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giovedì, gennaio 23, 2020

L'allievo passivo

Paradossalmente potremmo dire che non esiste il maestro e non esiste l'allievo. Esiste un confronto tra due persone dotate di una coscienza e di una pulsione verso un certo ramo dell'arte. Se è vero che l'allievo si proietta nel maestro per recuperare quella parte di consapevolezza che rende oscura la sua coscienza, è anche vero che pure il maestro si proietta nell'allievo perché anche l'insegnamento è un'arte, dunque anche se ha piena consapevolezza dell'arte canora che ha conquistato, non è detto che abbia raggiunto lo stesso livello nell'insegnamento, e si confronta e riconosce nei progressi o meno dell'allievo il suo livello. Quindi è erroneo pensare che il maestro sia in cima a una montagna e l'allievo in fondo; è erroneo pensare che il maestro sia un vaso pieno e l'allievo un vaso vuoto e ci sia una trasmissione, un "riempimento" in senso unilaterale. Però non posso nemmeno dire che siano allo stesso livello, dipende da come i due soggetti vivono il rapporto. L'insegnante pieno di sé, che è convinto di essere il non plus ultra nel  suo campo (nel nostro caso il canto) e che l'allievo sia sempre un testone, indegno, ecc., in realtà è un pessimo insegnante e se ci saranno dei buoni risultati saranno solo per i pregi dell'allievo. Ma se l'allievo vive passivamente le lezioni, pensando che il suo ruolo sia solo quello di fare ciò che dice l'insegnante, ascoltare e "imparare", anche a memoria, non è un buon allievo, e avrà pochi meriti nei suoi progressi. Specie in una disciplina così composita e delicata come il canto, il ruolo dell'allievo deve essere quanto mai interagente e riflessivo. Come ho spiegato spesso, e contrariamente a quanto si fa comunemente, non è l'esercizio continuo e meccanico che porta ai risultati importanti. Darà risultati, certo, perché l'allenamento porta a "piegare" l'istinto entro i suoi margini di tolleranza, ma sono risultati di poco conto ai fini artistici. Il mio maestro molto spesso diceva: "agli allievi io propongo la lezione intelligente, impegnativa, e la lezione dell'asino. Tutti scelgono la prima, ma si finisce sempre per fare la seconda". Certo, è motivo d'orgoglio pensare di fare la lezione intelligente, ma si è in grado di sostenerla? Una disciplina artistica è davvero una dura battaglia che richiede un coinvolgimento totale del nostro essere. Quindi meglio sottoporsi a esercizi continui e ripetitivi, che richiedono modesto coinvolgimento mentale profondo. L'allievo deve sperimentare, deve porsi e porre domande. Non deve trattenere i propri dubbi! Ho spesso l'impressione che ci siano dei dubbi che non vengono espressi, e tenerli per sé vuol dire non progredire, o rimandare a chissà quando la soluzione. A volte bisogna anche esprimere certe perplessità (che non significa contestare). Ma per avere dei dubbi bisogna anche porsi delle domande, interrogarsi su ciò che si sta facendo. In questa scuola il "fare" non significa agire fisicamente. Ciò che c'è da fare a livello fisico è davvero poca cosa, e non riguarda comunque qualcosa di innaturale, di inventato, di artificioso, ma, al contrario, il fare ciò che si fa normalmente, soltanto che quando si canta si "perde" la cognizione di quella normalità. Ecco perché devo dire che il canto non è naturale, ma lo diventerà quando si sarà acquisita quell'evoluzione respiratoria che ce lo permetterà. Se l'allievo contesta il maestro, perde la fiducia, non è più in grado di interagire con lui, quindi il rapporto deve finire. Ma anche il maestro deve avere fiducia nell'allievo, se non avverte contestazione, e sa che se i risultati non arrivano è una sua responsabilità, proprio perché in quella proiezione o c'è la sicurezza e quindi la consapevolezza, o ci sono i "buchi", e quindi gli insuccessi. La felicità si raggiunge quando ognuno interpreta correttamente il proprio ruolo, ovviamente, ma una certa cultura industriale ha creato la convinzione che l'allievo debba avere un ruolo passivo. Così non è, mai, ma soprattutto in campo artistico. Quindi ... sveglia!

Coscienza e consapevolezza

Questo post è destinato a correggere un errore o imprecisione che ho commesso spesso, cioè quello di confondere coscienza con consapevolezza. Talvolta ho detto a lezione: "io sono la tua coscienza che, mediante la comunicazione, la correzione degli errori e lo sviluppo che ti induco, riporto a te. Non è espresso bene. La coscienza l'abbiamo tutti, quindi non è che un allievo ne sia privo e io sì; ciò che manca all'allievo è la consapevolezza, relativa ovviamente al campo specifico d'interesse, che può essere la musica e il canto. La mancanza di consapevolezza è dovuta a diversi fattori, ma principalmente dobbiamo prendere atto che la coscienza si proietta all'esterno alla ricerca di quella parte di sé incompleta. Quando il m° Napoli disse: "il maestro proiezione di sé", pronunciò una verità incredibile! Altra frase formidabile è "quando l'allievo è pronto il maestro arriva". Tra coscienza e consapevolezza si crea una dualità, che nel tempo dovrebbero unificarsi. Perché ciò accada occorre riconoscere quella parte di noi che invece ci è oscura. La disciplina è la strada che ci conduce a quel risultato. Cosa si oppone, invece? Beh, piuttosto incredibilmente il più ostinato ostacolo ce lo crea la mente, o per lo meno quella mente che possiamo definire "concettuale". Poi, come è noto a chi frequenta le lezioni o questo blog, c'è l'istinto e c'è l'ego. La mente concettuale è quella parte dell'intelletto che non concepisce l'astratto e l'infinito, deve rifarsi a formule, a definizioni, a valori materiali, fisici, visibili, verificabili. Il canto artistico non risponde del tutto a questi concetti. L'istinto è quella parte che vuole preservare una singola specie dall'estinzione, ed è in possesso di un "programma" che agisce ogniqualvolta qualcosa di esterno cerca di attaccarci, e ogniqualvolta commettiamo o abbiamo intenzione di commettere azioni che potrebbe avere ripercussioni negative. Nel canto commettiamo azioni che lo allarmano e quindi provochiamo reazioni. L'ego riguarda il nostro desiderio di supremazia. Anch'esso è legato in qualche modo all'istinto. L'universo in tutte le sue manifestazioni, richiede diversificazione. Le cose identiche si annichiliscono, quindi devono differenziarsi. In questa diversificazione ci sarà qualcuno o qualcosa con un valore più alto e altre con valore più basso. L'ego è quella forza che ci spinge verso la cima della piramide, indipendentemente dalla consapevolezza, anzi, spesso contro di essa. Queste forze oscurano il cammino e rendono difficile il raggiungimento della meta. I motivi non sto a illustrarli qui, perché è una questione molto complessa che riguarda la conoscenza e non è il caso di percorrerla in questo ambito. Per cercare di riassumere: noi abbiamo una coscienza; essa si proietta all'esterno per cercare di riunificarsi con la parte di sé inconsapevole, e la cerca in campi verso cui si sente più attratta. Questo campo però può anche rivelarsi quello dove esplicare il proprio ego, che quindi diventa un terreno per esercitare manifestazioni di esteriorità con pochi o nessun contenuto, e soprattutto con poca o nessuna consapevolezza. Se si riesce ad abbattere il proprio ego, ci si spiana la strada verso la meta; la disciplina è invece destinata a dialogare con la mente, che di per sé non è votata allo stesso risultato, e può crearci (e ci crea!) degli ostacoli, ma può essere "domata" laddove le facciamo comprendere le nostre esigenze spirituali che non sono in contrapposizione con le nostre esigenze vitali.
In questa ottica c'è anche da riflettere sul giudizio. Noi, purtroppo, tendiamo a giudicare (sempre questione di ego). Siccome, però, esternamente c'è anche una proiezione di noi, che è quella più debole, tendiamo anche a giudicarci, e siccome quella esterna è la parte più inconsapevole, sarà fatale giudicarla negativamente. L'ego, in questo, ci protegge, perché non avendo consapevolezza delle nostre carenze, tendiamo anche a non giudicarci. Abbattendo l'ego noi assumiamo una forte responsabilità verso noi stessi che potrebbe farci male, ed ecco quindi che è molto importante, fondamentale, abbattere anche il giudizio. Allo stesso modo dobbiamo considerare l'insicurezza. Più è elevata l'inconsapevolezza, più insicuri ci sentiremo, a meno che il nostro ego non ci dia una falsa immagine di noi; togliendo questo velo noi ci accorgiamo di quanto abbiamo da crescere e questa cosa può darci sconforto e insicurezza. Come si combatte questa situazione? Con l'unificazione dei progressi. Ho spesso notato che alle prime lezioni gli allievi fanno grandi progressi e sono colmi di gioia e entusiasmo. Questo perché partendo da un'inconsapevolezza pressoché totale, aver dato spunti e informazioni ben fondate e aver fatto provare un approccio efficace, ho dato la possibilità di riunire alcuni dati della coscienza che erano oscuri, cioè divisi. Questo dovrebbe proseguire linearmente, ma così non è perché più si avanza più i "buchi" sono piccoli e riconoscerli è sempre più difficile.I motivi possono sembrare contorti e incoerenti, ma non è così. Per semplificare possiamo dire che la coscienza, ovvero la verità, da un lato ha bisogno di riconoscersi, e quindi crea le condizioni perché ciò avvenga, dall'altro però crea anche le condizioni per allontanare il momento di un riconoscimento importante, cioè non vuole essere completamente disvelata, e ciò avviene rarissimamente e sempre in condizioni per cui tale scoperta non è creduta, o da pochi, e mai in modo incontrovertibile, cioè oggettivo.
A questo punto noi dobbiamo arrivare a comprendere che ciò che noi cerchiamo, mettiamo il canto artistico, è già dentro di noi, noi già lo conosciamo e siamo in grado di esperirlo, ma questo comporta un dispendio di forze e di tempo enorme, anzi forse non c'è nemmeno sufficiente tempo. Dunque noi abbiamo bisogno di delegare a qualcuno la capacità di farci acquisire consapevolezza. La malattia potremmo considerarla una incosapevolezza, che però invece di risolvere personalmente, deleghiamo (come la maggior parte delle cose) a un dottore. Questo ci toglie un peso, ma non ci porta all'unificazione, perché restiamo inconsapevoli. Nell'arte questo non si dovrebbe mai fare, cioè delegare il maestro a risolvere un nostro problema. Noi dobbiamo puntare a diventare maestri di noi stessi assumendo consapevolezza, il che vuol dire, sempre più col passare del tempo, quali sono i punti oscuri, cioè porci domande: "come mai non riesco a far questo," "come mai questa cosa non viene?", "come posso risolvere questa difficoltà?", e sfruttando quanto già si è appreso, cercare delle soluzioni, o comunque proporle all'insegnante, e poi fare tante domande su tutto ciò che non ci è chiaro. Di questo parlo nel prossimo post

sabato, gennaio 18, 2020

In questo mondo di significanti

Prendo spunto da questo vecchio siparietto di Gigi Proietti per introdurre un tema importante. Interessa per questo discorso la parte finale, più di quella iniziale, cioè quando recita la poesia "il lonfo". 
Chi si è accostato alla recitazione, si sarà sicuramente imbattuto nella recitazione "insignificante", cioè dire cose utilizzando un "gramelot", cioè una sonorità che assomiglia a una lingua, ma che non lo è, oppure addirittura usando numeri. Qui Proietti lo utilizza come oggetto di divertimento, recitando una poesia senza significato, cioè tante parole inventante, dando però una intonazione e un'intenzione che ci fanno dare un sottinteso a questi suoni. Si possono creare interi spettacoli con questi mezzi, che però si devono basare sulla scena, perché se noi avessimo solo la parte verbale, dopo poco ci stuferemmo, non riuscendo a cogliere il significato.
E' quello che succede in alta percentuale nell'ascolto musicale. Noi ascoltiamo qualcosa che magari ci piace, ci dà sensazioni, ci dà "emozioni", ci appassiona, ecc., ma di cui non capiamo niente, perché è come se fosse scritta in una lingua sconosciuta. Allora o ci accontentiamo, e finisce che ci annoiamo, per cui cogliamo qua e la quello che ci piace di più e il resto lo ignoriamo (salvo magari dopo anni scoprire che c'è un altro punto che ci piace, ma che per anni è come se non avessimo ascoltato, ed è lo stesso motivo per cui scopriamo un certo interprete che ci fa sentire dei "particolari" che non avevamo mai notato), oppure passiamo alle interpretazioni. L'interpretazione, semplificando, è quell'attività che si esegue quando non si sa com'è una certa cosa. Uno degli sport più in voga è quello di sovrapporre alla musica un sistema di lettura più alla portata, come le immagini o le storie. Cioè rinunciare alla musica e ridurla al livello di un commento sonoro. Questo perché mancano gli strumenti di lettura e di appropriazione. Fin quando si percepirà un brano musicale come una sequenza di suoni, saremo obbligati a trovare un altro mezzo di lettura. Ma se ci poniamo nell'ottica che dietro ai suoni c'è un significato, cominciamo a cambiare chiave e ci rendiamo conto che non devono essere le immagini o le storie a guidarci, ma la musica stessa, che ha tutte le caratteristiche per portarci nel sublime, e non ha bisogno di surrogati, che, anzi, ci fanno proprio perdere il filo diretto. Noi stiamo vivendo sempre più in un mondo di significanti, che rischiano di uccidere i significati, che sono sicuramente più difficili da cogliere, abbiamo bisogno di pace e tranquillità, di intuizione, di maestri, di voglia e di impegno, cose oggigiorno sempre meno disponibili. Anche il canto artistico, e non da oggi, vive molto più del suo guscio esterno che non della ricchezza interiore. Chi tratta di voce parla molto più di "timbro" di "colore", di "bellezza", che non di ciò che porta con sé. Ormai da molto tempo, specie (spiace dirlo) in campo femminile, le parole restano l'ultima delle preoccupazioni, ma con strane dinamiche. Ho visto delle masterclass dove l'insegnante faceva leva su determinate parole chiave, ma non solo non dava importanza al fatto se quella parola era ben riconoscibile nel canto, ma spesso suggeriva delle modifiche di pronuncia per cui non solo era poco detta, ma addirittura distorta. Quindi la parola assumeva un significato astratto, che aveva importanza teorica, ma la escludeva nella realizzazione pratica. E questo perché la "tecnica" necessitava di determinate manovre che non permettevano la pronuncia esemplare, ma questo, secondo loro, era comunque prioritario, quindi il significante a un livello più alto del significato. Certo che la struttura è fondamentale, perché senza di essa crolla tutto, ma la struttura deve essere finalizzata a sostenere un determinato risultato, e non a distruggerlo o distorcerlo. Quindi se la tecnica mi impedisce o mi rende enormemente gravoso pronunciare in modo esemplare il testo, quella tecnica è sbagliata! Si fa un ragionamento al contrario, siccome si ritiene giusta la tecnica, si sacrifica il contenuto. E' realmente un assurdo, un controsenso, eppure le cose vanno così! Siccome la fine è contenuta nell'inizio, noi vediamo che la maggior parte degli insegnanti come inizia le lezioni?Con i vocalizzi, cioè con qualcosa che ci servirà nella parte più virtuosistica, più sofisticata del canto, mentre la maggior parte del canto si basa sulla parola, senza la quale ci troviamo come nella recitazione della poesia di Proietti! Quindi si ricorre ai sottotitoli o si impara o si legge il libretto. Ma nella musica strumentale non ci supportano i sottotitoli e non ci dovrebbero essere nemmeno libretti che ci raccontano delle favole su quel determinato brano. Quindi è necessario sapere di cosa vive un brano musicale e come fa il compositore, prima, e l'esecutore, dopo, a farcelo seguire senza distrazioni, senza noia. Ma questo costa!

domenica, gennaio 12, 2020

Respiro e salute

Nel corso del tempo, ormai tanto, in cui mi occupo di canto, non so quante persone che cantano a qualunque titolo non mi abbiano rivelato di avere (o di aver avuto) problemi legati al reflusso gastrico, ernia iatale, sofferenze renali, problemi digestivi, sternali, ecc. Alcuni, con aria remissiva, denunciano: "eh, cantando, appoggiando, si sa...". Alcune persone hanno proprio la percezione fisica che nell'attività canora il diaframma crei inconvenienti. E i foniatri giù a dare gastroprotettori, inibitori del reflusso e così via. Cioè danno per scontato che l'attività del cantare sia connessa indissolubilmente a problemi gastrici. E naturalmente curano i sintomi, e non il male, che sarebbe quello di suggerire un cambio di respirazione. Ma questo metterebbe in crisi gli insegnanti, quindi... va bene così. Naturalmente il problema può riguardare anche gli strumentisti a fiato, visto che ne abbiamo parlato nei post precedenti. Oltretutto, come è noto, il reflusso gastrico può dare problemi molto seri al canto, perché gli acidi che risalgono, specie durante il sonno, possono danneggiare gravemente le corde vocali; ci sono professionisti che hanno dovuto sospendere l'attività per mesi. Questo è un paradosso! Un'attività artistica, ben diversa da un'attività sportiva, che per natura esaspera le condizioni fisiche, dovrebbe solo dare piacere, gioia, benessere, si trasforma in un malessere da sopportare! Assurdo. Tutte le arti, anche quelle che utilizzano maggiormente alcune parti muscolari, come possono essere i pianisti, hanno proprio per caratteristica più evidente che il fisico non si modifica, non suscita un accrescimento muscolare. La cosa dovrebbe ancor meno realizzarsi nel canto, che è un'arte che usa il fiato, cioè qualcosa di immateriale, dove i muscoli dovrebbero non entrarci per niente. E qui di solito entrano in gioco "color che sanno", e ti contestano: ma il diaframma E' un muscolo, e poi lingua, laringe, faringe, ecc. sono pieni di muscoli, ... e via la tiritera. Il fatto che il diaframma sia un insieme di muscoli, a noi cosa interessa, se non per informazione culturale, e così per tutti gli altri? Sono perlopiù muscoli involontari. Sarebbe come dire che anche il cuore è un muscolo, ma non è che vogliamo dominarlo, no!? Come il buon senso ci suggerisce di lasciarlo fare, che sa, sarebbe opportuno comportarci analogamente, o quasi. Dico "o quasi" perché ci sono aspetti da non ignorare. Sicuramente quando si canta artisticamente, cioè quando la voce viene utilizzata nelle sue massima possibilità, il diaframma viene coinvolto in modo importante. Certo è che se per far questo si viene indirizzati a una spinta verso il basso, e tutta la questione respiratoria viene indirizzata verso un coinvolgimento profondo dell'addome e persino del ventre, la nascita di problemi di salute è scontata. Come ho già scritto infinite volte, convogliare tutta l'attenzione sulla parte inferiore del busto, pancia, addome e in alcuni casi anche fino al pube, è un controsenso, se pensiamo che il fiato coinvolge solo la parte superiore del torace. Tutto ciò che sta sotto non è relativo alla respirazione, ma ai suoi riflessi. La cosiddetta respirazione "diaframmatica" è da intendersi esclusivamente come una respirazione rilassata, per evitare per quanto possibile di instillare forze che possono sommarsi alle reazioni istintive. Mi spiego meglio. Sappiamo che il canto, specie quando si allarga a tessiture più ampie del normale parlato e a colori e intensità di maggior impegno, oltre a richiedere tempi di gran lunga superiori al tempo del respiro fisiologico, genera reazioni istintive che inducono il diaframma a rialzarsi con una certa forza e a crearci quindi problemi e difetti. Se noi adottassimo nel periodo iniziale dello studio una respirazione toracica, potremmo contribuire a questo sollevamento, perché premendo sui muscoli dell'addome andremmo a creare una spinta sotto il diaframma che potrebbe sollecitare il suo sollevamento. Il modo più diffuso di evitare questi problemi risiede nell'opporsi con forza a questa risalita, spingendo giù e praticando varie posture, per l'appunto coinvolgenti l'addome. Questa opposizione è perdente! Fare la guerra al nostro corpo è un'azione insensata e non potrà condurre a risultati di valore, perché il nostro istinto di difesa e sopravvivenza avrà sempre la meglio, magari in tempi lunghi, ma vincerà sempre lui. Ma anche quando per un certo tempo parrà che ci lasci campo libeo, ecco che appariranno tutti questi problemi collaterali, tipo reflusso, ernia iatale, ecc. C'è poi un altro aspetto, che di solito sottovalutiamo. La postura che viene spacciata per respirazione diaframmatica, quindi con "pancia in fuori", crea due altre questioni: la schiena, che col tempo si incurverà in zona lombare e darà dolori, e la spinta in avanti, che si riflette anche sulla posizione diaframmatica. Esasperando infatti questo tipo di respirazione, noi produciamo un'inclinazione in avanti del diaframma, che assumerà quindi anche una deformazione ben poco efficace al canto. Quindi dove sta la soluzione? In primo luogo occorre aver pazienza, non fretta, e ACCONTENTARSI!! La fretta non può mai creare risultati buoni, e cercare risultati eclatanti in tempi brevi può, invece, creare danni e financo bloccare, inibire il canto a chi magari ne avrebbe tutte le caratteristiche potenziali. Per un certo periodo quindi occorre praticare una respirazione quanto mai rilassata e "naturale". Senza alcun tipo di spinta. L'insegnante dovrà osservare attentamente che la respirazione sia tranquilla, silenziosa e non comporti alcun tipo di apnea, di sollevamenti innaturali, meccanici, a scatti, a colpi. Se la disciplina viene condotta correttamente, in un certo tempo, che non è uguale per tutti per cui non posso indicarlo, le reazioni istintive potranno essere mitigate, e questa respirazione potrà essere INTEGRATA passando a una respirazione costale. La respirazione costale, correttamente eseguita, comporta un sollevamento del torace mantenendo una tonica pressione sulla parete addominale.zona plesso solare (che tenderà ad appiattirsi). In questa fase noi dobbiamo considerare che la respirazione diventa LATERALE, cioè non può verticale e gravante sull'addome, ma orizzontale, espandente verso le ascelle. Questo darà numerosi contributi. Sostenendo il torace, noi ne toglieremo il peso (specie per le donne) dal fiato e dal diaframma, e assumeremo una posizione più retta, con uno scaricamento del peso sulla colonna vertebrale, e soprattutto un "raddrizzamento" del diaframma, che assumerà una posizione orizzontale, quindi perpendicolare alla colonna d'aria. In questo modo togliamo pesi e pressioni anche involontarie dal diaframma e dagli organi sottostanti (compreso il cuore!!), otterremo una postura del corpo molto più elegante e benefica, una respirazione ottimale al canto. Da questa si potrà passare poi a una respirazione artistica ancora più raffinata, ma di questo è inutile parlare in questa sede. Quando si pratica il canto, ogni segnale di sofferenza deve dar luogo a interrogativi e a rifiuti. Se quando cantiamo o subito dopo, si diventa completamente afoni: smettere subito e cambiare insegnante (quando si inizia e per un certo tempo l'uso più impegnativo dell'apparato farà sì che si crei un po' di lubrificazione delle corde vocali, e questo potrà "sporcare" un po' la voce, ma che non deve mai andar via e tutto deve tornare come prima nel giro di poche ore). Se si viene guidati a una respirazione che ci crea problemi alla schiena, ai reni, alla pancia, alla digestione, ecc. farlo presente e se ci viene detto che sono mali professionali e che bisogna portar pazienza... mandarlo/a gentilmente a quel paese e cambiare. Se si vuol fare canto artistico, non bisogna avere remore. Non si può essere pigri e scegliere l'insegnante "comodo". Se ne possono cambiare 2, 3, 5 10.... finché si trova quello giusto, che ci offre davvero una visione artistica del canto, benefica, salutare per il corpo, la mente e lo spirito.

venerdì, gennaio 10, 2020

Il fiato: cantanti vs strumentisti - 2

Proseguo.
Nel canto abbiamo la possibilità di adottare una DISCIPLINA artistica indirizzata a provocare un'evoluzione respiratoria atta a conseguire un elevamento della parola a canto; la promozione di una nostra capacità spontanea a un livello superiore. Nella produzione di suoni strumentali questo non è possibile, perché lo strumento meccanico esterno non può essere contemplato nella nostra evoluzione. Però possiamo raggiungere comunque risultati ottimali, anche considerando che gli aspetti fisiologici sono meno oppositivi rispetto al canto. In esso noi arriviamo a una vera commutazione del respiro dai fini prettamente fisiologici a quelli artistici. Nel caso dello strumento noi possiamo ottimizzare il fiato fisiologico, senza obiettivi di modifica sostanziale. Infatti il fiato continua a uscire regolarmente, senza estremismi, senza interferenze laringo-valvolari (se non le creiamo noi). Il problema di fondo, sostanzialmente l'unico, è come "colloquiare" con la pressione che si crea con l'imboccatura. Occorre prendere coscienza che tra il bocchino e il diaframma c'è (ovvero deve esserci) un'unica colonna d'aria, non spezzata dalla laringe, e che questa colonna deve avere la minore pressione possibile. Affinché la colonna d'aria sia unitaria, non devono crearsi apnee, cioè non si deve creare quella pressione sottoglottica che spingendo sotto la laringe provoca la sua (tendenziale) chiusura, cioè richiama la funzione valvolare.Quindi il ruolo delle labbra è fondamentale, almeno per un certo tempo, perché creano un "polo" tensivo togliendolo alla gola. Più che nella continuità del suono, il problema può porsi nello staccato. Ogni volta che si vuol generare un suono staccato, istintivamente, anche per lo strumentista, c'è la tentazione di consonantizzarlo, cioè di dare un impulso dalla/con la glottide. Niente di più sbagliato. Bisogna agire con le labbra e dalle labbra verso lo strumento. Anche nel canto tutto il dominio sull'aria deve essere compiuto dall'esterno, facendo fluire il suono come fosse un alito, partendo già da fuori. Ascoltarsi, quindi comprendere che nel momento in cui si attacca un suono con il proprio strumento, si sta solo soffiando e non premendo, specie dal basso, o spingendo né verso l'esterno né verso il basso. Far nascere il suono esternamente a noi è un dato fondamentale. Peraltro lo strumentista ha un vantaggio: il suono è prodotto da aria espirata, e lo sa. Nel canto il fiato è tradotto in suono e questo crea grosse complicazioni mentali. Il fatto di gestire fiato fisiologico è molto meno impegnativo e più "tollerato" dall'istinto. L'importante è non creare condizioni reattive, quindi cercare di diminuire la pressione, pensando sempre di consumare, di far fluire l'aria, non risparmiando o trattenendo (che è un errore grave quanto spingere), ma considerando appunto questo flusso come lieve, scorrevole, placido, non violento, non denso e soprattutto evitando le contrapposizioni. Anche il bocchino non deve essere considerato un "tappo", un freno e un oppositore alla nostra emissione, ma pensare di trovare la relazione ottimale affinché le vibrazioni delle ance (o delle labbra nel caso degli ottoni) siano in rapporto perfetto con il fiato che emetto. In genere si tende sempre a dare di più del necessario (questo tantissimo nel canto), quindi il consiglio è sempre di andare a TOGLIERE, cioè provare a dare il minimo, come è il sussurro nel canto. E gettare lontano, ma non violentemente e con forza, ma far volare, volteggiare, utilizzare l'aria come per gli oggetti volanti, cioè considerarla un mezzo su cui il suono può correre lontano. E prendere fiato con dolcezza, rilassatezza, silenziosamente.
Il flauto. Per il flauto c'è qualche differenza rispetto agli altri strumenti a fiato, in quanto il flautista non imbocca lo strumento, ma ci soffia dentro. Quindi non si andrebbe a creare una particolare pressione, essendoci solo una "strettoia" formata dalle labbra. In teoria c'è meno opposizione rispetto alla pressione che si crea con gli altri strumenti, però i casi di problemi laringei nei flautisti sono molto numerosi. Introduciamo qui un altro fattore, il fiato "freddo", o soffio, e il fiato "caldo", o "alito". Il soffio è freddo perché esce ad alta velocità e percorre un tubo stretto. L'alito scorre più lentamente e in un tubo più largo, avendo quindi il tempo e l'occasione di riscaldarsi. La questione è che per la legge di Bernoulli, la velocità dell'aria determina o può determinare la necessità di un restringimento del tubo, che avviene a cura della glottide. Questo restringimento determina una forte frizione dell'aria sulle pareti, che tenderanno col tempo a infiammarsi e in casi estremi a dar luogo a sistemi di protezione, che poi si trasformano in noduli e patologie analoghe. Qui la possibile soluzione, oltre comunque a quanto già detto a proposito degli altri strumenti, che ha comunque valore (per cui non premere, non spingere né in giù né in avanti, considerare un'unica colonna da labbra a diaframma, ecc.), consiste nel cercare di non soffiare con troppa energia, e anzi cercare di pensare maggiormente a "alitare" (questo può essere particolarmente utile nel flauto dolce).
Altro consiglio per tutti: non fissarsi sull'aria polmonare, cioè considerare che l'aria giunga da sotto, ma utilizzare l'aria che si trova nel cavo orale. Ovviamente ogni soluzione può anche originare problemi, quindi se la gola non è libera, anche questo suggerimento può essere negativo. Ci vuole sempre un insegnante che abbia piena coscienza di ciò che fa e ciò che insegna e che sappia prontamente individuare i problemi e risolverli.

Il fiato: cantanti vs strumentisti

Mi vengono spesso rivolte domande o osservazioni in merito alle analogie o differenze sull'uso del fiato tra strumentisti e cantanti. Ritengo sia bene fare chiarezza in merito.
C'è un'analogia: entrambi questi usi del respiro danno luogo a una pressione interna.
Lo strumentista imbocca lo strumento, ed esercita quindi una pressione che va dalle labbra al diaframma. Il cantante il corrispettivo del bocchino ce l'ha poco sopra la trachea, quindi la pressione ordinariamente si esercita dalla laringe al diaframma. E' una differenza non di poco conto, che potrebbe andare a favore degli strumentisti, perché la minor lunghezza della "canna" da parte dei cantanti, accresce l'intensità della pressione ma soprattutto l'irregolarità. Mentre infatti sulle note centro-basse e nel parlato non si verifica di norma una pressione particolarmente elevata, essa cresce considerevolmente nel settore acuto e nei suoni particolarmente intensi e di colore oscuro. L'utilizzo della voce dà luogo a un ventaglio molto ampio di possibilità espressive, dinamiche, cromatiche, con corrispondenti adeguamenti pressori dell'aria. Nel caso degli strumentisti il divario è molto meno ampio. Da questa trattazione escludo al momento il caso del flauto, che non imbocca lo strumento e quindi ha un utilizzo un po' diverso del fiato. Ci tornerò.
Se io freno l'uscita dell'aria anche solo opponendo resistenza con le labbra, si crea una pressione interna, che coinvolge un po' tutto l'apparato respiratorio, ma in particolare il diaframma, che è il più importante muscolo respiratorio, con precisi compiti. Quale differenza può esserci tra il frenare l'aria con le labbra e il suonare uno strumento? Un fatto rilevante! Che noi puntiamo a un risultato artistico, cioè l'aria non deve bloccarsi ma uscire con determinate caratteristiche che consentano allo strumentista di poter utilizzare mirabilmente il proprio strumento, cioè poter infondere con esso una notevole quantità di espressioni, colori, intensità, ecc. In questo c'è analogia col canto; in entrambi i casi noi abbiamo bisogno che il fiato non risulti un ostacolo ma un mezzo favorente. La differenza fondamentale, però, è che il canto, proprio perché utilizza organi propri dell'uomo che potenzialmente sono preposti a questo scopo, anche se in un tempo e in condizioni molto difficili, possono darci la possibilità del raggiungimento di un risultato perfetto, quindi con l'unificazione dell'apparato a questo scopo; nel caso strumentale non è ravvisabile questo stesso risultato, perché lo strumento è un oggetto esterno all'uomo, meccanico, inventato, e per quanto si possa perfezionare il suo uso, non consentirà un'unificazione tra l'uso del fiato e lo strumento stesso. Ciò nonostante possiamo individuare errori e correttezze nell'uso e quindi un'ottimizzazione. Così come avviene spesso nell'insegnamento del canto, gli strumentisti vengono avviati allo studio mediante esercizi respiratori. Come al solito vengono magnificati i risultati QUANTITATIVI degli esercizi, ma credo che raramente si parli di QUALITA'. Quale dev'essere fondamentalmente la qualità del respiro strumentale? L'uscire con regolarità, senza variabilità eccessiva, ma soprattutto senza spinta, come fosse una normale espirazione fisiologica. La creazione di una pressione interna dà luogo automaticamente, istintivamente, a una REAZIONE organica. Questa reazione è solitamente blanda nei primi secondi, e aumenta man mano che passa il tempo, perché il permanere di anidride carbonica nei polmoni è, ovviamente, considerato un pericolo da parte dell'istinto, che invia ordine al diaframma di risalire e spingere fuori l'aria che sta ristagnando. Anche per motivi di postura il nostro corpo possiede regole per cui quando si crea una pressione interna, il diaframma tende a spingere verso l'alto (quindi a riprendere la sua naturale posizione alta, rilassata). Questo, come si comprenderà, dà luogo a una pressione opposta a quella sul diaframma, cioè verso l'esterno, che chiamiamo SPINTA. Cosa capita a questo punto? Che chi si occupa dell'insegnamento studi e cerchi il modo di ottenere i migliori risultati considerando i problemi che si presentano. Ma il primo problema è proprio quello di voler ottenere un risultato senza comprendere le cause, cioè IMPORRE un risultato, anche andando a forzare, a violentare, in un certo senso, la nostra natura. La panacea di tutti i problemi strumentali (ma in questo senso anche vocali) sembra risiedere nella RESPIRAZIONE DIAFRAMMATICA. Fin dall'inizio dello studio si favoleggia delle mirabili proprietà di questa tecnica respiratoria. La respirazione diaframmatica sarebbe una normale e naturale respirazione, sennonché viene caricata di ulteriori innaturali proprietà allo scopo (non noto, però, in genere a chi la pratica) di opporsi ai problemi che si generano suonando o cantando, cioè la risalita repentina e talvolta violenta del diaframma. Si pensa che il diaframma debba star giù, volente o nolente, senza sapere che la prima causa del fatto che il diaframma abbia questo comportamento risiede proprio nel fatto che è la pressione che lo strumentista o il cantante stesso ha generato! In secondo luogo si commette un errore di ingenuità. Si pensa che una certa tecnica respiratoria possa generare un controllo sul diaframma, la qual cosa è erronea. Le conseguenze di questi errori possono essere rilevanti. Infatti non dobbiamo dimenticare che esiste un organo, la laringe, che nella nostra bioarchitettura svolge il ruolo di VALVOLA del fiato. Dunque, se stiamo usando male il fiato, vuoi nel canto che nel suonare, essa verrà richiamata al suo ruolo, entrerà in funzione e ci procurerà delle conseguenze e potrà subire dei danni. Non per nulla molti strumentisti possono accusare abbassamenti di voce, fastidi e persino formazione di noduli e polipi laringei. Tutto ciò non ha da accadere, e dobbiamo prendere in considerazione l'ipotesi che queste cause possono riguardare proprio la nostra "tecnica" respiratoria e il modo scorretto di affrontare lo studio dello strumento. A uno verrebbe da dire: "ma se sono gli insegnanti che ci guidano in questa direzione, noi allievi che ci possiamo fare?" E' così, e vale ancor più per il canto. Non ci possiamo far niente. Io per quanto posso cerco, senza polemica e con disponibilità, di dare il mio contributo, poi ci pensi il mondo. Quella che viene spacciata per respirazione diaframmatica, è spesso una respirazione addominale e persino ventrale, con coinvolgimento di tutti i muscoli fino al basso ventre. Assurdo! I polmoni occupano la metà superiore del busto, il diaframma divide la parte superiore da quella inferiore. I muscoli bassi non hanno alcun coinvolgimento nella respirazione, ma creano tensioni e ripercussioni. Purtroppo ci sono non pochi insegnanti che si inventano le teorie più strampalate, tipo che la colonna d'aria nasce proprio dall'inguine, cioè, a detta loro, più lunga è la canna più il risultato sarà importante. Sono favole senza costrutto, che però possono avere conseguenze non piacevoli. Il primo comandamento di chi utilizza il fiato per scopi artistici, deve essere quello di un tonico rilassamento, di un ascolto del proprio corpo e di comprensione del funzionamento e quindi di non creare, o il meno possibile, opposizioni. Abbiamo poi l'estremizzazione della respirazione detta erroneamente diaframmatica con l'esercizio di forti pressioni verso il basso, che in campo canoro si chiama "affondo", che è la respirazione antivocale per eccellenza. E' vero che ha conseguito risultati, in alcuni casi anche di rilievo, ma ciò non giustifica. E' come dire che l'uso delle radiazioni atomiche può dar vita un certo alimento produttivo. Il fatto che oggi esistano milioni di persone con intolleranze alimentari non dovrebbe giustificare l'uso di simili procedure, ma purtroppo siamo impotenti di fronte a determinate scelte. Spero che nel campo dell'arte ci si riesca a difendere maggiormente, essendo scelte individuali. Dunque premere verso il basso, addirittura con sollecitazioni defecatorie (provo una profonda vergogna a pensare a tanti insegnanti che agiscono in questo senso e che non provano alcuna sconvenienza ma anzi vanno fieri di tali consigli) sembra avere un effetto positivo, perché ci si oppone alla risalita del diaframma. Il fatto che effettivamente ciò avvenga è dovuto a due fatti: si preme sul fiato e sulla laringe. Siccome istintivamente laringe e diaframma sono uniti da un rapporto reciproco, premendo sulla prima si ha un riscontro anche sul secondo. Il che, però, vuol dire una incredibile forzatura, che in molti casi produce reazioni negative pesanti, anche sulla salute. Il fatto che alcuni riescano a produrre, ma sempre con notevoli limitazioni, degli effetti "popolari" non può e non deve indurre a percorrere questa strada. Premere verso il basso, quindi agire sul fiato in direzione opposta a quella che noi auspichiamo, cioè verso la bocca, è un controsenso che non può produrre nulla di bello, di poetico, di libero e piacevole. Ma per alcuni è più bello soffrire e forzare, e "il mondo è bello perché è vario" è sempre una bella scusa. Mi rendo conto che il post sta diventano lunghissimo, quindi mi interrompo per proseguire in un altro.

giovedì, gennaio 02, 2020

Della passione

Come e perché una persona si dedica a un'attività particolare, come può essere la musica, il canto? Suol dirsi che è spinto dalla passione. Cioè? Nelle discipline orientali la passione non sempre viene segnalata come una virtù, anzi più frequentemente come una pulsione negativa, individuandola come "brama". Bramare significa agognare qualcosa, desiderare in modo esasperato. Questo in genere è associato ai beni materiali (desiderare soldi, un oggetto, un certo stile di vita...). Quindi è piuttosto importante analizzare e individuare l'oggetto della passione. Non c'è dubbio che il mondo della lirica spesso si accomuna a quello del calcio o dello spettacolo. Posso capirlo in quegli ambienti, ma il fanatismo acritico che circonda molti personaggi (dalla Callas a Del Monaco, a Karajan o Toscanini, Di Stefano o Corelli o Bastianini, e via dicendo anche verso molti personaggi contemporanei, come possono essere Bocelli o la Netrebko o Muti), e che crea per contro aggressività, nasconde in realtà profonda ignoranza e incapacità di analisi e valutazione. Si può comprendere e giustificare il "mi piace" e "il non mi piace", ma non giudizi assolutistici ("il più grande", "il più bravo", "il migliore", ecc.) in totale assenza di valutazioni oggettive, in totale assenza di criteri. Allora occorre porsi domande: perché ho questa passione? A cosa mira questa pulsione? E occorre darsi risposte coscienziose, sincere. Il nostro spirito preme affinché si liberi un po' della verità contenuta in esso, e per farlo ci induce a praticare attività portatrici di messaggi subliminali. Questi messaggi non riguardano un soggetto, l'ego, ma noi, tutti, quindi deve essere un'attività volta a migliorare il nostro mondo, in poche parole: a unirci, a collaborare, a non ostacolarci l'un l'altro, a prenderci cura degli altri, a lenire le sofferenze, e così via. Naturalmente è più che legittimo che dalla pratica di un'arte si debba ricavare anche il sostegno alla propria vita, quindi è giusto guadagnare, però non dimenticando che non è realmente "un lavoro", ma qualcosa di molto più elevato, quindi accanto alla professione dovrà sempre esserci un'attività di insegnamento, di collaborazione, ecc. svolta anche gratuitamente a favore della collettività. Quindi non potrà essere un'attività volta esclusivamente al guadagno personale, all'arricchimento, al prestigio, alla fama individuale. In sintesi: esiste una pulsione spirituale a occuparci di attività artistiche, cioè slegate dalla nostra vita materiale e mortale, la qual cosa è positiva, ma questa passione può venire intercettata dalla nostra brama (terrena) di fama, di celebrità, di guadagni superlativi, cioè il sogno di una vita di apparenza, perché quel genere di sogno è illusorio; si pensa che con i miliardi la nostra vita diventi quella di un dio, senza necessità pratiche, bisogni materiali. E per realizzare questo si possa calpestare il prossimo, ridurne la dignità, considerarlo un inferiore, ecc. Come ho scritto tante volte, noi dobbiamo scacciare la spinta egoica, che oltretutto ci impedisce di prendere coscienza di noi stessi, di comprendere la verità del percorso per raggiungere l'obiettivo della purezza del gesto artistico. Non è mai troppo tardi per rinunciare a quello per mettersi sulla giusta strada. Avere una passione, pertanto, non è mai di per sé un dato negativo, al contrario, ma può diventarlo se mal indirizzata, quindi bisogna rimettersi in gioco e rinunciare ai sogni di gloria (che non significa che non possano comunque avvenire, ma non devono riguardare l'obiettivo principale). Coltivare virtuosamente una passione significa esercitarsi nell'ottica della perfezione, cercando anche di coinvolgere tutto il proprio stile di vita, senza fanatismi, senza mettere sé stessi al centro del mondo.