Questi due fattori mettono in allarme e in reazione l'istinto, che crea i problemi e i difetti. 

La componente metafisica è indispensabile. Chi ritiene che il mondo del canto riguardi solo aspetti fisici è del tutto fuori strada. E molto probabilmente questa è la causa principale di quanto dicevo all'inizio, cioè si vuole entrare nel campo dell'arte vocale ma senza impegnare la sfera creativa, che è difficile ma anche problematica, perché ci induce a guardarci dentro, a capire chi siamo, come siamo fatti (non anatomicamente, intendo), cosa vogliamo, i nostri problemi, i nostri desideri, perché, e cosa siamo disposti a fare. Ci induce, e questo è il lato più "rognoso", a essere umili, ad abbattere il nostro ego, e questo, anche se non è il nostro istinto, si comporta nello stesso modo, ci guida e ci sprona in una direzione, che è esattamente all'opposto di qualunque obiettivo artistico. 

Stamattina in televisione c'era un'opera, come quasi tutte le mattine. Purtroppo quasi ogni volta sono costretto dopo un certo tempo, a spegnere, perché mal sopporto un certo modo di cantare che ormai accomuna quasi tutti, che non è solo vocalità, come qualcuno può pensare; manca tutto un insieme di aspetti indispensabili alla creazione di un evento operistico, dall'aderenza musicale, a quella gestuale, quindi recitativa, drammaturgica, espressiva.. e poi anche vocale! Ma, per esempio, ieri è stata data un'opera registrata nel mica poi tanto lontano 1980 in un teatrino di tradizione. Beh, l'ho ascoltata tutta e con gusto! 40 anni fa si potevano ascoltare grandi cantanti, anche se la decadenza era già in corso, perché molti di quei cantanti, che in quella rappresentazione erano veramente notevoli, hanno poi concluso malamente la propria carriera. Ma, per tornare a stamattina, a parte alcuni, più o meno modesti, a un certo punto entra un basso, di corporatura notevole. Mai sentito prima. Apre la bocca e... ne esce un RUGGITO (beh, del resto ieri ho sentito un paio d'atti di una edizione delle Nozze di Figaro dove Bartolo GRACIDAVA! a riprova che l'uomo ha ancora molto in comune col regno animale). Quello che mi è saltato all'orecchio è che a parte il suono orrendo e l'impossibilità di comunicare alcunché, quello, che non si può nemmeno definire suono essendo molto più vicino al RUMORE, era lontano, dico proprio in termini di misura di lunghezza, dalla parola. Veniva da dentro proprio come quando vediamo un leone ruggire; per potersi avvicinare alla parola, il suono avrebbe avuto bisogno di avanzare un metro!! E' evidentissimo, lo colgo in modo immeditato quando ascolto i geni del canto, che tutto il processo vocale meraviglioso è ATTACCATO alla parola, e la parola sta DAVANTI a tutto. Il suono è dietro, è la sua riserva, è come il tender nei treni a vapore, è il suo rifornimento, ma non è la voce. La voce per l'uomo è la parola. PUNTO E BASTA! Ma anche nei migliori cantanti di oggi, rarissimamente sento la parola davanti al suono, perlopiù sento suono, dietro al quale si sente, più o meno bene, la parola. 

Qualcuno può pensare che io stia solo facendo una crociata in favore della comprensibilità del testo, ma non è questo (o solo questo), anche se è un dato fondamentale. Ciò che sto dicendo è che la parola è la MOTRICE della voce, è ciò che accende, aizza, eccita, istiga, scalda, agita il suono madre provocando la sua trasformazione in una cosa diversa, indefinibile come tutti gli oggetti d'arte, e la trascina nello sviluppo musicale di una frase, di un'articolazione musicale, ecc. Come sempre, bisogna stare accorti con la scrittura. Nello scrivere questo già penso alle possibili conseguenze negative su come tutto ciò o parte di ciò può essere interpretato. Parlare è veramente parlare, cioè ciò che facciamo normalmente quotidianamente, SEMPLICEMENTE. Invece il primo, spesso lungo, ostacolo da superare, è correggere il gridare, l'esagerare la pronuncia accompagnando con spinta, con forzature. Parlare ci pare troppo semplice, banale, che non può portare a niente, non è canto, non è voce lirica. Non riusciamo a intuire la forza propulsiva, ma anche trainante, svegliante, stimolante della parola, ma ciò che fa e deve fare la differenza è la componente interiore, l'intenzione, la sincera adesione al suo contenuto, che non vuol dire esagerare o contornarla con effetti o smorfie, ma comprendere ciò che si sta dicendo nell'ottica che tutti possono comprendere. 

venerdì, novembre 06, 2020

Evolvere o ripetere

 Un motto della filosofia Zen dice: Evolvere o ripetere.

Quando si parla di evoluzione si pensa sempre a quel processo, anche parecchio discusso, per cui da una specie, mediante mutazione, se ne crea una nuova. La più contrastata è naturalmente quella che vorrebbe il passaggio dalla scimmia all'uomo. Il punto su cui più si discute è che di tutti questi passaggi mancherebbe sempre una prova tangibile, cioè il fondamentale anello di congiunzione. Questo tipo di evoluzione io lo definisco "orizzontale", cioè si produrrebbe in un lunghissimo tempo e coinvolgerebbe fondamentalmente il DNA. Ma possiamo dire che esista un altro tipo di evoluzione, che definirei "verticale", che si produce in singoli soggetti e avviene nel corso di una vita, quindi in un tempo estremamente limitato, non coinvolgendo il DNA. Questo tipo di evoluzione potremmo anche definirla una raffinazione dagli strati più grezzi, pesanti a quelli più  sottili, sublimi. Non per nulla il motto che ripeto più sovente è "togliere". Su questa materia molto hanno scritto e lavorato i cosiddetti "alchimisti", che nell'immaginario popolare sono ritenuti solo dei matti illusori che volevano trasformare i metalli in oro, ma questa è una metafora! In realtà erano filosofi e studiosi, anche di scienze alchemiche, cioè chimiche, ma il loro lavoro si orientava molto sull'uomo. 

Il motto Zen dice una cosa molto semplice ma intelligente: o ti metti in una condizione per cui ti togli da quel "pantano" rozzo e materialista in cui ti trovi naturalmente e quindi ti metti in un percorso evolutivo, cioè di progressivo affinamento, o altrimenti continui a ripetere i cicli vitali fisici, istintivi, animaleschi che ti condizionano. La frase Zen di per sè non è negativa o pessimista; essa ti pone di fronte a una scelta. Come l'ho messa io sembra di distinguere l'umanità tra persone ignoranti, rozze, e gli intellettuali. Non è affatto così! Il distinguo è molto ma molto più sottile, per cui tra persone anche di ampia cultura e posizione sociale ci possono essere strati enormi di "ripetenti". Il punto focale, ciò che impedisce l'accesso all'evoluzione, è L'EGO! quello è l'ostacolo più ostico da superare. Ecco quindi che proprio tra chi ha avuto successo, chi ha raggiunto posizioni sociali elevate, è più facile trovare persone che non hanno neanche iniziato una reale ascesa evoluzionista, ma solo superficialmente, con affabulazioni e modalità accattivanti di presentarsi, possono illudere di aver conquistato gradi elevati di conoscenza. Ecco. Per l'appunto l'ego è il masso che ci separa dall'ascesa conoscitiva. Se sappiamo, o meglio, se incontriamo la persona giusta che ci sa far, superare l'ego, ecco che possiamo ambire (si può dire con un determinato senso, trascendere) alla vera conoscenza. La ripetizione è monotona, è sterile, porta all'annichilimento e quindi alla vita vuota, senza senso. La tensione all'evoluzione dovrebbe essere una spinta interiore immancabile in ogni soggetto, ma questo comporta un lavoro, un'impegno non di poco conto, che coinvolge tutto l'essere, e questo porta alla rinuncia, a causa di uno dei più subdoli input istintivi: la pigrizia. 

venerdì, ottobre 30, 2020

Camminare in progressione

    Un brano musicale è un percorso che si snoda nel tempo e nello spazio. Potremmo riassumerlo con il celebre motto: da dove veniamo, chi siamo e dove andiamo. Per la precisione sono i due poli del passato e del futuro che individuano chi siamo, cioè il presente, che è anche la cosa più difficile da vivere con coscienza, presi come siamo dal nostro passato e a proiettarci nel futuro. 

Quando affrontiamo un brano musicale, dovremmo sempre considerare che anch'esso ha un passato un presente e un futuro, che non riguarda il suo tempo di esecuzione!, ovvero dove e come nasce, come si evolve (fino al punto massimo) e come termina. Il "seme" nascente è fondamentale perché determina tutto ciò che avverrà nello svolgimento; le due fasi, prima e dopo il punto massimo, le possiamo chiamare: fase implicita e fase esplicita. Ciò che avviene dopo (a parte eventuali code, che sono un po' piccoli brani a sé stanti) è una manifestazione di materiali già noti, già sentiti, a volte ripetuti tali e quali a volte variati. Peraltro, come abbiamo già scritto diverse volte, in musica la ripetizione non esiste, quindi la dobbiamo considerare sempre nell'ottica della tensione che, soprattutto nel finale, una mera ripetizione senza porsi il problema di come affrontarla in modo saggio, significa molto spesso "uccidere" il brano. 

Non sto a (ri)fare una lezione di fenomenologia; ciò che volevo puntualizzare è che nell'affrontare lo studio e la realizzazione di una pagina musicale cantata, dobbiamo avere consapevolezza di percorrere un itinerario che non è piatto, non è statico e non è calmo, ma segue un continuo progresso. Sono, in questo senso, molto eloquenti molte arie di Verdi, che iniziano "sottovoce", a volte con pochi o addirittura nessuno strumento, che si aggiungono via via, fino a una grande "esplosione"; ma non è necessario e non è detto che l'esplosione sia sonora, nella dinamica; ciò che esplode è la tensione, ci dobbiamo sentire proiettati, espulsi da una gabbia! L'arte e ciò che comunica, è libertà, e noi dobbiamo vivere questo anelito di libertà. La vita non ci può offrire lo stesso risultato; la fisica ci relega sempre alla nostra dimensione, però possiamo per un tempo limitato sentirci librare nello spazio infinito e vivere l'eternità. A patto di avere gli strumenti: la voce libera e la libertà musicale, ovvero cogliere, riconoscere, il percorso continuativo e unificante segnato dalla tensione, fino al suo punto massimo e il ritorno con i piedi per terra. 

Sento talvolta delle spiegazioni di brani musicali, più o meno celebri, con "storielle", immagini, emozioni. Beh, va tutto bene, ma questi racconti mi mettono malinconia! Relegare brani di grande profondità, di amore per l'umanità, di respiro universale ed eterno in sciocche vicende, non è "semplicità", è banalità, è sminuire i brani e i loro autori. Certo, c'è da capire che solitamente chi fa questo racconti non ha propriamente un'idea della dimensione della musica, non sa come coglierne gli aspetti fondamentali, e si nasconde (e la nasconde) dietro all'esteriorità, cioè agli elementi che stanno fuori dall'uomo, o alla superficie delle sue percezioni.

venerdì, ottobre 23, 2020

Potenza della parola

Riporto un breve estratto del pensiero orientale:

"Alzare la frequenza vibratoria attraverso la ripetizione di suoni, o parole particolari, è una pratica molto antica. La filosofia indiana, ad esempio, definisce questa pratica spirituale con il nome di mantra yoga e, pensate un po’, il significato di mantra è: “liberazione della mente”.

Il mantra per eccellenza è nella tradizione indiana il verbo OM, il capostipite di tutte le vibrazioni sonore che tutti noi conosciamo e da cui, come spiega Yogananda, deriva l’infinita potenzialità del suono. Qualsiasi parola pronunciata con chiara consapevolezza e profonda concentrazione ha valore materializzante. [attenzione, però: La recitazione meccanica di un mantra o una preghiera non innesca nessun cambiamento, ma se fatto nella presenza invia informazioni al mio corpo]

Nella parola si manifesta l’individuo nella sua totalità, corpo, mente, spirito; attraverso le vibrazioni allineate del pensiero, del suono e dell’intenzione si crea l’energia positiva che rende potenti le nostre parole."

Quando un elemento viene unito ad un altro in modo univoco forma un nuovo elemento; quest'ultimo avrà una carica energetica maggiore della somma dei due singoli elementi presi individualmente. Questo assunto riguarda anche la musica e le parole.

Anche la parola riassume un insieme di elementi che danno vita a un elemento con una propria indipendenza ed energia. In essa, l'energia non è semplicemente data dalla somma degli elementi che la compongono (cioè le lettere, le sillabe), c'è il possibile allineamento degli elementi che formano l'uomo stesso, quindi corpo-mente-spirito, ma perché possa manifestarsi occorre riferirsi al suo contenuto; è quello in grado di scatenare una incredibile energia, a patto che sia veicolato con una intenzionalità profonda, reale, che muova la coscienza, ma perché ciò avvenga occorre anche che sia porto con la più perfetta dizione. 

Possiamo dire che ogni parola abbia una propria vibrazione (relativa all'energia che la contraddistingue), acquisita in seguito a ciò che la riguarda, a come viene vissuta ed esperita nell'ambito dello spazio in cui si opera (viene definito da alcune scienze: semema, ovvero un precipitato dello spirito). La scienza quantica se ne sta occupando, anche se non riguarda l'arte vocale. Consideriamo che la parola ha un potere CREATIVO! Ci tornerò.

In un post di poco tempo fa, mi soffermai sulla parola e sul suo potere, giungendo a ipotizzare una sorta di formula matematica. Ho compiuto ulteriori riflessioni, che valuto molto proficue e interessanti, e ho ritenuto di dover rettificare tale assunto.

Avevo infatti scritto Av = Slp, Arte vocale = suono (libero) elevato alla parola (con forte connotazione intenzionale). La riflessione mi ha invece condotto a un'altra conclusione:

Av = Sl * Pn, cioè Arte vocale = Suono libero moltiplicato (o meglio che si moltiplica) per la parola elevata al potere insito in quella stessa parola. Ci si avvicina in questo modo molto alla nota formula della relatività: E = m * c2

Spiego meglio: le parole non sono e non possono essere tutte uguali; esse hanno una propria energia. L'energia delle parole dipende dal loro uso, dalla loro storia, dalla stessa impronta conoscitiva che vi è stata trasferita dall'uso. Ci sono studi in questo senso di un certo interesse, e addirittura esiste una scala vibrazionale con cui è possibile graduare le parole (scala biometrica di Bovis). Ma, attenendomi per il momento su un piano più semplice e condivisibile, credo sia evidente che tutti hanno un proprio vocabolario, misurato singolarmente, per cui ciascuno utilizza frequentemente determinate parole e ne esclude altre, che ritiene o poco adeguate al proprio stile di vita, o inopportune. Quelle che potremmo definire parole "volgari" (non necessariamente parole sconce, ma anche solo parole sciatte, grossolane, poco significative, generiche, negative,..) hanno un potere energetico molto basso, che, secondo determinati studi, assorbono energie, mentre parole nobili, anche semplici ma positive e luminose, hanno cariche elevate e trasportano, trasfondono e diffondono energia. In modo sintetico possiamo dire che le parole ad alta vibrazione esprimono sempre unità, comunione di intenti, obiettivi superiori, condivisione mentre quelle a bassa vibrazione comunicano divisione, dualità, individualità, mancanza di obiettivi e obiettivi distruttivi. Uno stesso testo può essere scritto con parole simili, però in un caso può risultare un testo poco piacevole o anonimo, nell'altro caso un testo potente, efficace, che smuove interesse o affetti, ecc. Non è solo una questione di vocabolario, di lessico, di grammatica! E' questione di potenza delle parole. 

La parola è collegata alla coscienza. Se la parola è pronunciata con un potente intento e con una proiezione positiva, azionerà anche determinate reazioni chimico-fisiche nel nostro corpo che potranno generare energia. E' evidente che una parola come Amore, pronunciata e seguita da un'autentica volontà amorevole, possiede una energia enorme. Questa parola con potenza molto elevata, se unita a un suono libero, potrà scatenare una vocalità di grande impatto energetico nello spazio. Al di là di questo esempio (molti attribuiscono, altro esempio, alle parole sacre di una preghiera, grande energia devozionale), noi possiamo renderci conto che un testo poetico o letterario difficilmente contiene parole che possano rientrare nell'ambito del "volgare" (a meno che non rientrino nella specificità di personaggi negativi della trama letteraria), per cui si pongono a un livello energetico elevato. E infatti perché leggiamo libri, e alcuni in particolare? Perché ci piacciono, d'accordo, ma questo vuol dire che ci fanno stare bene, hanno un riflesso positivo sulla nostra psiche e di riflesso sul nostro fisico. Questo per dire che il canto relativo a un'opera, a un oratorio, a un lied, una romanza, una buona canzone, si prestano già di per sé a proiettarsi energeticamente verso l'uditorio, che potrà ricevere e godere di quell'onda. Ma quell'onda potrà avere una carica energetica di gran lunga superiore quando non è solo legata all'ambito verbale, come succede nel teatro di prosa, ma sostenuto dal suono musicale (infatti sappiamo che fin dall'antichità i testi venivano cantati o declamati, non solo recitati, e il ruolo della musica nei riti sacri penso sia noto a tutti). Ma qui ci troviamo a impattare con due grossi problemi che abbiamo inesauribilmente posto in evidenza: la libertà del suono e il ruolo sminuito della parola.

Suono libero significa svincolato dagli ostacoli fisici di natura istintiva, quali ad es. la funzione valvolare della laringe, quindi in grado di espandersi con fluidità nello spazio antistante. Questo è già di per sé un obiettivo davvero molto ambizioso, che però può essere aiutato proprio dalla potenza della parola. L'esigenza di poter esprimere con facilità le parole che ci aiutano a comunicare non solo superficialmente ma con coscienza limpida e profonda motivazione, potrà fornire potente energia al corpo per poter dare libertà al suono che ne è materiale generante. Naturalmente l'energia sarà rivolta alla qualificazione del respiro, che è il motore di tutta la voce. 

La maggior parte delle scuole di canto ignora la potenza della parola, altrimenti non si spiegherebbe perché dedicano quasi tutto il tempo didattico nei vocalizzi e solo marginalmente a esercizi che contemplino la parola, senza dare a queste un ruolo fondante, ma anzi molto spesso suggerendo o imponendo modalità distorcenti la corretta pronuncia; solo in rari casi ho sentito qualche insegnante insistere sulla necessità di puntare su una incisiva dizione di alcune parole (ma non su tutto). Il fatto che alcuni insegnanti facciano dire delle frasi non è di per sé una sufficiente modalità di insegnamento capace di attivare l'energia delle parole; ciò che muove è la motivazione, la determinazione, la consapevolezza del contenuto. Ecco perché è buon criterio inserire negli esercizi parole di uso comune con qualche riferimento affettivo che può coinvolgere più facilmente l'allievo. Pronunciarle con meccanicità, significa perdere tempo prezioso. Parlare e intonare con profonda sincerità, avendo ben chiaro ciò che si sta dicendo e mettendoci tutta l'intenzione di cui si è capaci, è il vero studio, la vera e unica strada verso l'arte vocale. Semplicità! Non lunghi e complessi esercizi su ampie estensioni, ma nota per nota, finché il risultato è ottimale. Solo dopo allargare. 

In ogni modo la cosa difficile ma importante consiste nel percepire la funzione energetica delle parole. Percepire che dando forte intenzionalità alle parole che stiamo cantando esse si liberano e si diffondono riempiendo lo spazio è un obiettivo fondamentale, che deve restare nell'allungamento delle parole, cioè sulle vocali. 

Non sappiamo con certezza se fu il m° Gerunda a imprimere nella vocalità di Tito Schipa l'amore e la priorità di ogni altra cosa verso la parola, che possiamo dire con assoluta certezza sia stato il motore della sua insuperabile vocalità (ma anche di altri cantanti purtroppo ormai lontani temporalmente da noi, anche se pochissimi fino al suo livello); di certo lui ha sempre indicato (esemplificando) la parola e la pronuncia come indispensabili per un canto esemplare.

Il vero problema della comunicazione è che si ascolta per rispondere invece che per capire.

Quando le parole perdono il loro significato, la gente perde la propria libertà (Confucio).

“Facile” richiede che sia fatto senza ostacoli. “Semplice” significa invece puro, senza una piega, e ha una vibrazione molto più alta.

Serena Pattaro spiega che ogni parola che pronunciamo, pensiamo, scriviamo viene rilasciata nel mondo ma essendo dotata di vibrazione reagisce principalmente con il nostro organismo che, in base al segnale emesso, produrrà una determinata risposta chimica capace di influenzarci positivamente o negativamente.

Masaru Emoto, con la teoria sulla memoria dell’acqua aveva sottolineato come le parole (pensate e pronunciate) possono creare (e modificare) la realtà (dell’acqua). Dai suoi sorprendenti esperimenti con i cristalli d’acqua ha evidenziato come parole quali gratitudine, gioia, amore, pace, ecc. (parole ad alta vibrazione) scritte su dei contenitori riempiti d’acqua si cristallizzino in forme armoniose mentre parole quali odio, guerra, disgusto, ecc. – quelle che la Pattaro chiama parole a bassa vibrazione - al contrario generino dei cristalli amorfi.

martedì, settembre 15, 2020

Rapportare i suoni

 Ho letto e sentito più volte, da parte di "esperti" di canto, paragonare il passaggio di registro al cambio dell'automobile. Quando parti stai in prima per un breve periodo dopodiché devi cambiare marcia se no rischi di fondere. Ma il paragone non regge. Nell'automobile il cambio è un apparato intermedio tra il motore e la trasmissione e serve a far diminuire il numero dei giri al motore man mano che si prende velocità; nella voce il numero delle vibrazioni delle c.v. aumenta sempre salendo, quindi è falso che mediante il cosiddetto passaggio si diminuisca alcunché. Molto più adeguato il riferimento alle corde di uno strumento tipo chitarra o arco, dove è necessario spostarsi da una corda all'altra sia salendo che discendendo; ci sta anche il fatto che su questi strumenti è possibile realizzare medesime note su diverse corde, dando colore e carattere diversi. Però anche su questo occorre prendere le distanze; in primo luogo noi abbiamo sì due corde vocali, ma che vibrano (devono vibrare) in sincrono (altrimenti c'è qualcosa che non va, di serio), quindi non c'è un passaggio da una corda all'altra, ma sono le medesime corde che possono atteggiarsi in modalità leggermente differenti. E' necessario, però, ricordarsi che le frequenze aumentano costantemente dalle note più basse alle più acute; cos'è che manca nelle voci che non hanno raggiunto l'esemplarità? il rapporto perfetto tra fiato e frequenza. Cioè il fiato potrà anche riuscire a mettere in vibrazione le c.v. su una sufficiente gamma vocale, ma il rapporto non è costante, quindi possiamo dire con certezza che va a scemare man mano che si sale. Molte persone oltre un certa limite, salendo non sono più in grado di far scaturire note, oppure risultano estremamente forzate (e teniamo presente che oltre al fiato siamo aiutati anche dall'apparato nervoso). Ma anche chi ha già studiato per un certo tempo o che ha una buona natura, e quindi riesce a salire con una certa facilità, oltre a un certo limite avvertirà un peggioramento qualitativo, si entra in una sorta di grido, di suoni striduli, decisamente inaccettabili. Quindi il consiglio "tecnico", porta al cosiddetto passaggio di registro, cioè modificare le caratteristiche delle c.v. (mediante modifiche alla colonna sonora) che diventeranno più tese e sottili, e ci permetteranno di salire con una migliore qualità sonora. All'inizio questo procedimento potrà non funzionare o portarci comunque a suoni scadenti, ma col tempo potranno migliorare considerevolmente fino a un'ottima qualità, anche se molto spesso la procedura del passaggio comporterà un tipo di emissione non del tutto omogenea con la gamma centrale. Questo per determinate caratteristiche anatomiche della parte delle c.v. preposte alla formazione delle note acute. La necessità del passaggio, però, non sarebbe realmente necessaria, e questo per due fattori:

1) come ho già scritto sopra, noi dobbiamo considerare che man mano che si sale dalle note gravi verso il centro-acuto, i rapporti tra fiato e frequenza tendono a peggiorare in modo quasi insensibile, quindi nelle note precedenti il punto dove è consigliato passare, questo rapporto è già labile, e l'emissione non più
valida, anche se accettabile dalla maggior parte delle persone (cioè del loro udito). 

2) la postura delle corde vocali è erroneo pensare che sia "binaria", cioè o così o cosà; questo è un grave errore che persiste da tempo immemore; già Tosi e Mancini nel 700 cadevano un po' in questa trappola, pur avendo una grande cultura del fiato. E' molto probabile che, quindi, sapessero superare il problema, ma non ce lo lasciano capire dagli scritti. Quindi dobbiamo riconoscere che nel momento in cui, mediante la corretta disciplina di studio, siamo in grado di rapportare perfettamente il fiato con il suono corrispondente, anche quando siamo nelle note gravi faremo sì che le c.v. si atteggino nella loro globalità a quel suono, quindi quando si arriva nelle note centro acute, dove le "tecniche" vorrebbero che si passasse di registro, ci si rende conto che è del tutto inutile, perché i suoni continuano ad essere belli, rotondi, appropriati, omogenei, per proseguire costantemente fino alle note più acute della gamma. In pratica è come se noi dovessimo superare una valle prima scendendo nella valle stessa, e poi risalendo sulla riva opposta, mentre con la giusta disciplina è come se noi riempissimo la valle e ci trovassimo sempre su un medesimo piano, seppur inclinato. Ciò di cui la maggior parte degli insegnanti e dei cantanti non si rende del tutto conto, è il fatto di "scendere"; si ha l'impressione di restare omogenei, ma il fatto stesso che a un certo punto subentri la necessità di "salire", cioè di non poter proseguire con la stessa vocalità, pena il gridare o comunque il deterioramento timbrico, è un segno evidente che questa presunta omogeneità non c'è, quindi significa che il fiato non è rapportato e le c.v. non si sono adeguate strutturalmente e gradualmente. 

sabato, settembre 12, 2020

La parola che espone (l'esponente)

Ancora una volta l'esperienza pratica mette in luce aspetti psicologici che influiscono o possono influire non poco sulla qualità del risultato. 

Schipa e Di Stefano possono essere considerati due tenori agli antipodi tra di loro. Bellissima la voce del secondo, decisamente meno bella quella del leccese, che però era in possesso di un magistero vocale come pochi, mentre Di Stefano nel volgere di pochi anni di carriera già mostrava segni di logoramento che andarono sempre peggiorando. Però qualcosa li accomunava, tant'è che ancor oggi Di Stefano è considerato quasi un mito: è la pronuncia. L'uno e l'altro si sono sempre contraddistinti, anche nelle interviste, per mettere a monte di tutto la parola scandita. A parte il timbro, che è un fatto soggettivo, la differenza di fondo è consistita nel fatto che Schipa era in possesso dei mezzi per poter sostenere efficacemente e per sempre la parola, mentre Di Stefano no. 

Ma in sostanza cosa ha reso grande fino alla mitizzazione il nostro Pippo? La generosità, la carica umana che ha potuto esprimersi attraverso un uso davvero sincero della parola. Questo ha potuto, anzi, può ancor oggi, far breccia nella sensibilità delle persone che lo ascoltano e che non si soffermano più di tanto sulle carenze dell'emissione. Per lui è stato un fatto innato, una carica insita nel soggetto. E' stato lo stesso per Schipa, che però ha potuto contare su uno studio lungo e meticoloso, oltre che una notevole intelligenza che gli ha offerto la possibilità di conservare quel tesoro intatto per tutta la vita.

Quindi la parola è la POTENZA (esponente) da dare al suono per poterlo elevare ad arte vocale. S^p=Av (è una definizione simile a quella del logaritmo, che guarda caso è alla base del funzionamento dell'orecchio)!

Ma come si spiega che nonostante io sostenga questa tesi da anni, la esemplifichi e dimostri fattivamente la sua verità, incontro spesso difficoltà di realizzazione da parte degli allievi?

I motivi sono due: uno, da sempre noto e alla base delle scoperte del m° Antonietti, consiste nella resistenza opposta dall'istinto di sopravvivenza e difesa della specie, che riconosce (essendo nel DNA) la parola come necessaria alla comunicazione verbale ma si oppone a uno sviluppo (o addirittura una evoluzione) della stessa oltre i limiti delle esigenze di vita comune.

Il secondo motivo è di carattere psicologico e consiste nella difficoltà che ha la maggior parte delle persone nell'esporsi pubblicamente. La voce, come ho espresso spesso anche in questo blog, porta fuori di noi molto della nostra interiorità e intimità, ma lo fa in modo inconscio, non immediatamente riconoscibile. Già la condizione di dover parlare in pubblico ci pone in difficoltà perché non ci piace "mettere in piazza" i nostri segreti, anche se non in modo palese. Ma perché ci vergogniamo e/o ci sentiamo in imbarazzo? Se poi dobbiamo anche cantare questo fenomeno cresce ancor più. Non capita, o in misura ridotta, se la nostra natura psicologica ci porta dalla parte opposta, cioè a voler manifestare con gioia la propria appartenenza alla sfera umana sotto l'aspetto spirituale, intimistico, più che fisico, senza alcuna vergogna o imbarazzo, giacché siamo tutti uomini e dunque accomunati dalle stesse leggi. 

Se questa scuola può intervenire efficacemente nell'affrontare e risolvere le questioni vocali legate alle difese istintive mediante un lungo e meticoloso lavoro che le aggiri e che possa far sorgere una sorta di nuovo senso (fonico), accettabile dall'istinto stesso, molto più complesso risulta affrontare il secondo problema.

Le persone avvertono col canto una "esposizione" pubblica, che le rende "fragili", attaccabili, vulnerabili, dunque sviluppano una resistenza e delle difese. E come si realizzano? Nascondendo la parola, cioè rendendola meno incisiva, meno "vera", meno sincera, meno comunicativa nella sua essenza, nel suo contenuto sensibile. Ci si rifugia nel suono, cioè nella pura vibrazione fisica, anche se ammantata da una pseudo pronuncia. Però per molti cantanti rifugiarsi nel puro esibizionismo funambolico delle coloriture, dell'agilità, è il massimo della tranquillità, della sicurezza. 

Sia chiaro: questo succede anche suonando uno strumento o in un complesso o orchestra, anche se non c'è una parola concretamente pronunciata, ma una cosciente sensibilità musicale può far scaturire dalle relazioni tra i suoni messi in campo dal compositore in una determinata sequenza e con specifiche caratteristiche di frequenza, di timbro, di dinamica, di ritmo, un contenuto "vero" con caratteristiche del tutto analoghe a quelle di un testo poetico musicato. La forza della parola non conosce limiti, però il mondo quotidiano non può sostenere il peso di parole con contenuti molto profondi e coinvolgenti, dunque il linguaggio comune è destinato al consumo semplicistico della routine; un ambiente più consono è quello della letteratura artistica, e ancor più quello della poesia, sempre più nascosto e scarsamente fruito. La potenza delle parole viene avvertito solo da pochi; anche qui ci sono questioni di sequenza, di ritmo, di colore... figuriamoci quindi cosa avviene nell'incontro verticistico tra parole di alta poesia e grande musica! Ma non si tratta di dare "veste" musicale alle parole, ma di percepire la loro vibrazione profonda, già musicale in sé, e potenziarla mediante ulteriori mezzi sonori. Potremmo definirla... musica al cubo! E' però un tipo di risultato che non possiamo aspettarci quasi mai nel campo operistico, dove i libretti, anche nei casi migliori, non possono aspirare ad essere testi letterari sublimi. Più probabili risultati di grande altezza possono aver luogo in lieder, romanze, chansons, songs, cioè brevi composizione su testi di grandissimi poeti e occasionalmente da testi "sacri", laddove il musicista si è servito di una lirica veramente ispirata, sublime. 

Tornando all'argomento, come si può superare l'ostacolo psicologico che impedisce o limita fortemente la capacità di esprimere con piena consapevolezza e verità le parole di un testo cantato (mentre si affronta con molta più disinvoltura un vocalizzo?

Questa realtà ci spiega anche perché hanno molto più successo le scuole di canto il cui metodo svia dalla perfetta pronuncia, alimentando l'idea che le "intervocali" cioè le vocali miste o impure, siano più efficaci per cantare, o come dice una notissima cantante bulgara, le vocali vanno "uniformate" sulla "U", in modo che non si capisce quasi più niente, ma anche quando si capisce, manca l'elemento di verità che può raggiungerci solo grazie a una pronuncia assolutamente perfetta.

Intanto, come sempre, il primo obiettivo è prendere coscienza dell'esistenza di questo ostacolo. Comprendere le ragioni della resistenza psicologica non è per niente facile, perché possono dipendere ma molti fattori. Un fattore frequente è già insito nel territorio. Ci sono regioni (nel mondo e nei singoli Stati) dove le popolazioni sono più aperte, generose, comunicative, e regioni "chiuse", dove regna la diffidenza, la scarsa comunicazione. Ma da lì il cerchio si stringe all'ambiente familiare, lavorativo, sociale. Superare questo ostacolo, quindi avere fiducia nel prossimo, sapere di poter esporre le proprie opinioni, sapendo sostenerle e sapendo di dover subire critiche e attacchi di qualunque genere... è un lavoro mentale molto impegnativo. Potrà sembrare eccessivo questo discorso legato "semplicemente" a imparare il canto, ma qui non si tratta di accedere a un canto piacevole e spensierato, nemmeno "serio", ma molto di più, si tratta di voler accedere a un canto LIBERO, a una comunicazione diretta, a quell'amore-conoscenza a cui tutti, in qualche modo, aspiriamo. In tutte le fasi è indispensabile adire al "riconoscimento", che è poi coscienza. Ascoltarsi e riconoscere se ciò che diciamo e poi cantiamo ha un connotato di sincerità, di comunicazione verosimile, convincente, o resta su un piano astratto, distaccato. Ogni frase dovremmo sentirla come se venisse detta a noi e dobbiamo percepire immediatamente se ci muove qualcosa. Infatti il fulcro della vera musica, come ogni verità, è il "movimento" interiore che ci procura. Se manca questo elemento resta tutto a livello di superficie, che ci sollecita giusto i terminali nervosi più affioranti, ma non scende, non ci conquista e dunque è destinato a scomparire. 

Aggiungo un pensiero: la pronuncia fasulla è anche un rifugio sicuro, tranquillo, comodo, dove difficilmente qualcuno può venirti a infastidire, specie se sai abbastanza giostrarti col suono. E' la parola, invece, quella che ti espone, ti mette in maggior risalto e quindi che ti può porre nel mirino dei narcisi e dei soloni che dalla verità prendono adeguatamente le distanze e che vogliono colpire chi vi si avvicina.

Ancora un'annotazione: perché siamo così toccati quando sentiamo cantare un bambino o un coro di voci bianche? Perché essi, se non sono stati "traviati", esprimono veramente con sincerità le parole di un brano, e anche se possono avere una vocalità difettosa, riescono comunque a esprimersi con una libertà e un trasporto molto superiore a quello della maggior parte dei cantanti adulti.

mercoledì, settembre 09, 2020

Siamo tutti musicisti, siamo tutti cantanti

 Ebbene sì, anche se vi può sembrare impossibile, siamo tutti musicisti e cantanti, nessuno escluso! Anche gli stonati? Sì; anche quelli che non sanno andare a tempo nemmeno con la banda che suona la marcia? Sì. Se uno vi chiede: "ma tu sei un musicista?" voi potete rispondere tranquillamente di sì, e lo stesso vale per chi vi chiede se siete un cantante. E potete anche rispondere: "pure tu!" Per non essere musicisti e cantanti bisogna non essere umani, oppure avere una grave patologia, per cui si è del tutto sordi dalla nascita. Diverso è essere artisti. Allora la frittata si rovescia, per cui anche persone che si definiscono musicisti, nel senso che hanno studi, diplomi, esperienze, possono non essere artisti. L'uomo, in quanto uomo (ovviamente anche donna), è automaticamente esso stesso musica. L'essere intonati o stonati non ha alcuna importanza, così come avere "il ritmo nel sangue". Chiunque, magari anche solo in momenti molto particolari, dovrà o potrà esprimersi affettivamente o sentimentalmente o espressivamente o drammaturgicamente con una sua musica e lo farà con la voce, quindi cantando. E sarà veramente musica, anche se stonando e non avendo alcun parametro ritmico che definiremmo corretto. La necessità comunicativa interiore del soggetto sarà comunque assolta. Questa possibilità è propria dell'umanità, quindi del suo stadio evolutivo. Quindi esistono le condizioni affinché si possa manifestare questa possibilità espressiva, che però non assurge a livello artistico. Qualcuno può trovarsi nella straordinaria condizione di poter cantare o suonare con invidiabile bravura. Tranne il caso, che possiamo escludere a priori perché si tratterebbe davvero di un'eccezione strabiliante, di un soggetto già evoluto a un grado superiore a quello umano comune, non possiamo parlare di un artista "nato". Possiamo invece parlare di soggetti "predisposti" a evolversi, ma comunque in una situazione difficile, perché necessitano di un ottimo maestro che li sappia guidare a quello stadio. Cosa estremamente difficile, perché chi si trova con una forte predisposizione difficilmente accetta di fare un percorso di studio molto impegnativo. E sarà invece molto pronto a buttarsi allo sbaraglio e a bruciarsi. Vediamo continuamente concorsi e show con la presenza di bambini dotati di incredibili doti (oggi con internet ne possiamo vedere frequentemente); ebbene questi fenomeni che fine fanno? I bambini si trovano in una situazione del tutto eccezionale, dal punto di vista creativo, cioè sono piccoli artisti e potenzialmente molto prossimi a diventarlo effettivamente, ma quella "muta", quel periodo adolescenziale crea una sorta di retrocessione ad una condizione più animale; si può dire che quella profusione di ormoni richiami l'uomo alla sua condizione fisica e istintiva di perpetuazione della specie. Questo periodo potremmo definirlo involutivo; ho potuto constatare dal vivo questo fenomeno, che naturalmente come tutti questi processi è alquanto soggettivo e variabile, per cui, fortunatamente, in diversi casi riesce a superare il momento e a mantenere la passione, o addirittura accentuarla, e quindi a tenere viva la fiamma, l'interesse e le capacità, anche se non di rado risultano più "annebbiate", ma con la possibilità di riprenderle e rinforzarle grazie alle maggiori doti intellettuali, fisiche e psicologiche della maturità e dell'esperienza. Però ricordiamo anche che tra la condizione spontanea e quella artistica, pur così distanti, c'è una relazione importante; proprio quella spontaneità e quella realtà "naturale" dell'essere musicisti e cantanti per nascita, dovrà essere la medesima quando si accederà all'arte, solo ... al quadrato! Tutto ciò che c'è in mezzo, cioè tutto l'apprendistato, tutti gli anni di studio... via! La scala che ci ha condotto alla perfezione, va abbattuta. Rimane quella stessa condizione nativa, semplice, comunicativa. Noi siamo cambiati: invece di trovarci allo stadio 1, siamo saliti al grado 2, cosa che apparentemente non mostra alcun segno. Il cambiamento sta nel fatto che quando vogliamo emettere un canto di qualunque tipo, la nostra voce sarà quella di un cantante fatto, senza pensieri di "impostazione". Non esisteranno più scalini di alcun genere, non ci sarà alcun pensiero, alcuna "posizione", luogo, necessità "tecnica" da assolvere. La semplice volontà  sarà sufficiente. Non significa propriamente far ciò che si vuole, bisogna avere accortezze e prudenze, perché siamo uomini anche nel senso "animale" e anche se giunti a un certo punto una involuzione non è più pensabile, il nostro corpo è comunque soggetto a un logoramento che può incidere sulla qualità e la tenuta di qualunque voce. Insomma, come ho detto molte volte, bisogna un po' tornare bambini, e riprendere contatto con quel mondo irrazionale e spontaneo che ci guida nei primi anni di vita.  

domenica, settembre 06, 2020

Il canto lungo

 La differenza sostanziale tra il parlato e il canto sta nel fatto che il parlato è costituito da tante cellule mentre il canto è, o dovrebbe essere, una linea continua che si interrompe solo nelle prese di fiato.

Questo è un po' il motivo per cui la maggior parte degli insegnanti di canto insiste fin dall'inizio sui vocalizzi, in quanto essi si prolungano per tutta un'arcata di fiato. Questo però porta all'insorgere di un grosso problema, cioè ci si convince che il parlato è difettoso perché interrompe il flusso di fiato e quindi "è nocivo" e bisogna puntare sulla continuità del suono, sminuendo la pronuncia delle consonanti.

Poveri gli antichi maestri, tanto acclamati dai "maestroni" odierni, e traditi totalmente in fase pratica! Non solo gli antichi, ma anche i "vecchi" maestri davano un'importanza capitale alla pronuncia e iniziavano lo studio del canto proprio dall'esercizio sillabico e fraseggiato. 

L'esercizio basato su brevi frasi o su cellule sillabiche ha lo scopo di abituare l'allievo a non separare le consonanti dalle vocali, a non dare colpi sulle vocali, ma a fondere tutto in modo che si crei una sonorità omogenea, quello che si vuol anche definire appoggio. 

Nella frase, poi, la continuità deve riguardare tutta la frase: "framartinocampanaro". Un esercizio utile consiste nel pronunciare molto lentamente la frase senza lasciare il più piccolo spazio tra una lettera e l'altra, anche sostando qualche istante sulle consonanti per rendersi conto che tutto prosegue senza interruzioni. Questo può essere considerato un "legato", che ha un ben preciso significato musicale; questo legato ha una parentela con il legato musicale, ma non è la stessa cosa.

Se eseguiamo la stessa frase su più note, ad esempio tre, la pronuncia corretta e musicalmente non legata, fa sì che ci si sposti sulle note successive legando la pronuncia, ma passando sulla nota senza fare il minimo portamento di suono. Questo salto tra una nota e l'altra verrebbe pieno di accenti e disomogeneità se non ci fosse un ottimo legato della pronuncia.

Viceversa, in base alla qualità del legato musicale che è necessario ottenere (e questo dipende dall'autore, cioè dall'epoca e dallo stile, e dal contesto dell'aria, indicato solitamente sullo spartito) noi andremo a fare un portamento più o meno accentuato. Per imparare il legato musicale, c'è un esercizio, non subito facilissimo per tutti, che consiste nel portare la vocale sulla nota successiva prima della sillaba. Cioè, riferendomi alla frasi anzidetta, faremo: fra-a-ma-ar-ti-i-no-o-ca-am-pa-a-na-a-ro-o. In questo modo impareremo a passare in modo più melodico da una nota all'altra. Poi toglieremo le vocali intermedie ma dovrà rimanere il senso di legato. Come dico spesso, nel canto è sempre sottinteso un legato forte, quasi un portamento continuo, anche nel sillabato più accentuato. Questo non dipenderà da una tecnica, ma dalla continuità che il nostro fiato avrà imparato ad assicurare, alla base, e alla libertà che avremo raggiunto o fatto raggiungere alla nostra voce.

venerdì, agosto 28, 2020

Oltre il fiato

 Si fa un gran parlare di canto sul fiato, e anche in questa scuola non si scherza! Peraltro ho sempre specificato alcuni aspetti che possono anche confondere. Adesso cercherò di riprendere e specificare meglio cosa si intende e forse anche correggere qualche idea in proposito, soprattutto per evitare di indurre in errori. In fondo anche negli aspetti propedeutici e informativi bisogna... TOGLIERE!, semplificare.

Il fiato per questa scuola è l'alimentazione di suoni puri. Il fiato fisiologico non possiede in natura le caratteristiche per poter assumere questa condizione, e anche qualora le possedesse, molto eccezionalmente, è destinato a perderle se non sottoposto a una disciplina che porti a coscienza il  processo evolutivo che sta alla base di questa condizione. 

Il fiato, in quanto flusso aereo, quando tutto è corretto raggiunge le corde vocali, dopodiché cessa la sua funzione, in quanto fiato, perché totalmente trasformato in suono. A questo punto molte persone lo trattano come un oggetto fisico, che si può modificare, muovere a piacimento, ecc. La qual cosa non è vera e non è corretto perseguirla. In questo senso noi suggeriamo di continuare a trattarlo come fosse ancora fiato. Questo contribuirà a mantenere quella fluidità, continuità, leggerezza che una vera e importante voce deve possedere.

Siccome molte persone fanno molta fatica a staccarsi dall'idea fisica, muscolare dell'emissione vocale, specie se hanno frequentato scuole che hanno rafforzato questa modalità, si insiste sul "soffiare", alitare, sospirare, ecc. Questo sicuramente aiuta e porta gradualmente a una vocalità sempre più aerea e meno fisica. Per contro può verificarsi che si inserisca nella vocalizzazione un po' di fiato insonoro, il che inizialmente può aiutare, pur considerando che è un errore, ma che non dovrebbe proseguire. Interessante e più importante può essere (esercizio che potremmo già definire virtuosistico) il trasformare un alito, un sospiro, completamente in suono vocalico, cioè eliminando ogni residuo aereo, senza alcuno scalino. Ciò che definisco un "condensare" il fiato in voce. 

Questi input fanno parte del processo didattico, ma come tutto ciò che esula dall'esempio, cioè che ricorre a parole e immagini, è fondamentalmente erroneo e induce in errore. Questo sempre perché parole e immagini sono filtrate dalla nostra mente razionale e ricondotte quindi a procedimenti compatibili con il suo funzionamento, che è ovviamente diverso e distante dal sistema creativo-metafisico da cui dipende la nostra sfera artistica, cui dobbiamo attingere se vogliamo puntare a un risultato di questo tipo. Infatti un approccio particolarmente incentrato sull'idea del fiato, rischia, come si diceva, intanto di mantenere una parte sempre attiva di fiato mescolato al suono, il che oltre che erroneo può anche portare a problemi, in secondo luogo può allontanare o creare erronee percezioni della pronuncia.

E' sempre indispensabile sottolineare che la pronuncia vera e priva di difetti è davanti, esterna, lontana dal corpo. Se la pronuncia è "inquinata" dalla presenza di fiato insonoro, darà luogo a un'altro tipo di pronuncia, che può lontanamente assomigliare alla vera pronuncia, ma naturalmente non lo è e può allontanare dalla conquista del vero. La pronuncia, quindi la voce vera e perfettamente alimentata, è STACCATA non solo dal corpo, ma persino dal fiato. Il fiato, infatti, pur essendo la parte più immateriale del corpo, è ancora qualcosa di fisico, che soprattutto la mente razionale vuole governare a modo suo, cioè facendo riferimento alla parte muscolo-scheletrica, non sapendo e non avendo riferimenti su qualcosa di immateriale. Quindi noi dobbiamo, a quel punto, passare a un livello ancora superiore, cioè OLTRE IL FIATO.

Più avanti del fiato, cioè dove regna il mondo dell'impalpabile e ingovernabile fisicamente, c'è il mondo della PAROLA, della vera e libera pronuncia vocale artistica musicale. In questo senso noi possiamo parlare veramente di una vocalità e di una sintesi musica-parola. E' chiaro ed evidente che oltre il fiato c'è la libertà, non essendoci più alcun veicolo fisico di supporto. Noi possiamo "volare" grazie alla parola, cioè l'elemento che la natura ci ha fornito per poterci elevare spiritualmente. E' vero che la parola necessita di suono, il suono di fiato e il fiato di un complesso muscolare di base, ma questi li possiamo considerare degli "stadi" che progressivamente si staccano e si perdono, ovvero che noi uno alla volta superiamo e lasciamo nel corpo, per librarci nel volo libero. 

Questo comporta, durante il processo di acquisizione, che ogni stadio tendiamo a trainarlo in quello successivo. Non vogliamo lasciare il corpo per passare a qualcosa di più rarefatto, come in un processo di sublimazione. Quindi dal grande corpo al fiato è già un procedimento "doloroso"; staccarci dal fisico è per la nostra mente qualcosa di sbagliato, persino impossibile, quindi ci induce a rimanerci attaccati come a qualcosa cui non vogliamo e non possiamo rinunciare. Questo è uno dei fondamentali problemi dell'approccio a un vero canto artistico! Ma anche passare a un canto più etereo, più leggero e raffinato, non è sufficiente per raggiungere l'arte vocale. 

Quindi noi possiamo individuare tre stadi: 1) lo stadio respiratorio, 2) lo stadio sonoro, 3) lo stadio verbale. Il fiato NON DEVE spingere, premere o essere trainato, ma deve mantenere la propria sede senza alcuna particolare dinamica, quindi le varie tecniche respiratorie dovranno essere abbandonate, perché non ci deve essere coinvolgimento diretto. Il fiato deve essere fatto evolvere ad alimentazione di suoni puri mediante l'opportuna disciplina, ma deve rimanere calmo come un lago, privo di pressioni in qualsivoglia direzioni. Quindi in relazione con il suono, essendone generatore, ma non arrivando a disturbarlo. 

Il suono a sua volta è una vibrazione anonima, cioè non possiamo definirla ancora voce, perlomeno non nel senso vocale artistico. Anch'esso deve rimanere calmo e fermo nel suo luogo di origine, cioè lo spazio oro-faringeo; non deve essere premuto dal fiato, e non deve essere trainato dal suono vocale-parola. E' solo un materiale sonoro cui il terzo stadio attinge per procurarsi il materiale da elaborare. Ogni spinta o movimento è da considerarsi un errore. Il suono preleva fiato per potersi generare e dona suono per poter generare parola cantata.

Il terzo stadio, il più lontano da conquistare, veramente solo frutto di una processo disciplinare gnoseologico, è il mondo della parola perfetta, della libertà più assoluta (ovviamente compatibilmente col fatto che siamo esseri fisici, quindi non possiamo arrivare a una condizione disumanizzante, trascendente questo stato, per cui ci arriviamo per stadi successivi). Se conquistiamo e consolidiamo il mondo della parola elevata a canto, noi ci troveremo a cantare con assoluta libertà nel quadro della nostra capacità soggettiva (intesa come estensione-tessitura, volume-intensità, colore-timbro). Solo quando si raggiunge questo stadio si comprende veramente cosa vuol dire "parlar-cantando", cioè esprimere musicalmente un testo; ovviamente anche la qualità della musica e del testo sono importanti per poter addivenire a un canto artistico completo.

mercoledì, agosto 19, 2020

l'approccio al canto artistico

Mi accorgo, col tempo, che in questi messaggi sono sempre "avanti" e invece è importante insistere sugli aspetti iniziali, sull'approccio, sulle premesse, che spesso e volentieri sono utili anche agli allievi più avanzati. E' vero in quanto nel tempo nelle varie scuole di canto si sono consolidate delle metodiche affini a quelle strumentali, il che non va bene, perché il canto è un'altra cosa. E se, in ogni modo, il canto è un'altra cosa, il canto artistico, cioè non semplicemente quello classico, lirico, operistico o come meglio credete, ma quello poggia su solide basi ontologiche, filosofiche, metafisiche, immateriali, ne richiede di ancor più peculiari. 
Potrei dire: lasciate perdere tutto ciò che sapete, che avete letto, sentito, azzerate, resettate, svuotate. Se riuscissimo a partire da qui (e la cosa vale per qualunque attività che possa rientrare in un ambito artistico serio) avremmo già fatto una conquista. Avendo avuto la fortuna e l'opportunità di insegnare a ragazzi molto giovani, ho potuto verificare che non è solo un'ipotesi. Ma anche questo non basta, perché lo stile di vita del mondo in cui viviamo ci induce comunque a caricarci di idee che anche se non collegate direttamente con quello del canto, influiscono, e non poco, sul modo di approcciarci a esso. Tecnica e impazienza sono i primi e quasi ineliminabili meccanismi mentali e non a cui si soggiace. Pensiamo, perché ce l'hanno fatto pensare, che per cantare bisogna svolgere delle attività fisiologiche e meccaniche, e siamo sempre in attesa che l'insegnante ci sveli il segreto: cosa devo fare? E naturalmente gli insegnante ben volentieri si prestano a rispondere con i vari: gonfia lì, spingi là, tira così, alza di là, ecc. ecc. quindi cosa si vuole di più? Sono contenti e soddisfatti tutti e due. E, di conseguenza, non ci vuole nemmeno tanta pazienza, perché appena si inizia ti danno subito delle ricette. Invece se l'approccio è: parla, migliora il parlato, non "cantare", non fare niente, a qualcuno può far storcere il naso; perché come si fa a non fare niente? che c'entra il parlato? sto fiato che non va gonfiato, non va spinto, ... dopo un po' mette a dura prova la pazienza. 
Allora emergono le due parole più importanti: riconoscere e accettare. Queste sono le parole chiave per accedere alla consapevolezza. Rinunciare alle manifestazioni di esteriore propagazione sonora, che di artistico hanno poco o niente, per far emergere la vera potenza interiore, l'energia spirituale che partendo dalla parola elevata, si può aprire verso la sua massima libertà, e quindi luminosità e sonorità. Accettare e riconoscere vuol anche dire rinunciare: a fare cose internamente, a creare o costruire suoni mediante coinvolgimenti muscolari interni, a fare tecnica, a fare in fretta... Accettare cosa? la semplicità, l'elementarità dell'approccio. Dire le cose che sono scritte in un testo musicato rendendosene conto! Il canto che va per la maggiore, nel migliore dei casi riesce a farsi capire, ma non comunica realmente un contenuto, che fortunatamente è spesso rivestito da grande musica che riesce a veicolare almeno in parte. E invece accorre saltare al di là delle nostre normali capacità per far sì che la parola si capisca nel profondo "nonostante" il canto. Quanto il maestro deve insistere perché quella parola, cioè tutto ciò che c'è in quella parola (e poi quella frase) sia veramente "così", come nel caso della recitazione. E invece c'è sempre quella E che non è vera, quella A che non ha niente a che vedere con una vera A, e così via, e poi comunque anche quando sono a posto tutte le vocali, ci sono le consonanti, e quando è tutto a posto, quella parola non si lega con la precedente o la successiva, e anche quando si legano non ci trasportano il senso vero del discorso, e allora insistiamo. Tutto questo cosa può avere a che vedere con "alza il velopendolo", premi sulla pancia o sulle reni...? metti in maschera, gira....? un bel niente. Gli allievi di canto a cui si insegna che prima di tutto c'è la parola, si ribellano, perché questo sembra canto "leggero", cioè quello dei "canzonettari", confondendo l'approccio con la disciplina, e quindi con i risultati. Il canto spontaneo è un'ottima base di partenza, specie se si hanno delle doti in quel senso. Non per nulla molti dei buoni cantanti di questi ultimi tempi provengono dalla musica leggera. La parola, in quel campo, è importante e viene coltivata. Chi vuol far lirica pensa che allora quando si capiscono troppo le parole si sta facendo musica leggera e si vergogna e cambia strada. Il canto lirico, per loro, è suono, un certo tipo di suono, che disgraziatamente il più delle volte è un suono di gola, orrendo ma che è entrato nell'immaginario collettivo come, invece, qualcosa di importante, di "artistico". E invece è "infinocchiare". Sapete perché si dice infinocchiare per intendere imbrogliare? anticamente gli osti che mescevano il vino, prima di servire la bevanda offrivano qualche pietanza agli avventori per non farli bere a stomaco vuoto, e spesso questa era costituita da un piatto di finocchi. Ma i finocchi riescono a nascondere il vero sapore del vino, che spesso era di mediocre qualità. Ma potremmo fare tanti esempi: i coloranti, il sale e lo zucchero, che ci nascondono il reale sapore delle sostanze che beviamo o mangiamo. Sentite uno dei tanti cantanti di inizio XX secolo che "parla" cantando, come si voleva in epoca rinascimentale, quando quest'arte potremmo dire ebbe inizio (in realtà la cura della voce, cantata o meno risale alle origini stesse dell'uomo...). L'uomo "moderno" si crede molto furbo, molto intelligente, perché c'è la scienza che studia e approfondisce, ma la scienza divide, spezzetta ed è del tutto incapace di studiare e cogliere ciò che è l'arte, per il semplice motivo che arte e scienza stanno da due parti opposte dell'essere umano, la scienza sta nella parte razionale, cerebrale, l'arte sta nella parte creativa, metafisica. Dunque sono inconciliabili, perfino opposte, e chi vuol far arte deve sottostare ai principi dell'arte, non di una scienza che non è in grado di soppesare le potenzialità evolutive dell'uomo. Se non si accetta e si riconosce che il fiato, tramite la parola, può evolversi a livelli inimmaginabili, ha già fatto una scelta di basso livello, forse utile per "fare qualcosa", ma non certo per fare arte. Non ci si sta accorgendo che stanno sparendo i cantanti mitici, dove può essere oggi un Gigli, un Pinza, una Ponselle, una Stignani, un Basiola? Quante persone ho già sentito che non vanno più volentieri all'opera perché le voci non sono più interessanti? oggi il pubblico dell'opera è sempre più superficiale; si va per curiosità, per un discorso banalmente culturale, ma la passione diventa sempre meno legata alla fruizione. Aspiranti cantanti, con buone doti, che scelgono la strada del lavoro "sicuro" non sono un buon segnale, e l'imperversare di regie inguardabili, giusto per motivare (perlopiù scandalisticamente) frange di spettatori, nemmeno. Ma insisto nell'esortazione a seguire la via dell'arte. Alcuni segnali "umanistici" di questi ultimi tempi mi stanno un po' rincuorando e forse qualche segnale di ripresa sta apparendo. Crediamoci.

martedì, agosto 18, 2020

L' A negletta

 Perché in tante scuole di canto odierne la vocale A è bandita o limitata nella sua pronuncia a una O un po' più aperta? bisogna chiederselo e saper rispondere per comprendere ciò che anima le varie impostazioni vocali. In primo luogo c'è il fatto che questi insegnanti hanno una visione del canto unicamente interna, cioè non concepiscono la formazione esterna delle vocali. Questo è un problema e una grave limitazione, ma spesso aggravata da un'altra limitazione, questa più legata a singole scuole, e cioè non aprire, o solo parzialmente la bocca. Cercheremo di esaminare anche questo. 

Come è evidente, la A è la vocale che richiede la maggiore ampiezza. Per questo, nel canto spontaneo quando si pensa di cantare su una A si apre molto la bocca. In realtà nel parlato semplice difficilmente si apre molto. Questo deve far riflettere. La questione a questo punto è già chiara: se non si apre la bocca non si può cantare una A piena, specialmente forte e/o acuta; peraltro anche aprendo completamente la bocca la A apparirà molto fisica, gutturale, proprio per l'impegno muscolare che comporta quest'azione. Se poi secondo l'insegnante la bocca è meglio non aprirla molto, allora anche da un punto di vista interiore la pronuncia della A sarà quasi impossibile. La cupola palatina è alta, ma non abbastanza per consentire l'ampiezza completa di quella vocale. L'unico spazio che può consentire la vera pronuncia della A è quello esterno alla bocca. Però non finisce qui. Qualcuno potrebbe dire che per la pronuncia delle altre vocali lo spazio interno è sufficiente. In teoria, forse, ma in realtà la perfetta pronuncia delle vocali richiede lo stesso spazio della A, ecco perché la inseriamo quasi sempre negli esercizi.

Approfondiamo l'altra questione: perché alcuni insegnanti non vogliono che si apra molto la bocca? In fondo è semplice: ritengono che la differenza di apertura orale nelle varie vocali le renda estremamente differenti e quindi si produca un canto eterogeneo, inoltre pensano che aprendo la bocca il suono "cada", cioè perda appoggio. Questo fa anche il paio con la questione della "maschera", cioè immaginando che la voce si formi nella zona superiore della testa, diciamo oculare, aprire la bocca significherebbe abbassare il suono (e infatti così si dice), cioè perdere l'immascheramento o appoggio in maschera. Naturalmente è tutta una fantasia astratta e priva di fondamento, o meglio, è una cosa che in parte può essere realizzata, ma a costo di seri difetti. 

Aprire la bocca è importante nelle prime fasi dell'apprendimento del canto; occorre che il fiato conosca gli spazi e impari a percorrerli. Le forme chiave delle vocali devono essere apprese, per poi essere... dimenticate. Una volta che la voce può liberarsi ed esercitare la sua azione vocale all'esterno, questo "smascellamento" non solo non sarà più necessario ma anzi dovrà essere ricondotto a quello del parlato semplice, salvo particolari momenti di notevole intensità in zona acuta. 

Se si partisse sempre da una corretta pronuncia, senza "mascheramenti" e mescolamenti, il fiato si svilupperebbe in modo più corretto e tutto il canto ne avrebbe un notevole giovamento. Invece in questo modo si deve quasi sempre ricorrere a trucchi e artifici che minano la purezza della voce e il suo pieno controllo musicale. 

venerdì, agosto 14, 2020

l'applicazione

 Capita piuttosto frequentemente che le due parti di una lezione, cioè gli esercizi e l'esecuzione di arie, risultino anche notevolmente diverse tra loro; raramente succede che non si facciano particolarmente bene gli esercizi mentre risulti più efficace l'esecuzione di brani mentre molto più spesso succede, parlo soprattutto di allievi che frequentano già da un po' di tempo, che le arie, che cominciano ad essere anche di un certo impegno, risultino più difettose. Da un certo punto di vista ciò può essere normale, perché mentre gli esercizi si articolano su moduli semplici, da una nota a piccole scale o arpeggi, il canto vero e proprio imponga la necessità di salti in varie direzioni, cambi di vocali, necessità espressive, dinamiche, molto più complesse. Per questo esistono delle metodiche di studio che vengono applicate e consigliate, tipo cantare l'aria su una tonalità più comoda, cantarla su una o più vocali, premettere all'esecuzione dell'aria degli esercizi da svolgere con scale e arpeggi semplici sul testo dell'aria, ecc. Ma anche questi non sempre danno risultati particolarmente fruttuosi. Esiste innegabilmente una psicologia della lezione, che penso riguardi anche lo studio degli strumenti, per cui tra la parte di studio, definita "tecnica" e la parte del canto, definita "applicativa" viene avvertita una differenza che il più delle volte influisce negativamente. Intanto dobbiamo dire, in riferimento all'esempio fatto poco fa, che tra lo studio di uno strumento e lo studio vocale c'è una differenza abissale. Il pianista o il violinista o altro, deve realmente compiere un lungo e talvolta massacrante lavoro tecnico soprattutto di natura digitale, pur non dimenticando che anche in questa attività c'è un forte e importante coinvolgimento artistico, spirituale, che deve emergere e superare i limiti fisici, ma essendo gli strumenti esterni all'uomo e inventati, con varie limitazioni, c'è la necessità di adattarsi a uno strumento che non risponde a dei canoni naturali. Il canto è diverso, lo strumento è nostro, fa parte del nostro corpo e tutto ciò che si relaziona con esso, fiato, muscoli, cartilagini, ossa, fa parte del nostro funzionamento naturale, e non dobbiamo (NON DOBBIAMO) inventarci niente, non dobbiamo pensare di studiare delle tecniche e delle modalità per farlo funzionare di più o meglio di quanto non faccia; l'unica cosa che dobbiamo fare è innescare un processo evolutivo che porti il canto (fiato) a dare il meglio di sé, la qual cosa non è prevista naturalmente perché il canto non ci serve per vivere e sopravvivere, e nemmeno comunicare (basta la parola). E' una necessità spirituale che quindi richiede un approccio anche di tipo filosofico, ovvero una conoscenza metafisica che ci porti a conoscere i fondamenti dell'arte (vocale, in questo caso) e che quindi ci conduca a portare il canto a un livello di coscienza pieno e a farlo elevare a nuovo senso, diventando in questo modo naturale, cosa che istintivamente non è e non può essere. Per far questo, ricordo, è necessario superare, abbattere, l'ego, che è l'ostacolo più ostico che ci si presenta quando ci si approccia a un'arte. 
Anch'esso ha di certo una responsabilità nel discorso che sto affrontando. Gli esercizi sono considerati una ginnastica, un allenamento finalizzato a metterci in condizione di dare migliori risultati, ma quando si passa al canto, viene fuori la nostra passione, la nostra volontà di farci sentire, di farci valere. E quindi l'ego non se ne sta lì inerte, ma comincia a gonfiarsi e a intromettersi nella nostra attività, non accontentandosi di quella voce semplice, banale, che si usa negli esercizi, ma deve indurci a realizzare una voce veramente importante, lirica, potente, vibrante, bella, sonora, forte... Questa possiamo considerarla la problematica più imponente. Per questo questa scuola è difficile e con un futuro assai incerto, forse buio. Bisogna infatti comprendere che tra la prima e la seconda parte di una lezione non esiste una reale differenza! L'unica differenza sta nel fatto che la prima è più semplice (ma non tutti saranno d'accordo), per "mettere in moto" il fiato e far sì che possa portarsi alla migliore condizione possibile quando si affronta la seconda. Ma spesso e volentieri invece la prima parte risulta difficile perché non si riesce a entrare in quel mondo di semplicità, di rilassamento, di accettazione dove non c'è da fare niente, se non metterci sincerità in quello che stiamo facendo, senza cercare meccanismi, senza esagerare ogni movimento; questo porta a stanchezza e comunque a non mettere in relazione gli esercizi con l'applicazione. L'esercizio, nel canto, E' CANTO, è da considerare già un'aria, e l'uso della parola, che viene, almeno in parte, sempre impiegato, deve essere applicato con la stessa verità che si dovrà poi usare nel canto. Quando gli esercizi sono fatti bene, possono dotarci di una voce particolarmente pura, aerea, libera, il che, quando si andrà a cantare, non piacerà (soprattutto all'ego) perché ci sembrerà "diversa", non adatta a quella dei cantanti lirici imperanti, troppo banale, che poi non si sentirà in un grande ambiente. Non ci rendiamo conto, cioè, di avere in mano realmente uno strumento divino, che proprio per la sua facilità e purezza, è quello giusto e indispensabile per far arte. Con i rumori della gola, con le frizioni, gli ostacoli che si creano in gola, in bocca e in ogni altro spazio e organo coinvolto si fa solo una misera imitazione del canto, siamo costretti a spingere, a gridare per cercare di farci largo tra gli ostacoli, non rendendoci conto che in questo modo li stiamo creando noi!. Però c'è un elemento che dobbiamo altresì indicare: la paura. Nel momento in cui si fanno degli "innocui" esercizi, la persona si sente coinvolta in un processo di apprendimento, come quando si studia una lingua, finché si tratta di memorizzare termini, di studiare i verbi, ecc., può andare tutto bene, ma quando si passa a parlare, a dover ricreare circuiti di formazione di frasi, di fronte a chi già sa parlare quella lingua, il blocco è quasi automatico. Quindi si deve affrontare il muro della paura, che qualcuno pensa sia limitato al campo degli acuti, che certamente impegnano di più e possono più facilmente nascondere le insidie che portano a steccare, stonare o ottenere cattivi esiti, ma che in realtà entra in azione ogni qualvolta affrontiamo qualcosa che non è compresa dalla nostra ragione, cioè non fa parte della nostra parte razionale e fisica, ma proviene dalle nostre esigenze spirituali. La soluzione è quella di "scendere", di non vergognarsi di fare cose banali, di mantenere quella umiltà, semplicità, degli esercizi, cioè non illudersi che passando da una parte all'altra si entra nel mondo holliwoodiano, fatto di luci ed effetti speciali, ma si rimane con i piedi per terra, su un normale pavimento e in una semplice stanza, dove si può e a volte si deve sbagliare, ma dove è anche necessario sperimentare e provare a sé stessi che l'evoluzione c'è e la si persegue e qualunque volontà di far sentire che abbiamo una voce, abbiamo un talento, dei mezzi speciali, è destinata a rallentare il nostro percorso, a farci tornare indietro e a impedirci di conquistare l'arte. E' una lotta dell'animale contro il divino che c'è in noi, e non dobbiamo permettergli di intralciarci i piani, consentendogli di farci credere ciò che non siamo.