Translate

lunedì, giugno 28, 2021

Della concentrazione

 Dopo poco tempo da cui seguivo il m° Antonietti, mi resi conto che quella scuola richiedeva una grande concentrazione; nelle altre scuole che conoscevo, c'era una esagerata attenzione ai dettagli fisici (pensare al tipo di respirazione - spingi in giù, butta fuori la pancia, appoggia sulle reni.... - pensare a dove mettere il suono, tra gli occhi, dietro il palato, ecc. ecc.), mentre qui l'attenzione doveva essere rivolta all'esterno, a COME era la voce, quindi attenzione a ciò che risultava a chi ascoltava, quindi diventare uditori e spettatori. A me questa concentrazione non costava molto, anche se mi rendevo conto che era un impegno non indifferente. Mentre ci sono persone che riescono a concentrarsi su tutto ciò verso cui rivolgono studio e attenzione (più o meno), io ho sempre avuto un'applicazione selettiva, quindi posso concentrarmi molto sulle cose che mi interessano realmente, come è stata l'architettura e la musica in genere, ma soprattutto il canto (anche se è arrivato solo intorno ai 19 anni, buon ultimo!), ma con difficoltà anche notevoli verso ciò che non riesce a stimolarmi, anche se magari vorrei. Come ho già detto a sazietà, la volontà spesso non coincide con ciò che ci proviene dal nostro spirito, che decide per noi ciò verso cui siamo proiettati. Non escludo che si possa allargare la platea degli interessi, ma occorre una eccitazione forte, dettata da qualche persona o qualche lettura fortemente stimolante. 

Riflettendo sulla concentrazione, ho individuato forse un punto debole della mia azione docente. Se ho un bagaglio di esperienze e di conoscenze relative al canto di vaste dimensioni e lo metto in pratica con tutti gli allievi, forse non mi preoccupo a sufficienza di farli entrare nella giusta concentrazione. Mi rendo conto, dopo un certo tempo dall'inizio della lezione, che la loro mente lavora e si stanca, mentre io procedo, pur rendendomi conto dell'impegno, implacabilmente, ma forse a quel punto la didattica non è più efficace. Allora un primo punto è che dovrei alleggerire, anche in base alla capacità di concentrazione dei singoli. Un secondo punto potrebbe essere di riuscire a indurre un livello di concentrazione più elevato e stabile. Sono dell'avviso che comunque, per chi fa una scelta artistica, la capacità di tenuta nel tempo può e deve aumentare. A qualcuno costerà di più, ma è un prezzo necessario. 

Rileggendo il libro: "Lo zen e il tiro dell'arco" di Eugen Herrigel ho trovato un paragrafo particolarmente interessante (tutto il libro lo è, e le analogie con questa scuole sono infinite, ma su questo punto non avevo ancora riflettuto molto); l'autore descrive cosa fanno alcuni maestri zen all'inizio di una lezione. Ad esempio il maestro di composizione floreale arriva, prende il mazzo di fiori, slega il nastro che lo avvolge, ripone meticolosamente il nastro, sceglie i fiori per la composizione, ecc. Il maestro di disegno a china, arriva, tritura le sostanze per il colore, prepara la carta, ecc. Il tutto nell'apparente totale indifferenza verso la classe. E', insomma, un rito iniziale, una cerimonia, che non serve al maestro, che è già del tutto concentrato prima ancora di iniziare, ma per creare quell'attenzione e quel "clima" di coinvolgimento massimo. Gli allievi non fanno niente, osservano, ma allo stesso tempo si immedesimano e si calano nella situazione. Il silenzio, il fatto di non essere in quel momento in gioco, quindi in uno stato di rilassatezza, richiamati dalle operazioni meticolose compiute dal maestro, creano una condizione di innesco della concentrazione e della voglia profonda, non solo superficiale, di entrare nel flusso operativo. 

Qual è, poi, il culmine di una reale concentrazione e presenza spirituale? L'unificazione tra spirito e corpo fisico. Quando è il nostro spirito ad operare in noi, quindi noi viviamo pressoché passivamente il gesto artistico, dominato e controllato dal nostro spirito per mezzo della mente (e del cuore), diventiamo tutt'uno, quindi veri artisti che non hanno più bisogno della tecnica, che è da considerare una "scala" che ci permette di salire all'olimpo del sublime. Sublime proprio inteso come assenza di materia: sottigliezza, vaporosità, nuvolosità, inconsistenza, sofficità, evanescenza, morbidità, impalpabilità e quindi spiritualità. Se non si comprende il legame: cantare come parlare, abbassate ancora il livello: mormorate!!

sabato, giugno 26, 2021

Rilassatezza e presenza spirituale

La rilassatezza corporea è un dato fondamentale nell'approccio a un grande canto. E' del tutto impossibile poter emettere suoni validi se manca questo requisito. Ma se questo può essere già un elemento imprescindibile affinché gli apparati possano lavorare correttamente e dare il meglio, l'aspetto ancora più importante, diciamo il passo successivo e teso alla fase di perfezionamento, riguarda il fatto che solo grazie a un totale rilassamento sarà possibile alle nostre forze endogene, spirituali, assolvere il loro compito. Dobbiamo considerare che un'arte consiste nel lasciare che sia il nostro spirito a lavorare, a svolgere la missione; noi dobbiamo "lasciarci andare" affinché egli possa operare al livello supremo di cui è capace. E' una questione di modestia, di umiltà, ma anche di reale appagamento. Noi discipliniamo il nostro corpo affinché egli possa operare in totale libertà. Le nostre membra sono legnose, ingessate, dure, i nostri movimenti meccanici, discontinui. Gli anni di apprendistato a cosa servono? ad ammorbidire, a slegare, a liberare tutti i nostri tessuti dalla situazione "animalesca" cui sono costretti dalla nostra natura. Ma la natura umana, seppur a un livello incosciente, prevede questa libertà e questo stato divino, però entra in conflitto con quella primaria, che ci assicura la vita e la difesa. Dunque il tempo della preparazione, non è imparare la tecnica, cioè trucchi e manovre per aggirare le difficoltà senza sapere a cosa le dobbiamo e quindi come debellarle, ma portare il corpo a quello stato di quiete e di inerzia per cui è possibile lasciare l'iniziativa a colui che ci ha spinti a fare arte. E' purtroppo una disavventura dell'uomo. Noi abbiamo imparato, con l'evoluzione scientifica, a debellare o mitigare i sintomi dei mali. Abbiamo mal di testa? c'è quel farmaco. Abbiamo mal di denti? C'è l'antibiotico (quasi per tutto). Però i mali persistono e anzi aumentano, perché non interessa realmente andare alle cause, perché nella nostra civiltà la salute è un business fondamentale, per cui dobbiamo dipendere il più possibile da farmaci, integratori, esami, terapie. Meno si conoscono le cause, meglio è, per il nostro ciclo economico, al punto che trovare le cause può anche risultare pericoloso, e ancor più trovare reali rimedi. Ma lasciamo stare questo discorso, che alla fin fine è inutile. Però, per analogia, diciamo che nel canto è la stessa cosa; non interessa capire perché cantare è difficile, perché ci sono determinati ostacoli, difetti e carenze; ogni scuola ha i propri metodi per cercare di superarli, salvo il procurare altri difetti, perché se la causa non è realmente superata, entreranno effetti secondari, come le medicine. 

Perché facciamo arte? E' una domanda sempre da porci. Ogni volta che andiamo a lezione bisognere chiederci: "perché siamo qui?" L'arte è inutile, non serve, dunque la motivazione, spesso forte, una vera esigenza, che nasce in noi e talvolta ci perseguita, viene da qualcosa di profondo. Se non accettiamo e non prendiamo coscienza di questo, stiamo facendo qualcosa di fine a sé stesso, destinato a scomparire. Se lo facciamo solo per fare qualcosa che ci può dare un'occupazione retribuita, bene, ma questa scuola è del tutto fuori luogo. Se non vi interessa raggiungere la perfezione, anche. Se ci rendiamo davvero conto che la nostra passione e il nostro desiderio di fare un'attività come un canto di qualità proviene da qualcosa di indefinibile, ma potente, che opera in noi, bene, ma allo stesso tempo dovete considerare che voi siete un mezzo, uno strumento biologico che dovrà mettersi da parte e far sì che quella forza possa utilizzare i nostri mezzi per operare. Quando questo comincerà ad avvenire, voi vi stupirete, e forse reagirete, perché cantare come se stesse cantando qualcun altro, è un'esperienza che può anche scioccare all'inizio. Percepire la quasi completa mancanza di attività volontaria nei muscoli e nelle ossa, non è cosa che può lasciare indifferenti. Però bisogna entrare in questa dimensione, altrimenti il tempo passerà invano. In un certo senso possiamo dire che chi fa, chi cerca di fare, chi vuole attivamente cantare, non fa che ostacolare e impedire che emerga il vero canto. Dico spesso: accontentati di un risultato che ti può apparire modesto, semplice, ingenuo. Gli allievi dicono sì con la testa e magari con la voce, ma restano distanti anni luce. Non solo non riescono, ma non vogliono farlo, alcuni inconsciamente, altri anche volontariamente, perché vogliono dimostrare, vogliono intenzionalmente "fare" la voce, ingrossarla, spingerla, potenziarla. E' così passa il tempo e i risultati tardano, addirittura si arrestano e talvolta pure arretrano. Quando si ottiene un vero risultato, non è raro che si contesti, si dica: "tutto qui"? "così semplice"? e via dicendo. Il tubo vuoto, il galleggiamento (a corpo morto), sono analogie elementari di ciò che dobbiamo ottenere nella prima fase di studio per far sì che si apra la porta sull'universo della vera arte che potremmo persino definire "senz'arte", cioè talmente libera e fluida da apparire senza alcuna necessità di pensiero volitivo, di intenzione. Il cantante diventa un ascoltatore e un uditore di sé stesso ma come fosse qualcun altro. La passività delle membra deve diventare l'imperativo. Ma sembra un obiettivo impossibile, le forze istintive prevalgono e la concentrazione, la presenza, non è mai sufficiente neanche per avere dei timidi risultati. Purtroppo in una scuola d'arte non c'è un piano B, una seconda opzione, una via compromissoria. O si segue e si ha fiducia, e si sa che quella è l'unica strada per noi, o è meglio lasciarla, e prima la si lascia e meglio è, perché le ripercussioni psicologiche diventano più pesanti nel tempo. Non si deve aver paura di lasciare la strada dell'arte, se la si trova troppo impegnativa e lunga da apprendere. E' un percorso fortemente filosofico, diciamo così, ci coinvolge (ci DEVE coinvolgere) nel profondo, ci deve turbare i sonni, ci deve perseguitare in continuazione. Se no non è quello, è solo voglia di fare una cosa che ci piace, e allora bisogna rivolgersi a chi ci può seguire in quel tipo di attività, cioè ricreativa e di "buon" risultato. Qui si coltiva la perfezione. Se non si crede alla perfezione, si è sulla strada sbagliata. Bisogna fare esame di coscienza. Non si tratta di "accontentarsi", anzi, come ho già scritto, è qui che ci si accontenta, e che "non si fa", si "toglie"; se si vuol fare, o se si riesce solo a "fare", allora bisogna andare dagli insegnanti che fanno fare.

martedì, giugno 15, 2021

La presenza di spirito

 Un motto che talvolta viene citato è "ci vuole presenza di spirito". Come gran parte di proverbi, modi di dire, ecc., anche questo viene buttato là senza alcuna riflessione sul suo significato. Questa frase ha un contenuto fondamentale, importantissimo, di cui non è facile cogliere tutta la portata.

In più d'un'occasione ho richiamato l'attenzione di chi si sta accingendo allo studio del canto con serietà a rimanere "presente". La presenza mentale, l'attenzione, è un obiettivo già di per sé molto difficile da ottenere. La nostra mente è perennemente alla ricerca di situazioni distraenti. Più siamo impegnati, più lei ci manda impulsi volti a portarci fuori dall'attenzione verso ciò su cui ci stiamo concentrando. Al minimo errore: "ah, l'altra volta mi veniva"; "a casa l'ho fatto bene", "come mai oggi non riesco?" e via dicendo. A ciascun richiamo del maestro, l'allievo vuol spiegare perché ha fatto quell'errore, che magari una volta non li faceva, che si è dimenticato come si fa e via dicendo. Allora, tutto ciò significa soltanto: distrazione. La mente non accetta volentieri lo sbaglio, per cui si getta nel passato, più o meno prossimo o remoto, per cercare di spezzare la tensione che si crea in momenti come questo. Invece stare presenti significa non dare particolare importanza all'errore. L'errore è passato, via, si prosegue per una nuova prova. Ma l'esecuzione successiva non dovrebbe essere la copia della precedente, e invece il più delle volte lo è, perché la mente ha interrotto la concentrazione, e l'esecuzione diventa una sciocca sfida con l'insegnante, per "fargli vedere" che si è in grado di farlo. E in genere non si ascolta nemmeno cosa dice l'insegnante, uffa, voglio riprovare, far vedere che sono meglio di cosa crede (cioè di cosa io temo che lui creda!). Come se l'insegnante non lo sapesse. Ma proprio l'atteggiamento è il motivo per cui il più delle volte la ripetizione è nuovamente erronea, se non di più. Commentare un'esecuzione, a meno che non sia l'insegnante stesso a richiederlo, significa uscire dal flusso temporale musicale. Quando ci si concentra veramente e si entra nella "bolla" della musica, si esce dal tempo fisico, come se tutto il mondo attorno svanisse o rimanesse solo uno sfondo sbiadito. Conta solo e unicamente ciò che si sta facendo, e bisogna concentrarsi in modo estremo sull'esercizio, cioè sul particolare che il maestro ha indicato come fondamentale. In genere il cantante vuol cantare, vuol far sentire che ha la voce e che sa usarla. Invece non è così, altrimenti non sarebbe lì. Il maestro indica un elementare obiettivo, apparentemente semplice, ma che richiede tanta concentrazione e determinazione. E' del tutto inutile ripetere le cose a caso. La seconda volta che si esegue un esercizio, se il primo non è andato bene, non deve essere uguale al primo. Purtroppo è molto spesso così, e allora vuol dire che non si è abbastanza presenti, non si è concentrati, non si sta puntando realmente a fare arte, ma si fa tecnica, si svolge meccanicamente un rituale ciclico di bassa qualità. Quindi molto tempo già si butta via con l'obiettivo di raggiungere un elevato grado di presenza. Ma anche quando lo si sarà raggiunto, saremo ancora lontani dalla presenza di spirito. La presenza di spirito enuncia che... lo spirito è presente! Se noi partiamo dal presupposto che l'arte è una manifestazione dello spirito, il quale, essendo senza mezzi fisici, deve usare i nostri, cioè quelli del corpo che occupa, non possiamo però garantire che egli sia presente nel momento in cui cerchiamo di fare arte, perché il nostro corpo, con i sensi, l'istinto, la psicologia, ecc., si sovrappone e si antepone allo spirito, che in realtà, pur avendo dato vita a quell'esigenza, si trova messo in secondo piano (e a volte del tutto estromesso) dalle pretese narcisistiche del soggetto. Allora, quando scrivo e dico: "togliere", "non fare nulla", "lascia andare", ecc., cosa sto dicendo, in altri termini? Lascia che il tuo spirito ti guidi, che dia lui i giusti input. Per far questo occorrono alcuni prerequisiti: aver disciplinato, almeno grossolanamente, gli apparati, quindi cantare col e sul fiato, aver eliminato il più possibile le interferenze istintive, avere la voce sostanzialmente "staccata", quindi esterna e con pronuncia esemplare. Poi, come già detto, aver raggiunto un elevato livello di presenza. A quel punto entriamo in quella dimensione distaccata, dove noi ascoltiamo, diventiamo spettatori della nostra voce, perché lasciamo che sia lo spirito a guidare. Nei primi tempi può quasi spaventarci questo stato di abbandono e di delega del controllo a un ente invisibile che opera tramite la nostra mente (disciplinata), quindi lo sentiamo, lo avvertiamo, ci piace e ci fa provare un misto di smarrimento ma anche di grande gioia. Ma non siamo ancora pronti, quindi produrremo alcuni suoni, poi usciremo da questo stato, poi magari ci rientreremo, poi... saremo stanchi! Sì, questo stato, pur così semplice e per nulla faticoso, ci impegna la mente a un livello insospettabile, e quindi è possibile che ci stanchiamo, ma anche questo passa, e sarà proprio l'entusiasmo di questa nuova sensibilità a farci riprovare e a avvicinarsi sempre di più al vero. 

Allora dirò ancora una cosa che spero possa risultare interessante. Per chi segue questa disciplina avvertendo la sua similitudine a quelle orientali, può essere d'aiuto parlare di meditazione. Chi vuole avvicinarsi a questa pratica, spesso non sa come e su cosa meditare. Beh, a parte tutta una teoria, diciamo così, una preparazione e un'apertura mentale e fisica alle pratiche, che non tratterò, non essendo materia di mia competenza, ma che invito ad approfondire tanto più e meglio possibile, però posso indicare una via specifica che riguarda lo studio del canto. L'eseguire in modo perfetto una vocale, quindi sillabe, parole, frasi, può diventare una pratica meditativa. Si parta dall'eseguire su una nota, facile, una vocale in modo perfetto, e rieseguirla più volte senza fallire, poi si cambierà nota, poi vocale, ecc. Quella sensazione di vuoto, di totale mancanza di opposizioni, di ostacoli, di fatica, di coinvolgimento fisico, quindi di distacco totale e di coinvolgimento, pur minimo, solo del fiato, deve diventare talmente proprio, da poter diventare un sogno, un pensiero concreto, per cui in ogni attimo della vita, da quel momento, ognuno potrà sentire di poter emettere infallibilmente quella vocale su qualsivoglia nota della propria gamma, allo stesso modo (anche senza farlo realmente). Questa è la presenza di spirito, cioè non intervenendo personalmente, non "facendo niente", ma lasciando fare, come parlare con il massimo della semplicità. Solo ascoltando e riconoscendo che si sta facendo arte, perfezione, esemplarità. Tutto qua!

venerdì, giugno 11, 2021

La porta chiusa

 Come per altri post di questo blog, dove cerco di spiegare a parole qualcosa che non si può spiegare (e forse non dovrei), chiedo a chi legge di prenderlo con le pinze, cioè di non dargli troppa importanza. 

La porta chiusa quale sarebbe? quella principale, cioè la bocca. Ma, come credo sia noto, rifulgo da consigli tipo vocalizzare a bocca chiusa, che è uno dei peggiori possibili! Quindi quando parlo di chiudere la porta, non intendo in nessun modo chiudere la bocca. L'apertura orale rappresenta un sottile diaframma virtuale tra il dentro e il fuori. All'interno dello spazio oro faringeo avviene la nascita di un fenomeno acustico "normale", cioè la produzione di un suono, una vibrazione regolare di corpi elastici, le c.d. corde vocali, le quali non hanno elevati privilegi sulla qualità di questo suono, e meno ancora su quello che noi poi definiremo voce finita. L'apparato articolatorio-amplificante può recepire quel suono e "sgrossarlo", cioè dare un'impronta e un colore in base allo stimolo neuro-cerebrale, all'informazione, ricevuta. Ma ancora il processo non è finito, e non è e non può ancora essere un elemento perfetto, artistico, esemplare. Esso si può concludere solo oltre quel limite orale costituito dalle labbra. Fin qui sono cose già dette e ridette. Cosa voglio aggiungere, anche se pure queste non sono novità? Ripetendo e ridicendo le cose, magari con parole un po' diverse, può essere che qualcuno colga qualche sfumatura che può illuminarlo. La questione si pone nel tragitto tra dentro e fuori. Se infatti l'idea è di "far uscire" il suono, quindi in qualche modo di premerlo, spingerlo, o altro verbo che in qualche modo possa indicare un transito da dentro a fuori, per quanto delicato, è fuori strada. Si può dire che vi sia una duplicità, una sorta di "razzo" a due stadi, dove il suono possiamo dire che continua a restare dentro mentre la voce vera e propria si materializza esternamente, come fosse indipendente dal suono. Quest'ultimo è la materia grezza, pesante, che decade, che sedimenta; la voce artistica è la distillazione, il vapore, l'elemento puro, impalpabile, senza peso che ne deriva e che si ritrova all'esterno quasi magicamente. Tra il dentro e il fuori bisogna arrivare a credere che non ci sia (più) alcun legame. Ciò che avviene internamente è cosa che non deve interessare, e su cui non dobbiamo in alcun modo intervenire. A noi deve interessare unicamente ciò che avviene fuori. Quindi è utile ritenere che tra le labbra vi sia una sorta di porta che durante il canto si chiude alle spalle della voce; ciò che è dentro è dentro e ciò che è fuori è fuori. Questo perché l'idea di "far uscire" il suono, cioè di aiutarlo in qualche modo a esistere e tenerlo in vita, immancabilmente è legato all'attività muscolare, invece che quella respiratoria. Il fiato esce senza necessità energetica, se noi abbiamo creato le condizioni affinché questo accada. La voce si alimenta, si rifornisce di fiato indipendentemente dalla nostra volontà e dalle nostre azioni, se è veramente voce pura e "staccata" dal corpo, cioè prodotta da una pronuncia perfetta, irreprensibile, continua. Viceversa quel collegamento che si mantiene tra dentro e fuori è in realtà fibroso, materiale, quindi muscolare e dipendente. Questo è un concetto basilare che possiamo verificare in ogni attimo quando parliamo. Il parlato non ha bisogno di niente, se non ha carenze o difetti seri per cause patologiche, ereditarie, traumatiche, ecc. Il grande canto, come il buon parlato è l'unificazione dei tre apparati; mentre noi cantiamo (parliamo), respiro, organo e articolazione diventano un tutt'uno, inscindibile fin quando non commettiamo errori o ci dissociamo da quel flusso mentale. Anche alcuni aspetti su cui noi stessi insistiamo per diverso tempo, tipo l'aprir bene la bocca e l'articolare molto le parole, con la maturazione e i progressi, deve gradatamente sparire, nel senso che il canto non deve generare smorfie, masticazioni, versi, tensioni della bocca, del viso, del naso, della fronte, ecc. Il volto deve restare sereno e partecipare sul piano espressivo a ciò che si canta. Si ASCOLTA la propria voce, non la si produce volontariamente con azioni, si diventa spettatori e ascoltatori, quando si è raggiunta l'evoluzione respiratoria atta a determinare una voce artistica. Si controllano "gli interessi", si canta gestendo gli armonici, lo squillo vocale, che deve rimanere sempre uguale, nell'alto come nel basso, senza gridare, senza cercare di legare le vocali, ma legare pronunciando, ripetendo e ribadendole, sempre, senza distrazioni e senza pietà!

 

domenica, giugno 06, 2021

La Musica

 Volete sapere cosa intendo con "la Musica"? Ve lo mostro. Per un caso fortuito il maestro Raffaele Napoli, giurato in un concorso internazionale, ha scoperto questo ragazzo Kazako, Zhanas Bekmyrza, del 2006, (in questo video è nel 2018). Non importa che sia un ragazzino e non importa ciò che suona. Il fatto è che già alla seconda nota si comprende subito di fronte a cosa siamo. A una coscienza purissima, alla Musica incarnata. Una capacità strabiliante di dosare ogni nota in base alle necessità del flusso tensivo; ogni frase è orientata dinamicamente, ogni ripetizione o imitazione va... dove deve andare, cioè fino al punto massimo. Ovviamente non sarà solo frutto della sensibilità (comunque eccezionale) di questo ragazzo, sarebbe veramente qualcosa di miracoloso; al momento sappiamo chi è la sua insegnante, ma non sappiamo niente di lei, con chi ha studiato, dove... ma procuriamo presto di saperlo. Al momento però scopriamo un vero fenomeno "fenomenologico". E' un soggetto davvero raro. Ascoltatelo più volte e cercate di trarre tutto il massimo che potete dalle sue esecuzioni, perché qui c'è veramente tutto da imparare.
Tutti i soloni che criticano e polemizzano sulla fenomenologia e sui criteri, si chiedano come mai appare un pianista che li osserva tutti. Esiste l'Arte, e soggiace a parametri umani, che, molto raramente, trovano realizzazione in un soggetto, certamente non comune. Quando questo avviene, la libertà si manifesta, la verità, la scintilla divina che è in ciascuno di noi. La perseveranza, la curiosità, la concentrazione, la serietà d'intenti, la voglia di vincere la tendenza alla pigrizia e alla caducità.
C'è un altro video di lui attuale, quello appunto del concorso 2021, dove è già più grandicello, ma sempre impeccabile. L'augurio, per lui e per noi, è che possa diventare un grande e importante pianista e che sia felice. Perché dico questo? Nel 2018, relativo al video qui sotto, giunse terzo al concorso, e il vincitore del primo premio non potrebbe neanche lustrargli le scarpe, ma questo è il mondo in cui viviamo, dove regna sovrana l'ignoranza anche dove sembra governare la cultura e l'istruzione. Certi argomenti "pungono" e possono anche spaventare, per cui chi ha più potere tende a tenere discorsi e soggetti lontani da sé. Non si sa mai che qualcuno gli chieda merito.


Oggi, 11 giugno, il m° Napoli, a conforto di quanti poco sanno di fenomenologia, ovvero di criteri atti a produrre oggettivamente Musica, ha pubblicato lo stesso filmato ma inserendo anche lo spartito del brano con l'indicazione puntuale di tutto ciò che il ragazzo è in grado di produrre. Inserisco tutto il suo commento e il filmato; al momento c'è solo la prima parte, aggiungerò successivamente la seconda.

QUI... UN BRUSHSTROKE DI INFINITÀ...
žanas bekmyrza / Janàs Bekmirzà, un ragazzo di Kazakistàn, una rivelazione assoluta, la più straordinaria sintesi musicale, la materializzazione di tutti i criteri che Celibidache con la sua fenomenologia ha cercato di far ′′ vivere ′′ tutti i suoi studenti e il pubblico. Ho scoperto questo talento assoluto sabato 5 giugno 2021, come partecipante ad un concorso di giovani promesse. Qui Janàs 3 anni fa, nel 2018 a soli 12 anni, esegue il primo movimento della Sonata Op. 49 n. 1 di L. V. Beethoven. Ecco a voi l'ESPOSIZIONE (seguirà un video con Sviluppo e Ricapitolazione). Il mio scopo è essenzialmente informativo e didattico. Parlo sempre dei CRITERI che dovrebbero servire a sostenere un'esperienza musicale che invece spesso, purtroppo, va a cercare o ′′ immagini ′′ dal sapore soggettivo arbitrario, o dettagli descrittivi di tipo tecnico-compositivo. Ecco, invece, propongo criteri tratti dalla fenomenologia musicale, quella disciplina che vuole arrivare ad un approccio più obiettivo, che cerca di rendere consapevole il percorso che rende possibile la trasformazione del suono in musica. Non so... eppure quanto Janàs sia consapevole di ciò che fa, se sia il risultato di ′′ talento ", ′′ scuola ′′ o di uno straordinario mix di entrambi. La cosa sorprendente, e questo è ciò che cerco di rendere conto facendolo ′′ vedere ", è come tutto si capisce e come ogni nota non sia casuale, ma è finalmente la conseguenza di chi precede e la premessa per chi che segue. Il primo criterio è l'ORIENTAZIONE DELLE REPETIZIONI (Janàs è inesorabile) il secondo è l'APERTURA e la CHIUSURA delle FRASI, (... ormai abbiamo capito che Janàs ′′ è dentro ", non molla mai), il terzo è il SENSO di PROPOSTA e RISPOSTA, il quarto è la DIFFERENZIAZIONE DINAMICA delle IMITAZIONI.
Ma non contento di questo, Janàs ci stupisce con altri ′′ indizi di alta consapevolezza ", ad esempio non è la RIPETIZIONE dell'ESPOSIZIONE (casualità o senso assoluto dello svelamento della tensione, vissuta inevitabile per chi si arrangia con la libertà di vivere? - Non lo so ancora ma... cerco informazioni... ehehehehehe) .. Nel prossimo video, ci sarà da ′′ verificare ′′ qual è il... CLIMAX, un'altra grande sfida fenomenologica... Propongo questo video per offrire un esempio di come la conoscenza dei CRITERI da soli non sia sufficiente se poi non contribuiscono al loro essere tenuti costantemente presenti, a formare l'′′ UNO ", garantendo l'assoluta identità, la contemporaneità di ′′ LA FINE CONTENUTA NELL ' INIZIO ′′ ultima tappa, obiettivo di consapevolezza e ′′ vissuto ′′ musicale ".