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venerdì, agosto 14, 2020

l'applicazione

 Capita piuttosto frequentemente che le due parti di una lezione, cioè gli esercizi e l'esecuzione di arie, risultino anche notevolmente diverse tra loro; raramente succede che non si facciano particolarmente bene gli esercizi mentre risulti più efficace l'esecuzione di brani mentre molto più spesso succede, parlo soprattutto di allievi che frequentano già da un po' di tempo, che le arie, che cominciano ad essere anche di un certo impegno, risultino più difettose. Da un certo punto di vista ciò può essere normale, perché mentre gli esercizi si articolano su moduli semplici, da una nota a piccole scale o arpeggi, il canto vero e proprio imponga la necessità di salti in varie direzioni, cambi di vocali, necessità espressive, dinamiche, molto più complesse. Per questo esistono delle metodiche di studio che vengono applicate e consigliate, tipo cantare l'aria su una tonalità più comoda, cantarla su una o più vocali, premettere all'esecuzione dell'aria degli esercizi da svolgere con scale e arpeggi semplici sul testo dell'aria, ecc. Ma anche questi non sempre danno risultati particolarmente fruttuosi. Esiste innegabilmente una psicologia della lezione, che penso riguardi anche lo studio degli strumenti, per cui tra la parte di studio, definita "tecnica" e la parte del canto, definita "applicativa" viene avvertita una differenza che il più delle volte influisce negativamente. Intanto dobbiamo dire, in riferimento all'esempio fatto poco fa, che tra lo studio di uno strumento e lo studio vocale c'è una differenza abissale. Il pianista o il violinista o altro, deve realmente compiere un lungo e talvolta massacrante lavoro tecnico soprattutto di natura digitale, pur non dimenticando che anche in questa attività c'è un forte e importante coinvolgimento artistico, spirituale, che deve emergere e superare i limiti fisici, ma essendo gli strumenti esterni all'uomo e inventati, con varie limitazioni, c'è la necessità di adattarsi a uno strumento che non risponde a dei canoni naturali. Il canto è diverso, lo strumento è nostro, fa parte del nostro corpo e tutto ciò che si relaziona con esso, fiato, muscoli, cartilagini, ossa, fa parte del nostro funzionamento naturale, e non dobbiamo (NON DOBBIAMO) inventarci niente, non dobbiamo pensare di studiare delle tecniche e delle modalità per farlo funzionare di più o meglio di quanto non faccia; l'unica cosa che dobbiamo fare è innescare un processo evolutivo che porti il canto (fiato) a dare il meglio di sé, la qual cosa non è prevista naturalmente perché il canto non ci serve per vivere e sopravvivere, e nemmeno comunicare (basta la parola). E' una necessità spirituale che quindi richiede un approccio anche di tipo filosofico, ovvero una conoscenza metafisica che ci porti a conoscere i fondamenti dell'arte (vocale, in questo caso) e che quindi ci conduca a portare il canto a un livello di coscienza pieno e a farlo elevare a nuovo senso, diventando in questo modo naturale, cosa che istintivamente non è e non può essere. Per far questo, ricordo, è necessario superare, abbattere, l'ego, che è l'ostacolo più ostico che ci si presenta quando ci si approccia a un'arte. 
Anch'esso ha di certo una responsabilità nel discorso che sto affrontando. Gli esercizi sono considerati una ginnastica, un allenamento finalizzato a metterci in condizione di dare migliori risultati, ma quando si passa al canto, viene fuori la nostra passione, la nostra volontà di farci sentire, di farci valere. E quindi l'ego non se ne sta lì inerte, ma comincia a gonfiarsi e a intromettersi nella nostra attività, non accontentandosi di quella voce semplice, banale, che si usa negli esercizi, ma deve indurci a realizzare una voce veramente importante, lirica, potente, vibrante, bella, sonora, forte... Questa possiamo considerarla la problematica più imponente. Per questo questa scuola è difficile e con un futuro assai incerto, forse buio. Bisogna infatti comprendere che tra la prima e la seconda parte di una lezione non esiste una reale differenza! L'unica differenza sta nel fatto che la prima è più semplice (ma non tutti saranno d'accordo), per "mettere in moto" il fiato e far sì che possa portarsi alla migliore condizione possibile quando si affronta la seconda. Ma spesso e volentieri invece la prima parte risulta difficile perché non si riesce a entrare in quel mondo di semplicità, di rilassamento, di accettazione dove non c'è da fare niente, se non metterci sincerità in quello che stiamo facendo, senza cercare meccanismi, senza esagerare ogni movimento; questo porta a stanchezza e comunque a non mettere in relazione gli esercizi con l'applicazione. L'esercizio, nel canto, E' CANTO, è da considerare già un'aria, e l'uso della parola, che viene, almeno in parte, sempre impiegato, deve essere applicato con la stessa verità che si dovrà poi usare nel canto. Quando gli esercizi sono fatti bene, possono dotarci di una voce particolarmente pura, aerea, libera, il che, quando si andrà a cantare, non piacerà (soprattutto all'ego) perché ci sembrerà "diversa", non adatta a quella dei cantanti lirici imperanti, troppo banale, che poi non si sentirà in un grande ambiente. Non ci rendiamo conto, cioè, di avere in mano realmente uno strumento divino, che proprio per la sua facilità e purezza, è quello giusto e indispensabile per far arte. Con i rumori della gola, con le frizioni, gli ostacoli che si creano in gola, in bocca e in ogni altro spazio e organo coinvolto si fa solo una misera imitazione del canto, siamo costretti a spingere, a gridare per cercare di farci largo tra gli ostacoli, non rendendoci conto che in questo modo li stiamo creando noi!. Però c'è un elemento che dobbiamo altresì indicare: la paura. Nel momento in cui si fanno degli "innocui" esercizi, la persona si sente coinvolta in un processo di apprendimento, come quando si studia una lingua, finché si tratta di memorizzare termini, di studiare i verbi, ecc., può andare tutto bene, ma quando si passa a parlare, a dover ricreare circuiti di formazione di frasi, di fronte a chi già sa parlare quella lingua, il blocco è quasi automatico. Quindi si deve affrontare il muro della paura, che qualcuno pensa sia limitato al campo degli acuti, che certamente impegnano di più e possono più facilmente nascondere le insidie che portano a steccare, stonare o ottenere cattivi esiti, ma che in realtà entra in azione ogni qualvolta affrontiamo qualcosa che non è compresa dalla nostra ragione, cioè non fa parte della nostra parte razionale e fisica, ma proviene dalle nostre esigenze spirituali. La soluzione è quella di "scendere", di non vergognarsi di fare cose banali, di mantenere quella umiltà, semplicità, degli esercizi, cioè non illudersi che passando da una parte all'altra si entra nel mondo holliwoodiano, fatto di luci ed effetti speciali, ma si rimane con i piedi per terra, su un normale pavimento e in una semplice stanza, dove si può e a volte si deve sbagliare, ma dove è anche necessario sperimentare e provare a sé stessi che l'evoluzione c'è e la si persegue e qualunque volontà di far sentire che abbiamo una voce, abbiamo un talento, dei mezzi speciali, è destinata a rallentare il nostro percorso, a farci tornare indietro e a impedirci di conquistare l'arte. E' una lotta dell'animale contro il divino che c'è in noi, e non dobbiamo permettergli di intralciarci i piani, consentendogli di farci credere ciò che non siamo.

3 commenti:

  1. Dobbiamo liberare il nostro spirito dall'ego e lasciarlo libero di volare.

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  2. Necessità spirituale e approccio filosofico. Queste parole le ho sentite dire al tenore Giacomini in una lunga intervista.Non mi piace la sua vocalità e per averlo scitto,mi hanno massacrato😅ma tutta l'intervista dimostra l'estrema spiritualità di quest'uomo verso il canto e il dono che ha ricevuto. Un abbraccio.

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  3. Discorso lungo; la filosofia è una materia di studio, come tale fa parte della cultura, dell'intellettualismo. Ho sentito diversi cantanti discettare di filosofia, senza che questa entrasse minimamente nella loro vocalità. In effetti, come ho scritto diverse volte, ciò a cui noi facciamo riferimento non è propriamente la filosofia, ma la gnoseologia. In ogni modo il punto è questo: il m° Antonietti non era un filosofo, non era un intellettuale e non aveva una cultura particolarmente approfondita. Non ha, dunque, applicato la filosofia al canto, ma fu indotto ad approfondire quanto gli era capitato, cioè dopo quasi 20 anni di studi infruttuosi, già oltre il limite di sopportazione, per via di una passione quasi maniacale, seguendo non l'insegnamento ma l'esempio di Giuseppe Giorgi, si ritrovò improvvisamente una vocalità totalmente libera. Questo fatto, quasi shoccante, lo indusse a cercare di capire tutti i perché gli si presentavano, e quindi cominciò a studiare e a essere coinvolto in un discorso gnoseologico (che allora non sapeva minimamente cosa fosse). Giacomini io l'ho sentito più volte, era un tipico tenore di forza (in tutti i sensi) e raccoglie, come altri, il consenso fanatico degli amanti del canto muscolare, tutto fortissimo, "maschio". Non ha niente a che vedere con l'arte vocale, quindi se ha una cultura filosofica è puramente astratta, del tutto slegata dal suo operare. Il M° Celibidache, che invece aveva già studi filosofici universitari, applicò la filosofia alla musica ed elaborò una "fenomenologia della musica", applicandola operativamente, cioè non ne fece un discorso teorico e astratto. Questo è il punto. Non si tratta di sapere e di conoscere la filosofia, ma di essere coinvolti dalla metafisicità dell'arte e di porsi domande sull'origine e lo sviluppo di essa.

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