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sabato, settembre 12, 2020

La parola che espone (l'esponente)

Ancora una volta l'esperienza pratica mette in luce aspetti psicologici che influiscono o possono influire non poco sulla qualità del risultato. 

Schipa e Di Stefano possono essere considerati due tenori agli antipodi tra di loro. Bellissima la voce del secondo, decisamente meno bella quella del leccese, che però era in possesso di un magistero vocale come pochi, mentre Di Stefano nel volgere di pochi anni di carriera già mostrava segni di logoramento che andarono sempre peggiorando. Però qualcosa li accomunava, tant'è che ancor oggi Di Stefano è considerato quasi un mito: è la pronuncia. L'uno e l'altro si sono sempre contraddistinti, anche nelle interviste, per mettere a monte di tutto la parola scandita. A parte il timbro, che è un fatto soggettivo, la differenza di fondo è consistita nel fatto che Schipa era in possesso dei mezzi per poter sostenere efficacemente e per sempre la parola, mentre Di Stefano no. 

Ma in sostanza cosa ha reso grande fino alla mitizzazione il nostro Pippo? La generosità, la carica umana che ha potuto esprimersi attraverso un uso davvero sincero della parola. Questo ha potuto, anzi, può ancor oggi, far breccia nella sensibilità delle persone che lo ascoltano e che non si soffermano più di tanto sulle carenze dell'emissione. Per lui è stato un fatto innato, una carica insita nel soggetto. E' stato lo stesso per Schipa, che però ha potuto contare su uno studio lungo e meticoloso, oltre che una notevole intelligenza che gli ha offerto la possibilità di conservare quel tesoro intatto per tutta la vita.

Quindi la parola è la POTENZA (esponente) da dare al suono per poterlo elevare ad arte vocale. S^p=Av (è una definizione simile a quella del logaritmo, che guarda caso è alla base del funzionamento dell'orecchio)!

Ma come si spiega che nonostante io sostenga questa tesi da anni, la esemplifichi e dimostri fattivamente la sua verità, incontro spesso difficoltà di realizzazione da parte degli allievi?

I motivi sono due: uno, da sempre noto e alla base delle scoperte del m° Antonietti, consiste nella resistenza opposta dall'istinto di sopravvivenza e difesa della specie, che riconosce (essendo nel DNA) la parola come necessaria alla comunicazione verbale ma si oppone a uno sviluppo (o addirittura una evoluzione) della stessa oltre i limiti delle esigenze di vita comune.

Il secondo motivo è di carattere psicologico e consiste nella difficoltà che ha la maggior parte delle persone nell'esporsi pubblicamente. La voce, come ho espresso spesso anche in questo blog, porta fuori di noi molto della nostra interiorità e intimità, ma lo fa in modo inconscio, non immediatamente riconoscibile. Già la condizione di dover parlare in pubblico ci pone in difficoltà perché non ci piace "mettere in piazza" i nostri segreti, anche se non in modo palese. Ma perché ci vergogniamo e/o ci sentiamo in imbarazzo? Se poi dobbiamo anche cantare questo fenomeno cresce ancor più. Non capita, o in misura ridotta, se la nostra natura psicologica ci porta dalla parte opposta, cioè a voler manifestare con gioia la propria appartenenza alla sfera umana sotto l'aspetto spirituale, intimistico, più che fisico, senza alcuna vergogna o imbarazzo, giacché siamo tutti uomini e dunque accomunati dalle stesse leggi. 

Se questa scuola può intervenire efficacemente nell'affrontare e risolvere le questioni vocali legate alle difese istintive mediante un lungo e meticoloso lavoro che le aggiri e che possa far sorgere una sorta di nuovo senso (fonico), accettabile dall'istinto stesso, molto più complesso risulta affrontare il secondo problema.

Le persone avvertono col canto una "esposizione" pubblica, che le rende "fragili", attaccabili, vulnerabili, dunque sviluppano una resistenza e delle difese. E come si realizzano? Nascondendo la parola, cioè rendendola meno incisiva, meno "vera", meno sincera, meno comunicativa nella sua essenza, nel suo contenuto sensibile. Ci si rifugia nel suono, cioè nella pura vibrazione fisica, anche se ammantata da una pseudo pronuncia. Però per molti cantanti rifugiarsi nel puro esibizionismo funambolico delle coloriture, dell'agilità, è il massimo della tranquillità, della sicurezza. 

Sia chiaro: questo succede anche suonando uno strumento o in un complesso o orchestra, anche se non c'è una parola concretamente pronunciata, ma una cosciente sensibilità musicale può far scaturire dalle relazioni tra i suoni messi in campo dal compositore in una determinata sequenza e con specifiche caratteristiche di frequenza, di timbro, di dinamica, di ritmo, un contenuto "vero" con caratteristiche del tutto analoghe a quelle di un testo poetico musicato. La forza della parola non conosce limiti, però il mondo quotidiano non può sostenere il peso di parole con contenuti molto profondi e coinvolgenti, dunque il linguaggio comune è destinato al consumo semplicistico della routine; un ambiente più consono è quello della letteratura artistica, e ancor più quello della poesia, sempre più nascosto e scarsamente fruito. La potenza delle parole viene avvertito solo da pochi; anche qui ci sono questioni di sequenza, di ritmo, di colore... figuriamoci quindi cosa avviene nell'incontro verticistico tra parole di alta poesia e grande musica! Ma non si tratta di dare "veste" musicale alle parole, ma di percepire la loro vibrazione profonda, già musicale in sé, e potenziarla mediante ulteriori mezzi sonori. Potremmo definirla... musica al cubo! E' però un tipo di risultato che non possiamo aspettarci quasi mai nel campo operistico, dove i libretti, anche nei casi migliori, non possono aspirare ad essere testi letterari sublimi. Più probabili risultati di grande altezza possono aver luogo in lieder, romanze, chansons, songs, cioè brevi composizione su testi di grandissimi poeti e occasionalmente da testi "sacri", laddove il musicista si è servito di una lirica veramente ispirata, sublime. 

Tornando all'argomento, come si può superare l'ostacolo psicologico che impedisce o limita fortemente la capacità di esprimere con piena consapevolezza e verità le parole di un testo cantato (mentre si affronta con molta più disinvoltura un vocalizzo?

Questa realtà ci spiega anche perché hanno molto più successo le scuole di canto il cui metodo svia dalla perfetta pronuncia, alimentando l'idea che le "intervocali" cioè le vocali miste o impure, siano più efficaci per cantare, o come dice una notissima cantante bulgara, le vocali vanno "uniformate" sulla "U", in modo che non si capisce quasi più niente, ma anche quando si capisce, manca l'elemento di verità che può raggiungerci solo grazie a una pronuncia assolutamente perfetta.

Intanto, come sempre, il primo obiettivo è prendere coscienza dell'esistenza di questo ostacolo. Comprendere le ragioni della resistenza psicologica non è per niente facile, perché possono dipendere ma molti fattori. Un fattore frequente è già insito nel territorio. Ci sono regioni (nel mondo e nei singoli Stati) dove le popolazioni sono più aperte, generose, comunicative, e regioni "chiuse", dove regna la diffidenza, la scarsa comunicazione. Ma da lì il cerchio si stringe all'ambiente familiare, lavorativo, sociale. Superare questo ostacolo, quindi avere fiducia nel prossimo, sapere di poter esporre le proprie opinioni, sapendo sostenerle e sapendo di dover subire critiche e attacchi di qualunque genere... è un lavoro mentale molto impegnativo. Potrà sembrare eccessivo questo discorso legato "semplicemente" a imparare il canto, ma qui non si tratta di accedere a un canto piacevole e spensierato, nemmeno "serio", ma molto di più, si tratta di voler accedere a un canto LIBERO, a una comunicazione diretta, a quell'amore-conoscenza a cui tutti, in qualche modo, aspiriamo. In tutte le fasi è indispensabile adire al "riconoscimento", che è poi coscienza. Ascoltarsi e riconoscere se ciò che diciamo e poi cantiamo ha un connotato di sincerità, di comunicazione verosimile, convincente, o resta su un piano astratto, distaccato. Ogni frase dovremmo sentirla come se venisse detta a noi e dobbiamo percepire immediatamente se ci muove qualcosa. Infatti il fulcro della vera musica, come ogni verità, è il "movimento" interiore che ci procura. Se manca questo elemento resta tutto a livello di superficie, che ci sollecita giusto i terminali nervosi più affioranti, ma non scende, non ci conquista e dunque è destinato a scomparire. 

Aggiungo un pensiero: la pronuncia fasulla è anche un rifugio sicuro, tranquillo, comodo, dove difficilmente qualcuno può venirti a infastidire, specie se sai abbastanza giostrarti col suono. E' la parola, invece, quella che ti espone, ti mette in maggior risalto e quindi che ti può porre nel mirino dei narcisi e dei soloni che dalla verità prendono adeguatamente le distanze e che vogliono colpire chi vi si avvicina.

Ancora un'annotazione: perché siamo così toccati quando sentiamo cantare un bambino o un coro di voci bianche? Perché essi, se non sono stati "traviati", esprimono veramente con sincerità le parole di un brano, e anche se possono avere una vocalità difettosa, riescono comunque a esprimersi con una libertà e un trasporto molto superiore a quello della maggior parte dei cantanti adulti.

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