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domenica, giugno 07, 2020

Percepire - Vivere

C'è una profonda, straordinaria, differenza tra il percepire e vivere un evento artistico. Ma è difficile anche da spiegare questa differenza, perché molti leggeranno il "vivere" come un partecipare con entusiasmo e passione, muoversi, entusiasmarsi, ma questa è solo la superficie. Certamente può esserci un modo passivo di percepire un concerto o una rappresentazione, ma qui non saremmo neanche nell'anticamera della questione e non basta, per contro, una modalità "attiva", cioè: che significa?. Per altri invece può essere il conoscere (e/o il ricordare) il contenuto. Ad es.: vado ad ascoltare l' "eroica" di Beethoven, che conosco a memoria, oppure, di cui conosco attentamente la partitura, che ho ascoltato in decine di registrazioni e concerti, oppure che non ho mai ascoltato. Le prime esperienze ci possono far credere che queste persone vivranno il concerto e l'ultimo no? No, non è proprio questo, anzi, per certi versi potrebbe essere proprio il contrario. Chi ha ascoltato molte volte un brano, sarà portato a confrontare e a giudicare l'esecuzione ovvero l' "interpretazione", cioè ciò che esula dalla musica. Chi non ha mai ascoltato e si appresta a farlo con atteggiamento curioso, interessato, aperto, avrà buone (e quindi migliori) probabilità di vivere il processo musicale, ovvero essere coinvolto in prima persona. Se io seguo un brano sentendo come viene eseguito pensando: "ora viene questo, ora viene quest'altro, bello qui, qui magnifico, ...." sta semplicemente giustapponendo i pezzi della propria memoria e di ciò che piace, non sta affatto vivendo sinceramente il brano, ovvero fa uno sfoggio di sé (canticchia o gesticola mentre l'esecuzione è in corso) e giudica l'esecuzione ma non perché lui conosce realmente ciò che non va, ma semplicemente confronta con le esecuzioni che conosce, ma che non ha valutato oggettivamente ma soggettivamente, senza criteri. L'abbiamo fatto sicuramente tutti. C'è in tutto questo un colpevole, la registrazione. Se noi potessimo tornare in quell'epoca in cui c'erano solo esecuzioni dal vivo, professionali o meno, noi avremmo molte più possibilità di vivere realmente la musica. Intanto non dovremmo sorbirci orrendi appiattimenti, o effetti stereofonici tanto magniloquenti quanto fastidiosi a volumi eccessivi. E' molto più interessante ascoltare un brano sinfonico eseguito dal vivo da un buon pianista o da una banda o altra formazione anche amatoriale, che da un disco che ripete stancamente sempre la stessa esecuzione, specie se realizzata con mille artifici, che tolgono qualunque spontaneità. Che bello sentire un errore! Gli immacolati cd dove l'errore non ha residenza, sono quanto di meno vivo possa esserci. Ma questo ha fatto sì che nel tempo diventasse l'imperativo: non sbagliare! Già si divinizzava Benedetti Michelangeli perché i suoi errori erano perle rarissime, ma oggi sentire un pianista che sbaglia è veramente quasi miracoloso! Ma in cambio di che? Puro esibizionismo, spettacolarità che non sembra porsi il problema del fare musica. Poi senti pianisti e critici che elogiano Alfred Cortot "che aveva una visione unitaria", ma prendeva anche una sequela di stecche da record, pure nei dischi registrati in studio. Allora cosa conta? l'unitarietà o la precisione? Tutt'e due, si risponderà, però la domanda vera è un'altra: mentre eliminare gli errori di digitazione può essere un'impresa abbordabile, dare l'unitarietà forse non lo è altrettanto, o meglio... come si fa? E mentre il primo obiettivo sembra raggiunto dalla stragrande maggioranza dei pianisti professionisti, dal secondo sembra ci si allontani, o forse non si tenta realmente di avvicinarci. In ogni caso, tornando al titolo, ormai chi si interessa di musica si relaziona per il 90% con mezzi di riproduzione e, ben che vada, al 10% con esecuzioni dal vivo. Il documento registrato di fatto ci porta istantaneamente nel passato. Ciò che ascoltiamo è immutabile, appartiene a qualcosa che ormai non c'è più, per l'appunto, come diceva Celibidache, è una fotografia, con gli stessi problemi, cioè non possiamo relazionarci e non può ricreare lo spazio. Alcuni pensano che l'effetto stereo ricrei lo spazio originale, ma è un'illusione. E in ogni modo come può darci una immagine verosimile un segnale mille volte filtrato e su cui possiamo agire in vari modi, a cominciare dal volume? E come interagisce questa immagine con l'ambiente in cui ascoltiamo? Ma lasciamo perdere anche questo discorso; ciò che conta ed è inconfutabile, è che ciò che è registrato è ormai defunto. Un esecutore modula la sua esecuzione in funzione dell'ambiente e delle condizioni presenti al momento; queste condizioni sono irripetibili, quindi in qualunque altro momento l'esecuzione sarebbe stata diversa. Se io sono presente, posso avere delle probabilità di vivere l'esecuzione nel suo svolgersi, cioè, posso condizionare l'esecuzione. Ciò sembrerà fantascientifico, ma è così. Ciò che noi proviamo si diffonde e può influenzare chi esegue. Eseguire qualsiasi cosa da soli, certi di non essere ascoltati o in presenza di altri, o sapendo che qualcuno ci ascolta, è diverso. Di solito si ritiene che una presenza "ci emozioni", il che è vero, ma cosa significa? Che noi percepiamo delle reazioni alla nostra attività e ci regoliamo di conseguenza. Cosa significa, alla fine, vivere un'esecuzione? Vuol dire seguire il percorso tensivo dall'inizio alla fine secondo il procedimento provato dall'autore. Se questi è riuscito a trasferire sullo spartito il messaggio nella sua unitarietà, diversificato nelle varie articolazioni indispensabili affinché fosse comprensibile (digeribile) da qualunque persona, ed è stato correttamente captato e quindi restituito dall'esecutore, anche lo spettatore potrà rivivere quello stesso stato e quindi relazionarsi con quella realtà spirituale. Se uno dei due, e più probabilmente l'esecutore, non è "entrato" nel messaggio, la mia coscienza ricostruirà ciò che potrà, ma l'unitarietà resterà un sogno, il che è ciò che avviene quasi sempre, però nel rapporto con il suono vivo, questa probabilità c'è, in altre forme comunicative no. 
Ma veniamo al canto dal lato esecutore. Cominciamo a dire che se si inizia a falsificare già dall'inizio, ogni obiettivo artistico sarà pressoché irraggiungibile. Un bravo esecutore potrà farci vivere delle emozioni superficiali, che è quello che la gente cerca, perlopiù (si è meno coinvolti), ma manca il passo al gradino più elevato e di più impegnativa conquista. Quindi per un cantante non solo far comprendere le parole del testo, ma dispensarle con quell'eloquio, quella recitazione che possa portare il significato di ogni singola parola e frase, atto a ricostruire il tutto in uno. Il nostro obiettivo dovrà essere quello di far vivere a chi ci ascolta la situazione descritta dal testo, ma questo è solo l'inizio! (e rendiamoci conto che molto spesso è già questo un dato disatteso). Insieme a questo c'è la musica. L'autore ha sicuramente cercato di dare significato al testo mediante un determinato disegno musicale. L'obiettivo è impossibile nel piccolo, ma può avere buoni risultati in uno spazio più ampio, cioè in un contesto. Noi dobbiamo entrare in questo contesto e cercare di (ri)viverlo, scoprire il percorso dell'autore e quindi realizzarlo vocalmente, insieme al contesto strumentale. E' veramente una meta di straordinaria complessità e difficoltà, ma non ci dobbiamo far intimorire. L'uomo ha creato affinché gli altri uomini comprendessero e rivivessero quell'esperienza. Il lavoro realmente difficile l'ha svolto lui; per l'esecutore il compito è meno gravoso, a patto però di affrontarlo con serenità e assenza di pregiudizio. Ma siccome ormai le esecuzioni sono per oltre il 95% di repertorio, cioè di musica già nota, eliminare il pregiudizio è quasi impossibile. Celibidache l'ha detto più volte: "quando prendo in mano una partitura, qualunque essa sia, la guardo come se fosse la prima volta, e mi lascio incantare da ogni scoperta, come un fanciullo che vede per la prima volta il mare" (ho messo il virgolettato, ma le parole le ho riportate a senso). Allora come fa un cantante a eseguire, tanto per dire, "che gelida manina" o "casta diva" o "il balen del suo sorriso" o "ella giammai m'amò" o "condotta ell'era in ceppi" senza lasciarsi influenzare da questo o quel cantante o dai tanti che le hanno cantate e registrate, rifacendo quelle stesse variazioni, quelle dinamiche, quegli accenti, ecc. ecc.? Bisogna ripulire la mente, tornare fanciulli, e soprattutto non pensare che poi la gente ci giudicherà in base a ciò che abbiamo o non abbiamo fatto. Se la nostra è una pulsione onesta, sincera e dettata da autentico spirito artistico, e non quindi fare il diverso per apparire, saremo vincenti nel tempo, come è sempre accaduto. La tradizione in musica è uno dei peggiori vizi dell'uomo, è la manifestazione della pigrizia mentale e delle facili soddisfazioni. Che bello leggere un'aria su uno spartito e accorgersi che quel rallentando che tutti fanno non esiste e che provando a eseguire come scritto è molto meglio, si rende molto più chiaramente l'idea di quella frase. Oggi molti direttori d'orchestra vanno a riprendere le edizioni originali delle opere, credendo di fare opera "filologica" e di rispetto per l'autore, e invece assai spesso fanno un danno! Riprendono frasi e note cancellate dall'autore stesso che ne aveva colto l'inopportunità, mentre non colgono che spesso nelle loro realizzazioni non si capisce niente perché magari hanno adottato tempi del tutto fuori luogo o perché i cantanti non riescono nemmeno a far comprendere le parole. O come la storia del metronomo! Abbiamo direttori che hanno registrato l'intero ciclo sinfonico beethoveniano con "i diapason di Beethoven". E' la storia più assurda possibile! Come si fa a decidere un tempo di esecuzione a casa propria (magari anche essendo sordi !!!!!), quindi basandoci su una esecuzione al pianoforte o, peggio, nella propria testa!? Cosa può sapere di cosa avverrà con una (o un'altra) orchestra in una determinata (o altra) sala? Come si possono mettere in relazione gli eventi sonori se non ho scelto un tempo che solo in quel posto in quel momento può permettere di raggiungere quell'obiettivo? Se non ci sono le condizioni acustiche sufficienti per relazionare gli eventi (cioè melodie, armonie, dinamiche, fraseggi...), vivere l'evento è impossibile, sarà una pura mostra di note, pressoché senza senso. 

2 commenti:

  1. C'è molto da riflettere su questo argomento: la musica non è nata per le sale da concerto, dove già l'attitudine di mettere le persone sedute ad ascoltare presuppone un atteggiamento passivo. In tempi neanche tanto lontani la musica era per le feste e quindi danze e per la liturgia, c'era la musica da lavoro e le serenate. Esistevano le "botteghe dei musicisti" come se la musica fosse un salume. L'interazione con chi ascolta era implicita nella musica stessa. Poi si è formata la complessità sia in musica che in arte e la musica pop (popolare) è marciata parallela alla musica cosiddetta colta che ha più problemi nella comunicazione immediata. Tralasciamo le disastrose conseguenze dell'avvento del disco e non parliamo nemmeno della distorsione orribile del suono amplificato che ha pregiudicato l'orecchio anche dei musicisti. Aggiungerei però che la vita in chi ti ascolta si percepisce e solitamente succede nel momento magico in cui smetti di preoccuparti dell'aspetto tecnico e sei completamente dentro quello che canti (in quei momenti realizzi che chi ti ascolta sta cantando con te con le labbra o con gli occhi) o suoni (dalle registrazioni hai la conferma che in quel momento anche l'aspetto tecnico è perfetto: il timbro, l'intonazione, la dinamica). Il principio base è non essere preoccupati del risultato o del giudizio: la verità ha una sua forza intrinseca

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