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martedì, luglio 20, 2021

Delle vibrazioni

 E' noto che tutto ciò che in qualche modo è percepibile dai nostri sensi possiede una vibrazione. Non solo, ma anche tutto ciò che possiamo studiare nell'infinitamente grande e piccolo con le apparecchiature più sofisticate, è rintracciabile solo se possiede una vibrazione. Poi abbiamo anche prodotti di vibrazione che sono percepibili, anche se non da tutti e non facilmente osservabili, anche mediante strumenti. Il pensiero è un oggetto di vibrazione, ma è difficile da osservare; tutto ciò che definiamo "astratto" entra in un ambito che potremmo definire misterioso, occulto... però se alla sua base ci sono vibrazioni, sarebbe possibile un suo studio, ma entriamo in una dimensione molto "sottile" che sfugge perlopiù anche alla scienza.

Quando noi facciamo un suono intonato con la voce, anonimo, è evidente che c'è una vibrazione fondamentale, la nota, che definiamo "frequenza", misurabile in Herz, a cui si aggiungono le cosiddette armoniche, ognuna con le proprie frequenze. Fin qui siamo nel campo della fisica. Quando il suono viene qualificato da una vocale ben specifica, una A, O, U, E, I, acquisisce un valore aggiunto, che sarà sempre una vibrazione, derivata dal pensiero umano, che non siamo in grado di osservare strumentalmente, ma c'è, perché altrimenti non saremmo in grado di apprezzarla. Ulteriore passo avanti: quando pronunciamo una parola di senso compiuto, che la maggior parte delle persone è in grado di comprendere (ma anche se non la si comprende, potrebbe avere in sé, in base a come viene pronunciata, una particolare energia che può essere raccolta da chiunque), questa parola possiede in sé una vibrazione complessiva. Qui entriamo in una fase più complessa e importante della precedente. Infatti non si tratta solo di comprenderla, di riconoscerla, ma anche di "pesarla", di darle un valore, in molti casi anche di ampio spettro, dipendente in parte dalla parola stessa, ma soprattutto dal contesto e dal peso stesso che la persona trasfonde in quella parola in un determinato momento, occasione. Ci sono parole che possiamo definire già in sé ad alta vibrazione, come amore, luce, gioia, piacere. Certamente, se pensiamo a quanti milioni di volte è stata e viene citata, con tutte le sue varianti, in ogni occasione, anche musicale, dobbiamo riconoscere che il più delle volte resta alla sua minima frequenza, però è proprio il fatto di essere inflazionata a decretare, in ogni lingua, la sua potenza, che non lascia indifferenti, altrimenti se ne userebbero altre. Però è sicuramente diversa una citazione formale in un qualunque testo o canzone (pur avendo anche in queste occasioni diverse variabilità), rispetto a una persona che la usa con grande parsimonia, persino con timore, ma con piena consapevolezza sentimentale, emotiva, affettiva in un determinato contesto. Ovviamente in tale momento la sua vibrazione sarà altissima. Il fatto che possa o meno essere percepita in tutta la sua ampiezza, dipenderà anche dalla libertà della persona di riuscire a esprimerla senza freni. La titubanza, la paura, l'imbarazzo, la timidezza, possono giocare un ruolo oppositivo che può far fallire. In particolare, proprio in opposizione alle parole con elevata vibrazione, abbiamo quelle a bassa vibrazione, che possono portare a difficoltà di vario ordine. Proprio la "paura" è una delle parole con frequenza più bassa, per cui pronunciare una parola importante ma in un clima di paura, reale o psicologica, porta a frenare e a reprimere le frequenza di quella parola. Dunque, l'interesse, la pregnanza di un brano cantato, che contiene quindi un testo non casuale, non superficiale, ma che possiede una forza creatrice, un'energia compositiva di rilievo e che ha generato e stimolato uno o più compositori a musicarlo, deve altrettanto provocare in chi canta la volontà di far sì che quelle parole non restino puro suono, lontana eco di un vago significato, ma generino proprio per primo in lui il desiderio di veicolarlo a chi ascolta, a più persone possibile e con la più elevata densità di sincerità e significato possibile. Attenzione, poi, che l'energia non è legata unicamente alla parola in sé ma a intere frasi, capoversi, periodi. Affinché la parola culmine possa rilasciare tutta la sua potenza, deve godere della forza di ciò che ci sta attorno. Il discorso è ancora più chiaro se lo portiamo nel puro mondo della musica. 

Come ho scritto in alcune occasioni addentrandomi della fenomenologia celibidachiana, un brano musicale è un'unità tensiva, dove i singoli eventi sonori, note, accordi con la loro intensità, ritmo, tempo, non devono essere fini a sé stessi ma devono avere un indirizzo, un senso, oltreché un significato, che può giungere a quell'unità complessiva cui aspiriamo, solo se ciascuno di questi eventi si palesa come premessa per ciò che segue e conseguenza di ciò precede. Ciò significa che ciascun fenomeno presente si carica dell'energia del contesto attorno a lui, e quest'energia andrà ad accumularsi nel Punto Massimo, per poi risolvere nel periodo conclusivo. Questa energia e questa tensione sono raffigurabili ancora come vibrazione. Se non siamo in grado di legare ciascun momento, ciascuna articolazione coerentemente e senza interruzioni, il brano non raggiungerà la sua unità, e potremmo dire che non si trasformerà in musica, così come non lo farà una poesia, un brano letterario, un quadro o una statua. Non sarà e non potrà essere un particolare o una caratteristica specifica (un colore, un accordo, una frase, e nemmeno una parola ad alta energia) a connotare il brano, perché è solo l'insieme che può raggiungere quel risultato, ed è per quello che il compositore, come l'esecutore, deve lavorare assiduamente sui particolari, anche i più riposti, proprio per evitare che la noncuranza di quelli porti a fratture che impediscano di cogliere l'unità complessiva. Quante volte devo riprendere gli allievi che magari curano la singola parola, ma poi trascurano i particolari. Ad esempio in una frase che utilizzo spesso per esercizio: "me lo ha detto..." spesso l'esecuzione "me l'ha detto", evitando quel "lo" che invece è fondamentale pronunciare correttamente. 

Il tema è veramente enorme, ho un po' il timore di scrivere troppo, per cui rimando a un prossimo intervento qualche riflessione ulteriore. 

mercoledì, luglio 14, 2021

Andare oltre

 La frase "andare oltre", come tante, è decisamente abusata, e le persone che la usano non si rendono conto del suo significato fondamentale, che si basa su un assunto altrettanto erroneo, e cioè che non c'è mai una fine, che c'è sempre da imparare, per cui anche i migliori potrebbero, secondo questo concetto, andare oltre. Ma è proprio nel momento in cui si prende coscienza di essere andati oltre che si raggiunge quel "non oltre" che è la conclusione di un percorso. In un'arte composita come il canto, che è la somma di un'arte vocale, un'arte musicale e un'arte scenica, sarà pressoché impossibile durante una vita poter andare oltre in ciascuna di esse, ma dovrebbe essere fondamentale conquistare quella vocale e avvicinarsi molto nelle altre due. Questo per un motivo importante: mentre l'arte scenica e musicale si possono apprendere nel tempo senza creare inconvenienti che possano mettere a repentaglio la durata stessa del cantante, quella vocale sì. 

Cosa significa dunque "andare oltre" nello specifico dell'arte vocale? Significa superare i problemi posti dall'istinto e dell'ego. Più concretamente cosa significa ciò? L'istinto si ribella al tentativo di dominio, cioè al tentativo di modificare la respirazione fisiologica in artistica, cioè trasformarla da respirazione istintiva per lo scambio gassoso a respirazione cosciente idonea ad alimentare suoni in perfezione, diciamo "archetto" delle corde vocali. 

L'istinto non si può combattere e non lo si può vincere, perché ne andrebbe della nostra vita, pertanto le uniche strade sono: 1) sfruttare la sua tolleranza, raggiungendo il massimo della sua permissività (e quindi non raggiungendo mai la perfezione), 2) creare un nuovo senso (senso fonico), quindi facendo accettare dall'istinto una nostra esigenza spirituale, sfruttando le potenzialità evolutive dell'istinto stesso. L'ego è una caratteristica legata alla sete di potere, di dominio, di possesso, di celebrità, di apparenza. Può anche essere denominato narcisismo. 

L'ego è un nemico temibilissimo, forse più ancora dell'istinto (che di fatto non va considerato un nemico, è anzi amico, ma non può comprendere le nostre esigenze spirituali, essendo legato alla nostra natura animale). Esso è difficile da riconoscere e da combattere; è legato alla nostra sfera psicologica, alla nostra identità, alla nostra personalità e al nostro ruolo sociale, ovvero a come noi ci rispecchiamo nella società, il più delle volte modificando la nostra natura, assumendo maschere e atteggiamenti impropri e artificiali per mostrarci non come siamo veramente ma come pensiamo che gli altri debbano vederci. Spesso ci vergogniamo di rivelare la nostra personalità autentica, pensando che sia misera, poco interessante, e preferiamo assumere atteggiamenti e abiti scopiazzati da persone in vista, popolari, celebri, a cui vorremmo assomigliare. Ma quando non è così, le possibilità sono due: 1) volere diventare noi stessi dei modelli, assumendo pose arroganti, mostrandoci sempre preparati e sicuri di noi, anche quando siamo completamente ignoranti in merito, inventando e "dandola a bere" con fumoserie e ostentando sicurezza; 2) riconoscendo, erroneamente, le nostre debolezze e carenze, e entrando nella disistima e quindi nella potenziale o manifesta depressione. L'ego va dunque considerato un vero male da estirpare, però è un male anche fortemente legato alla società in cui viviamo, che ci porta alle conseguenze di cui sopra se non impariamo a vivere con semplicità e a difenderci dal bombardamento mediatico che ci assale fin da bambini. L'ego è una forte barriera verso la conquista dell'arte perché ci offusca la percezione della coscienza. Coscienza vuol dire rendersi conto di chi siamo veramente, e non di chi vorremmo essere. 

Per "andare oltre" noi abbiamo bisogno prima di tutto di semplicità assoluta. Ridurre ogni gesto all'essenziale, al necessario. Quando noi parliamo spontaneamente, lo facciamo con semplicità. Quando vorremmo cantare lirica, subito indossiamo un altro abito, mentale e fisico, per cui non restiamo più noi stessi, con quella stessa semplicità e naturalezza spontanei, ma siamo indotti ad assumere atteggiamenti e comportamenti esaltati, complessi, forzati. Non siamo portati a cantare come parliamo, ma a "gonfiare", a spingere, a modificare timbricamente e dinamicamente la nostra voce, per connotarla verso chi ci ascolta con potenza, vigore, colore, estensione, cioè per impressionare. Vogliamo prenderci una rivincita, vogliamo "far vedere" chi siamo... (chi vorremmo essere). 

Andare oltre significa non avere dubbi. La società odierna, spinta mediaticamente dalle caste economiche dominanti, ci induce ad avere dubbi su tutto, a vivere quindi in una sorta di paura e quindi ad assumere comportamenti preventivi che non solo sono spesso inutili, ma anzi dannosi, mentre siamo portati a uno stile di vita autodistruttivo, che però è legato alla "ruota" che sostiene proprio la casta dominante. Su questo c'è poco da fare, e non è mio compito parlare di ciò. Riferendomi però al canto, il discorso può essere svolto. Se da qualche decennio la stragrande maggioranza degli insegnanti, corroborati da pubblicazioni anche di insigni medici, ci dice che la vocalità operistica passa attraverso vocalizzi, ricerca della maschera, magari da raggiungere mediante esercizi a bocca chiusa, respirazioni addominali da esercitare con i libri sulla pancia, spingendo sul diaframma per appoggiare meglio, alzando il velopendulo, allargando la gola, abbassando la laringe e via di questo passo, è fatale che quando qualcuno vi dirà che invece la conquista passa attraverso la pronuncia, la voce fuori, semplificando, togliendo, lasciando andare, evitando ogni volontario movimento interno... è più che logico che vengano altro che dubbi! Ma... si può fare il salto? Cioè si possono eliminare i dubbi? Si può dire: "prova e vedrai", ma... per quanto tempo? La fretta, la necessità di verificare se un modo di affrontare il canto completamente diverso da quello standard funziona davvero o si resterà con una vocetta piccola e poco interessante, non toglieranno realmente i dubbi. E non è corretto "convincersi", oltre che controproducente. Bisogna entrare in una dimensione di svuotamento mentale. Il dubbio è una manifestazione dell'ego. Occorre non aspettarsi nulla, non avere aspettative. Seguire la disciplina seguendo le direttive fondamentali: semplificare, togliere, assottigliare, pronunciare senza mettere forza, potenza, spinta, senza cercare spazio interno, premere, tirare, alzare, abbassare. Accontentarsi, mormorare, lasciar andare senza cercare di dominare volontariamente. ASCOLTARE. 

Essere andati oltre, quindi, significa rendersi conto, aver assunto coscienza, tramite il proprio udito, che la nostra voce non ha più bisogno di niente. Non significa saper cantare perfettamente, significa "solo" che ora abbiamo a disposizione uno strumento perfetto, uno Stradivari. Poi è chiaro che dobbiamo imparare a suonarlo, cioè la tecnica e i criteri musicali, nonché quelli espressivi e recitativi. L'oltre è aprire la bocca e sapere, essere consci, che la voce uscirà facile, sonora, espressiva e pieghevole alle esigenze testuali. Siamo animali, e siamo succubi dell'ambiente in cui viviamo e delle debolezze fisiche, per cui la perfezione può avere momenti di debolezza (è una condizione che richiede comunque un'energia non comune), ma che non può suscitare dubbi. Molti affermano che chi non ha dubbi vive in una realtà finta e con "la verità in tasca". E anche questo è un messaggio sociale volto proprio a combattere l'autostima e la ricerca vera di sé. Con ciò non si vuole passare il messaggio che non si debbano mai avere dubbi e che la verità sia raggiungibile facilmente e in tempi brevi. La questione è che si deve sapere quando non sa, avere coscienza della propria ignoranza e delle proprie carenze, e solo quando si sarà consci di aver fatto il salto, di essere passati attraverso il muro avendo abbandonato il proprio fisico e le proprie abitudini dall'altra parte, si sarà conquistato l'oltre, senza dubbi e senza paure. In fondo la paura è un mezzo dell'istinto e anche dell'ego per fermarci e farci dubitare di ciò che stiamo facendo. Provare paura per qualcosa che non conosciamo è legittimo e naturale, ma è una forza che limita la nostra conoscenza. Vogliamo o non vogliamo sapere come si sta "in paradiso"? Preferiamo lottare per sempre con gli ostacoli fisici, che in fondo noi stessi creiamo, o vogliamo scrollarceli di dosso? E' un atteggiamento mentale: togliamo tutte le forze che siamo abituati e tentati di imprimere, e godiamoci il poco o niente che il nostro spirito, che a questo punto potrà utilizzare i nostri apparati liberi, saprà valorizzare al massimo, come nessuna mente arrogante, superba, presuntuosa può e potrà mai raggiungere.

Di Stefano e l'arte del canto

 Non so quanto sia noto che Di Stefano ha scritto un libro: l'arte del canto. Non sono a conoscenza di altre pubblicazioni di sua mano, se qualcuno lo sa per cortesia me lo segnali. La cosa più interessante di questo libro è contenuta nella seconda parte, dove il tenore racconta la sua vita dall'inizio fino ai debutti più importanti. La prima parte, invece, è decisamente discutibile, pur contenendo spunti interessanti. Di Stefano sembra narrare la carriera di qualcun altro. Scrive convintamente di aver fatto una lunghissima carriera, pressoché priva di particolari problemi. Io ricordo, però, in diverse interviste, che non negò di aver avuto notevoli problemi, pur avendoli scaricati una volta sul riscaldamento della sua casa e un'altra al fumo. Sul fumo sicuramente non c'è da negare che possa aver influito negativamente sulle sue prestazioni, forse marginalmente anche il riscaldamento di casa sua, ma certo il problema più grosso è stata la carenza di preparazione. Il punto che trovo più negativo di questo libro riguarda però il suo atteggiamento nei confronti dell'apprendimento del canto, che secondo lui può essere solo uno: l'istinto. Come quasi tutti, confonde e sbaglia di grosso identificando l'istinto come possibile stimolo al canto. Basta domandarsi cos'è l'istinto. E' quel programma contenuto in ciascuno di noi che ci aiuta a vivere, sopravvivere, difenderci. Cosa può avere a che fare l'istinto con il canto, che non ha alcuna relazione con i nostri apparati di vita, sopravvivenza e difesa? Quindi si definisce impropriamente e sbrigativamente istinto qualcosa che non conosciamo e che viene dal nostro interno. In realtà ciò che viene così chiamato, sono in realtà due cose: una predisposizione fisica, a sua volta suddividibile in forza, energia, e in appropriate, robuste ed equilibrate forme anatomiche, l'altra consiste in una forte spinta spirituale. Tutto ciò avrebbe poco a che fare con l'arte, come lui intitola il libro. L'arte consiste in un dominio cosciente delle forme e degli apparati. Stupisce abbastanza che Di Stefano arrivi a scrivere di aver avuto una respirazione irreprensibile. Come al solito, e come tanti, si riferirà agli atteggiamenti respiratori, cioè a "come si vede" respirare. Ma l'autentica respirazione artistica vocale, non si vede. Però sarebbe interessante cogliere il criterio che gli fa dire di aver avuto una perfetta respirazione. Eppure è proprio quella che l'ha fregato! Di Stefano si sentiva molto vicino a Schipa, a Mariano Stabile, a Tagliabue, cioè immensi cantanti che anche noi consideriamo modelli. E il motivo sta in un obiettivo giustissimo, cioè mettere in primo piano la parola, la pronuncia. Ma proprio la pronuncia richiede, per essere assunta ed elevata a canto perfetto, di una respirazione adeguata, che si conquista in anni di studio, proprio quelli che a lui mancavano. Il suo insegnante, Montesanto, pensò prima di tutto a sfruttare quella voce divina, che tutti compresero che valeva oro. Ma proprio oro metallico! E per quell'oro il mondo dell'opera si è giocato una delle voci e delle personalità più gigantesche della storia. Nel libro spiega che lui comprese da sé (!!) che il suo passaggio era sul la bemolle, e non sul fa, come tutti. Non si è mai accorto che lui il passaggio non l'ha mai avuto. Prima, da giovanissimo, passava senza accorgersene, poi, dopo pochissimo, cominciò a non passare più, a sbracare e sguaiare ogni vocale, che reggeva grazie a un fisico e a forze e forme invidiabili. Ancor prima dei trent'anni 

Sono interessanti alcune sue esperienze e osservazioni. Ogniqualvolta cercava di assumere un certo tipo di impostazione, il suo canto peggiorava, e tornava piacevole e libero appena abbandonava quell'atteggiamento. E' la differenza che c'è tra "naturale" e "naturalezza". Mi sono diffuso a lungo su questo discorso in passato, in ogni modo, sinteticamente, ripeterò. La Natura ci dota di uno strumento, di forme e di risorse. Il canto però non rientra nella natura animale, però rientra tra le potenzialità della Natura umana, dotata di un potente spirito che cerca un mezzo per collegarsi e unificare altri spiriti. Questa energia spirituale può condurre le persone a dedicarsi con grande passione ad un'arte, come il canto, e a investire tempo ed energia per conquistarla. Però si scontra con due forze altrettanto potenti: l'istinto e l'ego. Ci vogliono condizioni straordinarie per superarle, quasi soprannaturali. Per raggiungere l'arte bisogna arrivare a conquistare un dominio cosciente di queste forze e forme. Da soli è pressoché del tutto impossibile; trovare un maestro che possa portare a questa meta, è altrettanto difficile, quindi è comprensibile che ci siano periodi in cui domini la mediocrità. Peraltro un tempo c'era una media di insegnamento più elevata di oggi, e questo perché si adoperava più empirismo, orecchio, sensibilità e meno mentalismi e scientificismi. Altra osservazione del tenore siciliano: oggi si canta con più tecnica e quindi è tutto più "piatto" e meno interessante. Intanto diciamo che il libro è della fine degli anni 80, e forse si riferiva a una generazione di cantanti ancora in buona forma; in ogni modo ciò che lui definisce "tecnica" è effettivamente tecnica, cioè la capacità, musicale, di affrontare pagine virtuosistiche e complesse con adeguata capacità. Parliamo quindi delle "renaissance" del repertorio rossiniano, belliniano e donizettiano, in primis, ai recuperi verdiani e quindi a tutto quello barocco. Non si può non constatare che fino a quel periodo, effettivamente, tutto un genere operistico che necessitava di un ampio bagaglio di nozioni tecnico-musicali, era ben poco presente e anche quando lo è stato, piuttosto approssimativo e impreciso. Ma sbaglia il nostro Pippo se con tecnica si riferisce all'emissione vocale, pur avendo individuato un errore diffuso, cioè la mancanza di parola. E' proprio la mancanza della parola sincera e vera a creare quell'appiattimento che, unitamente a una esibizione virtuosistica piuttosto fine a sé stessa, crea quel clima di freddezza e appiattimento che sta contraddistinguendo il nostro periodo, dove la voce di Di Stefano, anche sgraziata negli acuti, porta un calore e una profondità d'animo che incanta. 

martedì, luglio 06, 2021

La voce "si" canta

 Il punto fondamentale è la mancanza di intenzionalità. Si può arrivare al limite di non gioire per una buona riuscita e non adombrarsi per esecuzioni errate. La voce deve liberarsi quando è il momento opportuno, cioè quando le condizioni sono mature. In quel momento saprà lui come uscire. Si comprenderà quindi l'uso del "si" impersonale. Non siamo più noi, ("l'io") che gestiamo la voce, ma è come se venisse controllata da un ente indipendente. Sono frasi e incitazioni che ho usato tantissime volte: "è come se tu lanciassi un comando radio con la mente, non mettere in moto il fisico, lui si muoverà in base a ciò che già sai", oppure: "la voce è già lì che ti aspetta, devi solo lasciarla andare. Però anche questo "lasciare andare" necessita di una precisazione. Non è un lasciar andare intenzionale, perché produrrebbe uno scatto, una molla, un "clic", che nella voce solitamente è un colpo di glottide, una miniapnea. Come dice un maestro Zen: "pensa a un neonato, che ti afferra il dito, e poi lo lascia perché la sua attenzione è rivolta ad altro; quel lasciare non è intenzionale". Lasciamo andare, "molliamo" come se ci rivolgessimo ad altra causa. 

Ogni intervento volontario manderà all'aria la nostra predisposizione magistrale. Tu sai fare, devi prenderne coscienza, ma lo impedisci tu stesso con la tua paura e con l'intenzione di fare, e peggio ancora col fare attivamente. Se ho detto infinite volte che il peccato della maggior parte degli insegnanti è quello di esortare gli allievi a muovere volontariamente parti interne agli apparati, gola, lingua, faringe, velopendulo, ecc., aggiungiamo che dopo una fase propedeutica, anche vistosi movimenti di varie parti del corpo (mandibola, muscoli facciali, pancia, fronte, e persino mani e gambe) sono da considerare molto deleteri e nemici di un risultato sufficientemente valido. La voce deve "venire" cantata non da noi, non dalla nostra volontà, ma da una presenza terza, che sa cosa fare e quando. 

giovedì, luglio 01, 2021

La rivoluzione interna

 Cambiare maestro. Può succedere nella vita di dover cambiare insegnante, per varie ragioni. A volte può essere una necessità dolorosa, ma in molti casi è una scelta dettata da una perdita di fiducia e dalla constatazione che non stiamo migliorando, o addirittura peggioriamo. Non che questo debba per forza essere una colpa dell'insegnante, e non è proprio detto che la cosa sia vera, però l'allievo matura questa convinzione e quindi più o meno rapidamente si decide a cambiare. Questo dipende molto dalle aspettative. E' abbastanza frequente che un aspirante cantante vada da un insegnante pensando che in quattro e quattr'otto riuscirà ad avere una preparazione sufficiente a presentarsi a audizioni e concorsi, e questo non va bene. Valutare un insegnante dalla rapidità con cui prepara gli allievi non è un buon criterio. In ogni modo è impossibile qui prendere in esame tutte le motivazioni alla base di un abbandono di un insegnante; fatto sta che questo avviene molto sovente. Ora vediamo un po' cosa succede successivamente, considerando la conseguenza più frequente, cioè il ricorso a un nuovo insegnante. Come è stato scelto? A volte su consiglio di qualche amico o su suggerimento di qualche cantante, magari seguendo una masterclass; in altri casi leggendo informazioni su qualche giornale o sito internet. Diciamo che l'allievo cercherà qualche caratteristica in direzione diversa dal precedente insegnante e che lo avvicini a un suo ideale. A volte si lascia un insegnante perché di sesso diverso (un maschio studia con una donna, ma non si fida e cerca un altro maschio, o viceversa), oppure di classe (un tenore cerca un tenore, un soprano un soprano, ecc.). Già più raffinata può essere una scelta stilistica, cioè un allievo a cui piace un certo repertorio cerca un insegnante che abbia avuto esperienza in quel repertorio (il cantante belcantista, o liederista, o verista, ecc.). Però posso dire per esperienza che i movimenti più frequenti riguardano le capacità di impostazione della voce, cioè si lascia il maestro perché non è stato sufficientemente bravo da togliere i difetti e fornire l'allievo di voce libera, estesa, sonora. Qui si entra in un mondo soggettivo davvero pericoloso, perché in nome di un metodo che promette risultati altisonanti (canterai come... tizio o caio!), si possono commettere autentici crimini vocali. E questo sarà sempre così, ci limitiamo a constatarlo. Parliamo del cambiamento. 

Accedere a una determinata scuola di canto che illustra con dovizia di esempi e particolari una propria poetica può far sorgere dubbi o interessi. La presentazione da parte dell'insegnante della propria scuola è un momento fondamentale, perché è il momento in cui si può creare un'attesa importante o uno scetticismo. Fatto sta che ci può essere una sorta di continuità con quanto esperito precedentemente, quindi si sta in un limbo, si "prova" la nuova esperienza, oppure si cambia realmente, quindi si compie una rivoluzione. Se un nuovo insegnante ci presenta la sua scuola come qualcosa di realmente diverso dalla media, illustrandoci criteri e allargandoci una panoramica esemplificativa di ciò che intende, ma soprattutto esemplificando egli stesso con la sua voce la possibilità di accedere a una elevata qualità del canto, nell'arco di un breve tempo si deciderà se quello è davvero il nostro insegnante o meno. Ma anche nel primo caso i problemi non si esauriscono con un attestato di stima e fiducia. Agli esiti positivi dei primi mesi e magari anni, non è detto che seguano risultati del tutto convincenti, anzi talvolta possono apparire segni in controtendenza. Si può essere bravi allievi, ma non essere pronti per il balzo finale. Il problema possiamo chiamarlo rivoluzione interna. 

Nella vita si può seguire una linea moderata o compiere dei balzi (morti e rinascite). Il momento del balzo può dipendere da tante cose, ma è l'anelito, la forza interiore a compierlo, che conta davvero. Come ha detto un mio maestro: "quando l'allievo è pronto, il maestro arriva". Vero, ma non basta. Pronto può voler dire che ha sognato talmente tanto di trovare la persona in grado di portarlo verso quel traguardo sperato, da materializzarlo! Ma trovare il maestro non significa affatto: fine dei problemi. Bisogna essere all'altezza della situazione. Il maestro non può fare la parte dell'allievo. E' sempre un compito a quattro mani. Il maestro ci dà tutto ciò di cui è in possesso, non può e non deve tenere niente per sé. Nessun segreto. Ma l'allievo deve saper rendersi conto dell'alto impegno a cui è chiamato, se vuol essere all'altezza di quella scuola. 

Una frase ricorrente, diciamo una giustificazione, quando il nuovo insegnante insiste nel richiedere l'esecuzione di un determinato esercizio o di una aria in un certo modo, è "mi hanno rovinato/a i maestri precedenti". Non è questa la verità, anche se può essere verosimile, La verità è: "sei sempre ancorata/o ai precedenti insegnanti, non hai compiuto nessuna rivoluzione". Compiere una rivoluzione vuol dire abbandonare totalmente uno stile di vita, modalità, usi, meccanismi e psicologie, diciamo con un termine un tempo di moda: un "abito" mentale. Se cambio stile, e ho compiuto una rivoluzione interiore, non avrò alcuna nostalgia e non avvertirò alcuna tentazione di proseguire con quanto facevo prima, ma anzi sarò proprio portato a indirizzarmi verso il nuovo, il diverso. La mancanza di questa rivoluzione è sinonimo di non accettazione reale, sincera, autentica. Non è un fatto del tutto cosciente; ci avviciniamo a una nuova scuola perché ci piace il suo diversificarsi dal "vecchio", ma il nostro cuore tutto sommato sta ancora là, mentre il nuovo ci pare 'troppo' nuovo, troppo diverso, quindi, appunto troppo rivoluzionario, mentre noi siamo moderati... "pian, né, Giuanin". Una scuola d'arte dove avrà il suo punto massimo, cioè quando richiederà il massimo della nostra concentrazione? Eh, proprio in vista del traguardo, come tutti i punti massimi. Come dice il maestro nel libro "lo zen e il tiro con l'arco": la metà è al 90% !! Qui ci vuole la presa di coscienza, e la forza spirituale. Ci sentiamo in difficoltà, pensavamo di essere in vista del traguardo e invece improvvisamente esso si allontana; subentra un certo scoramento, si può anche pensare di abbandonare, e magari anche di tornare da un precedente insegnante. Quindi, in ultima analisi, non lo si è veramente mai lasciato. 

Mi è capitato di fare un ragionamento simile con l'alimentazione. Tanto per esemplificare. Ci sono "mode" che non portano le persone a fare vere rivoluzioni. Se sento la necessità di cambiare alimentazione, per vari motivi, e quindi di rinunciare a determinati cibi, non cerco i surrogati. Se cerco la carne o il formaggio vegetale, non sono uscito dalle vecchie abitudini, quindi sto commettendo uno sbaglio, perché carne e formaggio vegetale non mi piaceranno, quindi faccio una scelta al ribasso dal punto di vista del gusto, e non seguo convintamente un nuovo percorso. Rivoluzionare vuol dire che trovo le ragioni in me per fare un cambio epocale che non mi costerà in termini di soddisfazione, perché so perché lo faccio e tali ragioni compenseranno totalmente le rinunce, che non avvertirò come rinunce, cioè come qualcosa che mi manca, ma come qualcosa che evito perché poteva soddisfare un piacere superficiale ma so che contribuiva a crearmi problemi di salute, quindi... via! Anche nel canto o in qualunque altra materia, se si abbraccia una disciplina anche severa ma che so, nel profondo, che mi porta a un altro livello conoscitivo, devo abbandonare davvero tutto ciò che mi porto dietro, perché so che è zavorra, per abbracciare un nuovo pensiero, che invece sarà salutare e mi porterà a una meta nella quale io credo fermamente.