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sabato, luglio 25, 2020

L'altra mente

Nel post precedente, verso la conclusione, parlo di pensiero "non mentale". Allora qualcuno chiede: qual è il pensiero non mentale? Per la verità questo riferimento a due tipi di pensiero lo faccio da parecchio tempo, ma forse ho lasciato il discorso un po' alla libera deduzione dei lettori, invece di spiegare, anche perché gran parte di queste sollecitazioni ho sempre il timore che suscitino polemiche già viste in passato. In ogni modo cerco di dare una spiegazione, anche se avventurarsi in questo campo con le parole è sempre complesso e foriero di interpretazioni. Inoltre si parla di "pezzi" di una disciplina molto ampia che andrebbe affrontata nella propria interezza per essere meglio compresa, ma richiederebbe uno spazio enorme e rischierebbe anche di portare il blog su un altro campo. Fin dall'inizio della compilazione del blog mi ero ripromesso di non approfondire troppo le istanze filosofico-gnoseologiche, come invece aveva abbondantemente fatto il mio maestro, e che non pochi problemi gli aveva causato. Temo di aver già più volte superato il limite che mi ero imposto, quindi farò ancora questa spiegazione ma non mi spingerò più oltre.

Dunque  osserviamo i termini Ragione, ratio, ragionamento, raziocinio, forse qualche altro derivato da questi. 
Possiamo dire che noi siamo investiti da due generi di contenuti interiori, che definiamo genericamente pensieri, mescolando due diverse fonti di provenienza perché la voce interiore è sempre uguale, la nostra, ma che hanno sostanza e obiettivi significativamente molto diversi.
La ragione è propriamente l'elaborazione della mente, di derivazione animale, anche se maggiormente sviluppata, che basa le proprie riflessioni su ciò che gli perviene attraverso i propri sensi. Quindi concepisce tutto ciò che è fisico, palpabile, visibile, misurabile, mentre osteggia ciò che è immateriale, astratto, invisibile, incommensurabile. Il tempo, ad es., non è concepibile dalla ragione, per cui necessariamente dovette inventare gli strumenti di misurazione, gli orologi, per poterne fare oggetto di speculazione mentale. Persino in musica si arrivò a inventare una sorta di orologio, il metronomo, per poter "misurare" il tempo, compiendo un grosso peccato, proprio perché invece la musica è la porta per entrare in una dimensione più vera e umana del tempo. Le arti, come ho spiegato in precedenza, sono frutto di una appartenenza, parziale, dell'uomo a una dimensione metafisica, per cui non apparterrebbero di fatto al regno della ragione (per semplicità possiamo dire che non servono a niente, ovvero non ci sfamano, non ci proteggono, non perpetuano la specie, ecc.), ma non possiamo sottrarle all'attenzione e all'elaborazione mentale, pertanto l'uomo tende a soppesarle, soggettivamente, a due osservazioni, una mentale, più razionale e fisica, e una più astratta, propria del pensiero, che è poi la fonte primaria di ogni arte. Quindi cosa capita? che siamo disorientati, perché c'è una parte di noi che vuole avere delle spiegazioni RAZIONALI di ciò che si sta facendo, del perché e percome (ed è un po' il campo che ha occupato la scienza), e resta dubbioso su tutte quelle spiegazioni che non attengono direttamente a un campo materiale e del tutto logico. Infatti, per quanti sforzi si facciano, non si riesce a eliminare del tutto il ricorso a qualche immagine o riferimento fisico per procedere nelle lezioni e indurre l'allievo a un'azione che si allontani il più possibile proprio dai coinvolgimenti fisici. Figuratevi quanto possono essere lontani dall'arte e quindi dal pensiero quelle, diciamo, scuole che si basano quasi esclusivamente su interventi di tipo muscolare, scheletrico, fisiologico, anatomico, cartilagineo, nervoso... (che sono poi comunque molto discutibili anche sotto questo punto di vista, in quanto non operano visivamente e quindi con sicurezza, ma mediante immagini mentali o riferimenti iconografici che però la mente non ci rappresenta in modo sicuro e esatto, per cui ciò che crediamo di fare molto difficilmente corrisponde a ciò che facciamo realmente). 
Dall'altra parte, quindi, abbiamo il pensiero, che è un flusso di stimoli fondamentalmente creativi, e che allarghiamo in una rosa di induzioni che categorizziamo (da parte della mente) in: idee, fantasie, intuizioni, immaginazioni, ecc. Il pensiero spazia in un ambito di portata gigantesca, che, appunto per questo, spaventa la mente e dunque si creano le convenzioni e i "limitatori" di varia natura. I bambini, in genere, sono investiti da una vera tempesta creativa, la loro mente razionale, sviluppandosi con l'età, non ha ancora la capacità di filtrare e bloccare questo flusso, dunque i bambini fino anche ai 10-12 anni, riescono a manifestare doti, capacità espressive e creative meravigliose. Ma se non ci riesce la mente a limitare e frenare questo flusso, ci pensa il mondo degli adulti, che ritiene questa attività un fase della crescita, ma le attribuisce per lo più un carattere di immaturità, che passerà con il tempo. E infatti quando si arriva intorno ai 12-14 anni, se non è passata, in genere viene sottoposta a un maggior rigore, perché per gli adulti ora è il tempo di pensare alle cose "serie", e quindi mettere da parte certe fantasie (poi ci penserà anche la successiva tempesta ormonale dell'adolescenza a riportare i soggetti a questioni di vita concreta e istintiva, almeno per un po'). Ovviamente con tutte le eccezioni del caso, che ci permettono di poter contare su artisti straordinari in ogni campo, che riescono a superare l'ostacolo in virtù o di genitori illuminati (un caro amico alla domanda: cosa ci vuole per diventare un bravo musicista, risponde: "avere la madre giusta!") o di una tale forza spirituale (che definiamo passione) da affrontare e sgominare ogni impedimento, la conquista di una disciplina artistica sarà sempre limitata a pochi. E' ciò che accadde al m° Antonietti e al m° Sergiu Celibidache, che hanno demolito ogni ostacolo alla ricerca e conquista di quanto auspicavano. 
Quindi dobbiamo essere consapevoli di vivere una doppia natura, una razionale, logica e materiale, l'altra ideale, astratta, creativa, le quali non vanno per niente d'accordo. La forza creativa può avere una potenza notevole e arrivare a modificare anche il nostro comportamento e funzionamento pur di giungere a manifestarsi. Sono casi molto rari. Per lo più questo flusso si fa strada in molti di noi e si manifesta "timidamente". Poi ciò che avviene dipende molto dalle condizioni ambientali e vitali in genere. La conquista artistica in genere dipende quasi totalmente dalla possibilità di trovare giusti insegnanti e insegnamenti, la conquista solitaria è quasi completamente da escludere. Ma dobbiamo fare i conti con una gran parte dell'umanità che segue quasi esclusivamente la parte razionale. Pensiamo solo ai tanti critici e cultori "ignoranti" che seguono esternamente i fenomeni artistici, cioè senza esserlo in nessun modo, e che inducono ad atteggiamenti e riflessioni "concrete", e tacciano di pazzia ogni riferimento e apertura "laterale" (non a caso sia Antonietti che Celibidache sono stati etichettati come pazzi da non poche persone). Più ci si avvicina a manifestazioni autenticamente artistiche più gli attacchi dalla società razionale saranno violenti ed efficaci, perché convincere le persone con discorsi logici e concreti è molto più semplice e di certo risultato rispetto a chi parla in termini di astrazione, di creatività, ecc. ecc. Anche perché è un campo invaso anche da perfetti millantatori che di arte non sanno niente e spacciano per arte ogni sciocchezza. Però, per rientrare un po' nelle misure a noi più vicine, non preoccupiamoci troppo del mondo esterno, ma di ciò che ci può sbloccare nell'apprendimento del canto o della musica in genere. A questo punto, se ci credete, sapete che nel vostro sforzo di trovare la chiave per un canto libero (che equivale anche a suonare o dirigere) ognuno di voi è in balia di due forze che possiamo definire contrapposte, quella razionale e quella creativa. La seconda è quella che ci spinge a intraprendere lo studio e la coltivazione di un'arte, e che non fa la guerra con niente e nessuno, è solo un'energia, più o meno potente, che però ha bisogno di utilizzare parti del nostro corpo per potersi manifestare, e persino di doverle modificare, per quanto possibile, per dare maggiore efficacia a quella manifestazione. La parte razionale non concepisce, non ha in sé gli elementi per sostenere e dare accesso a questa "fantasia", e, soprattutto nel momento in cui l'arte tenta di utilizzare parti del nostro corpo in contravvenzione con ciò che è previsto dalla Natura, è più che ovvio che scatti in opposizione, percependo questo come una minaccia, anche piuttosto concreta. 
Ma anche questo livello di consapevolezza non è che possa aiutare tanto, perché il busillis è: come si fa a evitare che la mente intervenga a impedire la possibilità di dare sfogo alla mia pulsione artistica? Si consideri però preliminarmente che un errore d'ingenuità risiede proprio in tutto ciò che stanno facendo una moltitudine di cantanti e insegnanti, cioè razionalizzare, ovvero elaborare con un mezzo inadeguato (e addirittura ostile) un procedimento che razionale non può essere. Siccome però il "meccanismo" che produce la voce è fisico, la mente se ne occupa, ma per cercare di eliminarla! E infatti quale è infine l'unico sistema per cercare di farla funzionare? La violenza, la forza, che in alcuni casi può dare qualche frutto, sempre limitato su diversi parametri, inaccettabile sotto il profilo artistico. Per seguire un percorso d'arte non si può derogare dalla creatività, cioè dal pensiero astratto. 
In vario modo ho già spiegato in centinaia di post come affrontare questa dicotomia, e siccome questo, adesso, sta diventando troppo lungo e complesso, lo termino. Riflettete, ma nel modo giusto!

mercoledì, luglio 15, 2020

Quel "di più"

L'uomo si trova sul confine tra la Natura - l'ecosistema, la materia - e il regno della metafisica, della creatività, dello spirito, dell'inconsistenza. A questo secondo insieme appartengono tutti i manufatti e le opere dell'uomo, vuoi dell'ingegno che della fantasia. Ciò che esiste in natura sarebbe destinato alla caducità se non ci fosse l'uomo che ne può valorizzare l'essenza. Un albero muore e il suo legno è destinato a marcire e a sfamare varie specie animali e vegetali quindi a sparire, oppure a incendiarsi, se viene colpito da un fulmine o attaccato da un incendio, o ancora a trasformarsi in carbone, in un lungo tempo, se ne ricorrono le condizioni. Ma anche in quella forma, senza l'uomo rimane senza scopo. Una enorme montagna di marmo resterebbe lì a consumarsi nei millenni, se non fosse arrivato un uomo a pensare di crearci una scultura. Cosa distingue un pezzo di marmo qualsiasi staccato da una montagna con un pezzo di marmo scolpito? Quantitativamente si tratta sempre di un pezzo di marmo. L'uomo vi ha infuso... che cosa? la qualità. Cioè la Conoscenza. Come ho detto, l'uomo sta su un confine tra due insiemi, due regni. Anche le arti si trovano su quel confine. Un'arte per potersi manifestare ha bisogno degli strumenti per poter forgiare le opere, e ha anche bisogno delle materie da forgiare. Sicché anche il canto sta in mezzo. La parte di uomo appartenente alla Natura possiede il corpo e gli strumenti fisici per produrre il suono. Questo suono però è puramente fisico, può servire solo per attirare l'attenzione, per spaventare, piangere, comunicare (ma in modo alquanto sommario) e poco altro. Già la parola non farebbe parte della Natura, ma per esigenze esistenziali ataviche, questa, non senza difficoltà, entrò nel quadro naturale, richiedendo un notevole sforzo da parte della natura stessa, che dovette modificare diversi parametri posturali di non poco conto per consentire l'aggiunta di questo senso. Entra quindi anche la parola nel panorama dell'uomo-animale, ma solo ad un livello minimale, cioè quello che consente il minor impegno fisico possibile. L'altro "pezzo" (cioè la parola attoriale e artisticamente cantata) resta nell'insieme extra naturale e quindi per poterla conquistare è necessario quel "di più" che solo una elevata conoscenza può infondere. Non c'è quantità, ma qualità, e questa qualità non richiede sforzo fisico, muscolare, pressioni e conoscenze scientifiche per potersi manifestare, ma ingegno, creatività, intuizione, fantasia, e proprio del contrario del lavoro fisico, cioè di "togliere" gli attributi muscolo scheletrici che di fatto ostacolano, impediscono quel flusso creativo che da solo è in grado di plasmare il suono e di attribuirgli quei caratteri di elevatezza spirituale che ognuno di noi possiede. Per cui non potrò mai smettere di insistere sul fatto che per conquistare la grande voce artistica bisogna lavorare sul piccolo, sul poco, sul sospirato, sul semplice. Ogni pressione, ogni spinta, ogni forza, ogni movimento indotto non fa che allontanare dall'obiettivo. Poi dietro a questo c'è bisogno anche di un pensiero (non mentale) che sostenga questa possibilità, perché la nostra mente ci allontana, ci distoglie e ci fa provare sensazioni negative. Più noi ci riconosciamo e ci immedesimiamo in questo corpo mentale, meno possibilità abbiamo di entrare nella nostra parte creativa e metafisica e quindi di dar vita a questa straordinaria creazione che è la voce sublime ed esemplare. 

lunedì, luglio 13, 2020

La bocca virtuale

Se è vero che all'inizio dello studio e per parecchio tempo, soggettivamente, si richiede un'attenzione e un utilizzo molto cosciente e intenso della bocca e di tutto ciò che le sta attorno (labbra, muscolatura del viso) e allo stesso tempo un'attenzione al rilassamento di tutto ciò che non deve essere teso (collo, nuca, sottomento, mandibola ...), è altresì vero che dopo un certo tempo tutta l'articolazione orale deve diminuire fin quasi a sparire, come quando si parla normalmente. 
Nella prima fase dello studio ci sono alcuni importanti elementi da controllare e sviluppare. La perfetta dizione, la cui esigenza mette in moto l'evoluzione respiratoria, è ostacolata da rigidità dei tessuti e dell'apparato in genere, con le reazioni istintive che si generano per vari motivi già esposti mille volte. Il ruolo fondamentale che si dà alla bocca ha lo scopo di "insegnare" al fiato il percorso da compiere e a relazionarsi con i giusti spazi. Inoltre, mediante l'uso di opportune consonanti, si procede a uno "spostamento" in avanti del canto e delle singole vocali. E per l'appunto qui sta poi il passaggio alle fasi due e tre, quando, cioè, una volta superato questa necessità primaria, il canto non è e non deve più interessare l'articolazione fisica, se non in minimissima parte. La voce nasce e si sviluppa fuori, facendo leva sulle vocali pure, che hanno proprio fuori e a una certa distanza il FUOCO della propria perfetta nascita ed espansione. Il problema però è che ognuno di noi viene richiamato in continuazione dall'istinto a gestire fisicamente tutta la procedura vocale, quindi anche quando ci sono le condizioni respiratorie affinché la voce possa percorrere correttamente questo tragitto, il timore che incute l'istinto richiama continuamente verso l'interno. Nella fase tre il problema non esisterebbe più perché il fiato è talmente sganciato dalle funzioni istintive da non lasciarsi più di tanto intrappolare, però se non si riesce a consapevolizzare questa, diciamo così, proiezione (anche se il termine può portare ad errori), alla fase tre non ci si arriva. Allora un suggerimento (anche se si tratta sempre di immagini, verso cui sono contrario, e che quindi possono essere utilizzate per un tempo minimo), può essere quello di ritenere che la nostra bocca fisica cessi il proprio ruolo, e si crei una sorta di bocca virtuale esterna, più grande e più distante da noi. Questa sensazione potrebbe aiutare a rilassare la nostra bocca e a utilizzarla in modo più delicato e minimale. Ma qual è la vera difficoltà che ci porta a dover pensare a delle strategie anche psicologiche per superarla? Il fatto che ragionando fisicamente, non ci possiamo rendere conto che il fiato da solo abbia la capacità di generare le nostre vocali in modo perfetto; siamo sempre legati a un'articolazione "masticatoria". Questo non succede nel parlato normale, e infatti per questo motivo (non solo questo) noi passiamo sempre attraverso il parlato, per cercare di renderci conto che esso ha già normalmente la capacità di far nascere la parola esternamente, senza eccessi articolatori. Ma quando passiamo a un canto, specie se lo vogliamo "importante", questa condizione sparisce, pensiamo di "cantare", cioè di fare una cosa diversa, distante dal parlato, non riusciamo a immaginare un parlato intonato, specie nel settore acuto, e questo perché la mente fisica non riesce a collegare le due cose, essendo la prima contenuta nel DNA, ormai consolidato, la seconda no, e quindi da osteggiare come indesiderata e potenzialmente pericolosa. Il canto artistico esemplare non ha quasi più bisogno degli organi fisici; l'unico elemento che deve lavorare, pur in uno stato molto meno impegnato di quanto si crede e si fa (vedi la spinta che tutto rovina) è il fiato, il quale deve solo poter scorrere, scivolare, non essere premuto, schiacciato, ecc., e i canali respiratori solo inerti "tubi" entro cui esso passa. Raggiungendo il perfetto equilibrio relazionale con la laringe, è come se anch'essa sparisse, quindi è come avere un unico tubo, che percepiamo vuoto, tra il nostro interno e lo spazio esterno (diciamo l'acustica)  dove nascono e si diffondono le vocali e l'intero canto.  

sabato, luglio 11, 2020

L'interruttore

Leggendo qua e là di cose sul canto, ho avuto la percezione che per molti, insegnanti e cantanti, è come se esistesse un misterioso interruttore girato il quale si ottiene una impostazione lirica; il tempo delle lezioni è più che altro dovuto all'apprendimento del repertorio e alla ricerca di questo famigerato interruttore. Lo potremmo chiamare tecnica. Se io potessi conoscere la tecnica in poche ore... tak! sarei a posto. Non c'è la consapevolezza di una necessaria evoluzione, di una crescita, di uno sviluppo. Ma questo posa le basi sull'erroneo, grave, pensiero che il canto sia un procedimento fisico e meccanico, per cui dovremmo imparare a manovrare le leve giuste. Il fiato è "solo" un serbatoio che dobbiamo aumentare di capienza. Quindi, secondo costoro, uno non riesce a cantare perché non ha la tecnica, cioè non ha capito come girare gli interruttori giusti. Sullo stesso piano c'è la cosiddetta "uniformità delle vocali", cioè non intravedono un'evoluzione respiratoria che rende perfetta ogni vocale, nella propria specificità, ma "basta" uniformarle, cioè non dirle più nella loro realtà, ma modificarle più o meno tutte verso la O e la U. Ancora ieri, sfogliando vecchie riviste, ho ritrovato un articolo di Rodolfo Celletti che diceva testualmente che nel canto le vocali non si dicono come quando si parla ma facendo le intervocali. E questo era un grande ammiratore di Schipa!! L'incoerenza manifesta! E purtroppo quanti cantanti gli hanno dato retta e ci sono pure andati a lezione. Come andare a lezione di grammatica da uno che non ha finito la prima elementare. Ma di insegnanti così ce ne sono a bizzeffe, pure nei Conservatori. Nessuno che provi a mettersi in discussione, che provi a riflettere che forse è su una strada su cui non si risponde ai perché più elementari. Basta che si ottenga qualche risultato. Allora, interruttori non ce ne sono, non c'è una tecnica manuale o fisica per cui spostando qualcosa si ottiene una diversa risposta da parte della voce e improvvisamente diventa bella, forte, estesa... ognuno di noi ha in potenza queste caratteristiche, ma la nostra realtà fisica-animale ci impedisce di portare facilmente in superficie questa potenzialità, e la strada è una mini evoluzione che riguarda il fiato, che da semplice scambiatore chimico-gassoso deve diventare un alimentatore vocale, cioè deve poter adempiere a un compito, non facile, diverso da quello istintivo e "naturale" e che per questo subisce contrasti e opposizioni, e che quindi richiede, per potersi liberare, di una disciplina che non è più di tanto fisica, anche se richiede molto esercizio, ma concentrazione e comprensione della Conoscenza, cioè di quella parte metafisica che è della natura umana e che fuoriesce dalla Natura normalmente intesa. Questo non è che non lo si capisce, ma non lo si vuol capire, perché ci sono remore psicologiche e mentali (previste dalla Conoscenza stessa) e che purtroppo rallentano quando non bloccano addirittura il percorso di apprendimento. Quindi questa disciplina finisce per essere assimilata alle tante tecniche, e gli esercizi, invece di diventare centri di riflessione e di superamento degli ostacoli del nostro corpo, diventano meri campi di ginnastica, rendendo anche più faticoso l'apprendimento. Del resto non ci si può far niente, perché questa è la dura legge della verità, che per salvaguardarsi deve proteggersi e celarsi, salvo accettare rare eccezioni per potersi riconoscere ed Essere.

lunedì, luglio 06, 2020

Cantare "adesso"

Avendo scritto un post improntato all' "adesso", cercherò di chiarire come questo deve improntare il lavoro del cantante e dell'allievo. Nella mia scuola per molto tempo i primi esercizi sono di parlato, puro o intonato, cominciando da una nota, poi allargato a tre note, poi cinque, ecc. In questa fase il controllo presente da parte dell'insegnante, ma anche dell'allievo o del cantante che si prepara, deve essere volto a ciascuna lettera, ciascuna sillaba, ciascuna parola, ciascuna nota, ciascuna frase. Niente di meccanico, fatto tanto per fare, improntato a verificare che sia tutto vero, niente suoni strani, approssimativi, similari, falsi. Le parole devono portare il loro messaggio, esaltato, laddove intonato, dalla melodia musicale. Anche quando una semplice, banale, frase, viene intonata su una sola nota o su una semplice scaletta di due o tre note, si deve raggiungere il miglior risultato espressivo e significativo. E' del tutto possibile, e occorre vivere ogni attimo dell'esecuzione affinché sia raggiunto l'obiettivo. E' del tutto inutile mettersi a fare le filastrocche ripetitive e noiose pensando che l'esercizio sia utile in sé. In questo modo ci si stancherà e basta, e questo modo di fare darà l'illusione di impegnarsi tanto, di essere diligenti, pervicaci... ma se non si sta nel momento presente, quell'attività sarà molto meno significativa di quanto si ritenga. Qualcun altro facendo molto meno potrebbe ottenere risultati migliori. Ma i problemi veri sorgono successivamente. Passando a un vocalizzo su una scaletta o un breve arpeggio, cosa succede, quasi sempre? che il cantante, e soprattutto l'allievo, non sta più nel presente, ma guarda al futuro e al passato, cioè si concentra sulle note più alte, trascurando quelle iniziali e di passaggio, quindi quando si inizia le prime note (ponendo siano le più basse) risultano difettose guardando e cercando di far bene quelle acute, il che spesso non avviene. Dobbiamo porci nella giusta e vera prospettiva: ogni suono è figlio del precedente (se c'è) e artefice del successivo. Se io curo artisticamente il primo suono, preparo implicitamente il secondo, quindi non abbandono il primo, ma lo faccio diventare un tutt'uno con il secondo, quindi non c'è più un passato, ma solo un presente che contempla il primo e secondo suono; questo si andrà a fondere con il terzo, e anche questo diventerà il presente, e così via fin quando l'esercizio è terminato, e quindi quando tutte le note, siano tre, cinque o... cinquecento, diventeranno un uno, cioè un presente, perché ciascuna nota, sillaba, parola... è stata vissuta nel suo adesso, e il tempo musicale si è azzerato; solo chi è fuori da quel contesto, chi non ha vissuto quel processo, contempla il trascorrere del tempo fisico, orario. Questo è l'hic et nunc, il qui e ora. Questo semplice esempio è applicabile... a tutto! Quindi si tratta solo di mettersi sotto e creare unità meravigliose. Cerco di chiarire ancora meglio. Cosa può legare il primo e il secondo suono, questi al terzo, ecc.? la tensione. In un esercizio base, quindi scalette e arpeggi, non c'è un ideale compositivo, è solo un esercizio fatto allo scopo di far emergere eventuali difetti e correggerli. Ciò significa che non vi sono relazioni, che non sono "musica"? Se si pensa che non siano musica, si sta sbagliando pesantemente approccio! Anche un testo inventato, una filastrocca, potrebbero essere insignificanti, ma non deve essere così. Le relazioni si possono sempre individuare, un minimo di tensione, in più o in meno, c'è sempre; si tratta di coglierla e valorizzarla. Se si vuole corrispondere a un progetto artistico, nulla è da considerare insignificante, banale, fine a sé stesso, finalizzato "solo" a mero esercizio, anzi potremmo dire che proprio scoprendo i sottili e tenui legami di un semplice compito, saremo in grado poi di vivere con sicurezza le grandi e complesse relazioni delle opere e delle composizioni più ampie, evitando le "interpretazioni" e le sovrapposizioni, le artefazioni e le sovrastrutture per intervenire laddove non si è capito com'è quel brano e ci si vuol mettere del proprio, laddove si rischia di cancellare proprio il prodotto più genuino e veritiero infuso dall'autore. Quindi ci si concentri proprio sulle piccolissime forme per allenarsi e imparare a vivere l'attimo fuggente, come in ogni vero percorso d'arte. Ne godrete con gran soddisfazione e gioia quando riconoscerete il valore più profondo nelle composizioni più geniali.
Aggiungo un dato, per completezza, che si ricollega a un argomento già più volte trattato, anche recentemente: la memoria! 
Ritenere che la memoria abbia un ruolo nell'apprendimento del canto, è erroneo, proprio in funzione di ciò che abbiamo detto. La memoria è fisica, e ci lega al passato e al futuro: "adesso riesco a fare questa cosa, 'in futuro' non riuscirò più a farla se me la dimentico". Ma la memoria funziona per appropriazioni sensoriali, quindi cosa potrà ricordare di una esecuzione vocale? Movimenti muscolari, sensazioni percettive fisiche. Ma se un'ottima formazione vocale TOGLIE, o vorrebbe togliere, ogni riferimento fisico, cosa c'è da ricordare? Anzi, proprio la smania di voler ricordare e di AVER PAURA di dimenticare, non farà che portare sulla strada della fisicità, senza contare che ci toglie anche dal presente, per vivere illusioni di passato e futuro ("ah, quei bei suoni che avevo fatto l'altra volta e che oggi non riesco a riprodurre!"; "questi suoni vorrei poterli fare anche le prossime volte"). Quest'ansia di dimenticare e di non migliorare, in realtà ci danneggia, perché toglie fiducia nelle nostre capacità evolutive, che invece sono nella specie umana, e che se noi non ostacoliamo (quindi non sto nemmeno a dire "se noi stimoliamo", basta non ostacolarle) sapranno compiere la propria opera. E' sempre questione di libertà!

venerdì, luglio 03, 2020

La paura e il tempo

Avere paura può essere una reazione istintiva quando qualcosa o qualcuno ci minaccia, cioè quando, seppur lontanamente, possa metterci in pericolo. Eppure capita molto spesso che si provi paura in situazioni che in nessun modo possono mettere in pericolo la nostra vita. Provate a pensare di trovarvi improvvisamente di fronte a una folla di persone e dover fare un discorso su un argomento di cui non sapere alcunché! (incubo che mi è già capitato di sognare). E' un esempio estremo, perché in realtà proviamo paure che poi definiamo insensate per cose molto più blande. Quando impariamo, quindi in una miriade di attività, a iniziare dalla scuola, ma anche al lavoro o negli hobby, ogni piccola cosa che affrontiamo ci fa generare una paura, finché quel determinato ostacolo non è superato, quindi pienamente appreso, incamerato, o almeno finché non lo crediamo. Le persone in genere ci stimolano a non farci problemi, a tranquillizzarci e non farci prendere dall'ansia in merito a questioni che non ci minacciano veramente. Ho un esame scolastico, e le persone ci dicono: "beh, se anche va male che potrà succedere? mica muori" Quando ero all'università, un amico, molto più anziano di me, a ogni esame diceva: "guarda, l'importante è che non ci picchino, il resto pazienza". E' una frase di buon senso, e vale anche per questioni molto più tranquille; un esame potrebbe compromettere un futuro lavorativo, un anno di scuola, ecc.; ma quando si impara a fare una cosa, scrivere, dipingere, suonare, cantare... noi proviamo una gradazione di paura ogni volta che ci accingiamo a fare qualcosa di nuovo o di non assimilato. La paura cosa causa? diversi problemi, perché l'istinto non ragiona, agisce e basta; la paura esistenziale prende le mosse dalle cause ataviche: paura di attacchi animali, di altri uomini, di fenomeni ambientali, quindi l'istinto agisce in modo da consentirci di non rivelare la nostra presenza, di fuggire, di difenderci, di chiedere aiuto, quindi inizialmente ci frena la respirazione (per non rilevare la nostra presenza) quindi ci fa affluire sangue agli arti, per difenderci e scappare; per quest'ultimo motivo c'è anche secrezione di sostanze chimiche che ci danno forza, coraggio, ecc. Ma tutte queste cose se sono o possono essere fondamentali di fronte a pericoli reali, sono o possono essere deleterie quando un pericolo non c'è. Quello che sappiamo fare benissimo "a casa", non ci riesce più altrettanto bene quando siamo a lezione o di fronte a un pubblico. La chiamiamo emozione, ma questa emozione è la paura. Trovo sia molto interessante cercare di capire da cosa dipenda. Più difficile cercare di eliminarla. La "vera" paura è legata al momento presente; se c'è un leone che potrebbe saltarmi addosso, un criminale che mi minaccia con la pistola o un terremoto, la paura è legata al presente; qualcosa o qualcuno potrebbe decretare la mia fine. Ma se sbaglio una nota o dico una cosa sbagliata, non mi succede, o non dovrebbe succedermi, niente di fisico, ma qui subentrano altre emozioni. La mia integrità può venir messa in discussione. Mi sento una persona con una dignità e un valore, se dico o faccio la cosa sbagliata, qualcuno può mettermi in discussione. La cosa è tanto più accentuata quanto maggiore è il mio ruolo nel contesto in cui opero. Se rischio di sbagliare come allievo, ci sta, proverò la paura del rimprovero e alla lunga del fallimento, ma se rischio di sbagliare come insegnante o come persona addetta ai lavori, il problema potrebbe essere molto più accentuato, ma non è sempre così, perché chi sta "sopra" gode già di una posizione solida, se non sta facendo un errore capitale e non ha ruoli sociali enormi (chi guida un aereo o un treno, per es. o chi governa o chi conduce una centrale nucleare...), non teme fortemente ripercussioni, al massimo una brutta figura, mentre chi impara può avere timori più forti se in particolare ci tiene a quanto sta facendo, perché rischia sul futuro. Ecco qui, il tempo. Perché ci sono persone che vanno a fare escursioni o arrampicate in zone ad altissimo rischio? Lì altro che paura; le possibilità di rischiare la vita sono altissime, anche se chi compie queste imprese ha una preparazione elevatissima. La risposta è semplice: queste persone vivono e devono vivere il presente! Tu che sei su un precipizio e se sbagli qualcosa non hai alcuna possibilità di salvarti, non può vivere nell'astrazione, nella distrazione, perché il minimo errore sarebbe fatale. Quindi queste persone trovano una motivazione del vivere il presente in una attività pericolosissima, cioè nel provare una paura vera, immediata. Chi studia prova una paura legata a un fatto contestuale, cioè sbagliare una nota, un concetto, una risposta,..., ma che ha minime conseguenze immediate, una sgridata, un biasimo, un dileggio, ma che potrebbe avere conseguenze nel tempo: "domani cosa scriveranno i giornali"; "cosa diranno ai miei genitori", "i miei amici mi prenderanno in giro", ecc. Ma a volte non ci sono nemmeno questo genere di timori, ma temiamo comunque di non riuscire a raggiungere le mete prefissate o in tempi molto, troppo, lunghi. La cosa realmente difficile e importante, per venire al sodo, è vivere il presente, l'istante, l' "adesso". La nostra mente ci inganna e ci tradisce su molte cose, perché il suo funzionamento fondamentale non è in linea con la nostra vita di uomini creativi, ma sempre come animali con un programma di vita più semplice e meccanico di quello che svolgiamo noi oggi. Suonare, cantare, scrivere, e quindi imparare in genere cose non fondamentali alla nostra vita esistenziale, non è compreso, e quando lo facciamo la nostra mente teme in quanto non comprende ciò che stiamo facendo, che non è legato al presente. E' la stessa cosa della respirazione, che la mente non comprende perché vogliamo modificarla per dedicarla al canto. Purtroppo questo ci mette nella condizione di non sapere in modo cosciente cosa stiamo facendo, viviamo in una condizione di distrazione, ovvero non riusciamo a CONCENTRARCI. Cos'è la concentrazione se non la capacità di vivere in modo pieno l'adesso? Anche qui abbiamo le numerose situazioni umane; ci sono persone che per indole hanno una capacità innata di vivere il presente, quindi di essere concentrati e di apprendere istantaneamente, e quindi di non provare paure immotivate; al contrario ci sono persone iper distratte, che non riescono facilmente ad apprendere perché soggiogate da continui e forti timori, e purtroppo proprio nella condizione più probabile di non riuscire per questo motivo. Ho già affrontato qualche tempo fa il problema del presente, e di cercare di vivere le lezioni sul momento, senza lasciarsi fuorviare da sentimenti che non c'entrano. E' un percorso impegnativo, che da un lato può essere superato grazie alla fiducia nell'insegnante, che ci aiuta a svelare la coscienza e ci sostiene, ma la vera forza può venire solo da noi stessi, riflettendo e ponendoci in una situazione di calma interiore e, ancora una volta, di eliminazione di tutti quegli inutili tormenti, che sono illusioni e inganni della mente. La fiducia in noi stessi e nelle nostre potenzialità; la fiducia che noi siamo gli artefici del nostro futuro, può darci la forza di diventare più efficienti, "laser", nel nostro quotidiano lavoro artistico.