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lunedì, gennaio 18, 2021

La coperta di Linus

 E' celebre la striscia dei Peanuts dove il piccolo Linus sta attaccato alla propria copertina che lo protegge e lo consola. 


Ho intuito e scoperto che anche i cantanti hanno bisogno di qualcosa di simile, che è stato chiamato, guarda caso: copertura del suono.

Quando un qualunque cantante alle prime armi esegue una scala o un arpeggio verso la zona acuta, sa che può incorrere in grida, strilli, stecche. Questo produce inevitabilmente: PAURA! Allora, e fin dalla preistoria, si prende atto che però di voci l'uomo ne ha più d'una, diciamo così, una delle quali funziona bene nei centro-gravi, e un'altra funziona meglio negli acuti. Da questo si evince che per poter cantare su un'ampia tessitura, bisogna passare da una voce all'altra. Questo è ragionamento logico, ma "sbajato"! (appunto perché logico, razionale); o meglio, è giusto per un principiante, ma erroneo se considerato proiettato nel tempo, ovvero nell'evoluzione. Se fossimo, come qualcuno (quasi tutti) si ostina a considerare, dei meccanismi, la questione sarebbe chiusa, perché un meccanismo è immutabile. Ma il corpo umano non è un meccanismo, è una meravigliosa struttura biologica che ha la possibilità di evolversi e modificarsi nel tempo in base a esigenze e all'utilizzo. Naturalmente il cambiamento può essere positivo o negativo, in ogni modo dobbiamo partire e considerare che è un dato di fatto, è possibile. Dunque la risposta della stragrande maggioranza delle scuole di canto, perlomeno da inizio 900 ma più massicciamente dal dopoguerra, è stata propriamente meccanica, mentre precedentemente c'era (come ci testimonia Garcia) un approccio che prendeva in considerazione le possibilità adattative, e quindi modificative, del corpo umano. Ma la questione della paura non è solo dei moderni, anche nei tempi remoti la provavano, ma reagivano diversamente. Come sappiamo, anche se in modo molto grossolano e difficilmente immaginabile, fino a metà 800 l'approccio al settore acuto avveniva in modo più leggero, in quello che oggi viene definito col termine sminuente di falsetto. E qualche vociologo ben poco sapiente, ritiene che questo fatto impedisse un corretto passaggio di registro. Ma guarda! I compositori d'opera, che erano in costante contatto con i cantanti (se non addirittura dei maestri e loro stesso cantanti, come Rossini), scrivevano brani che poi i cantanti erano incapaci o impossibilitati a eseguire! Va beh, lasciamo correre. Comunque ipotizziamo che per affrontare la paura degli acuti si ricorresse all'alleggerimento. Poi arrivò uno che paura non aveva, e scoprì che si poteva salire fino agli estremi acuti con la stessa pienezza vocale dei centri. Certo non piaceva quella temerarietà, era mancanza di gusto, di eleganza. Ma al popolo piacque, e dunque si scelse di proseguire per quella strada (a parte qualcuno che si suicidò e qualcuno che smise di scrivere opere). Però se alcuni pochi affrontarono il settore più impervio con freddezza e coraggio, tanti altri tale sentimento non avevano. Dunque si dovette studiare una strategia per consentire più o meno a tutti di salire "prudentemente". Ed ecco la grande s-coperta! Oscurare i suoni dal passaggio in su o perlomeno su alcune note. Oscurando inevitabilmente, a meno che non si sia in possesso di una più che notevole condizione vocale, significa portare indietro i suoni. In questo modo essi pesano meno, anche perché producono una riduzione della portata sonora. Questo significa anche non affrontare la voce fuori, quella voce proiettata nel vuoto che richiede una condizione respiratoria straordinaria. E chi c'ha voglia di portare il fiato a quella condizione così estrema? E poi, voglia a parte, chi c'ha la tempra? Forse uno si chiamava Tamagno, un altro si chiamava Schipa, un altro si chiamava Filippeschi... Ovviamente altri ce n'erano in campo sopranile, mezzosopranile, baritonale e ... (come si dice per i bassi?). I nomi che ho fatto non necessariamente sono stati cantanti irreprensibili, li ho citati solo per la facilità e l'omogeneità con cui hanno affrontato gli acuti. Un cantante sicuramente ottimo ma che ha fatto regola il fatto di oscurare gli acuti, è stato Carlo Bergonzi, il quale ha cantato per tutta la vita con la "coperta di Linus". E questa è la regola di chi studia canto oggigiorno. Che poi, sia chiaro, può anche essere una necessità, ma si deve dire fin dall'inizio che non sarà la regola, che è solo un fattore temporaneo per passare un ostacolo causato dall'inadeguatezza respiratoria, e che la didattica supererà grazie all'espansione che ne conseguirà. Se non si ha il coraggio di affrontare la pienezza vocale che si può raggiungere con la conquista della corda unica, cioè non "due voci", ma una, sola e omogenea, bisognerebbe dedicarsi ad altro, ma ovviamente è crudele e forse ingiusto. Purtroppo se si prende la strada dell'oscuramento perenne (o altri pessimi artifici come purtroppo sta avvenendo), è difficile tornare su quella giusta, per vari motivi anche di ordine psicologico e acustico, nel senso che il senso di paura sarà ancora più accentuato. Dunque... come al solito dobbiamo accettare le cose, però almeno con un po' più di consapevolezza. 

domenica, gennaio 10, 2021

Analisi di "di quella pira"

 La celebre cabaletta "di quella pira" da "il trovatore" di G. Verdi" è uno dei brani operistici più popolari, direi soprattutto per il famoso "do" (detto anche impropriamente 'di petto'), che poi spesso e volentieri è un si! La cabaletta è un brano che segue l'aria (in questo caso "ah sì ben mio") ed ha un carattere estroverso e molto animato, al contrario dell'aria, che ha un carattere introverso e di andamento più lento e melodioso.

Tra l'aria e la cabaletta c'è una sorta di recitativo molto animato tra i personaggi e ha lo scopo di uscire dall'aria e preparare il clima acceso della cabaletta. Non starò qui a ripercorrere la trama dell'opera essendo molto conosciuta. Dirò solo che il protagonista, Manrico - tenore - un trovatore, dopo molte peripezie, mentre si appresta a sposare l'amata Leonora, viene interrotto dal messaggio che gli armigeri del suo avversario, il Conte di Luna, hanno catturato e si apprestano a giustiziare sul rogo la (presunta) madre, Azucena. Al che si muove a capitanare i suoi fidi nella disperata impresa di salvarla. 

La cabaletta è in Do maggiore (non Si o Si bemolle!!) col tempo di tre quarti e l'indicazione Allegro. Una sola battuta d'introduzione, con un acceso ritmo, quindi parte il canto. La scrittura verdiana è alquanto interessante, in quanto apparentemente contraddittoria. Egli infatti usa contemporaneamente legature e segni opposti, quali accenti e staccati. Questo è relativo al momento e alla situazione. Teoricamente le prime sillabe dell'aria, "Di quel-la pi-ra"sono cinque Mi naturali, sull'armonia di tonica (Do). Verdi però fa una cosa tra il madrigalistico e il belcantista, cioè muove di un semitono (fa) il quarto e quinto Mi in una sorta di trillo, che indica l'animo indignato di Manrico, pronto all'azione, considerando anche la giovanissima età. Ripeterà il modello alle frasi successive. Altra cosa da notare è l'accento su "ra", cioè sull'ultima sillaba. E' una cosa contraria alla corretta semantica, ma Verdi ritiene evidentemente che in un momento simile se si seguisse pedissequamente la grammatica, il clima risulterebbe troppo "molle", si toglierebbe quel fuoco, quella grinta necessaria. Ripeterà la prassi in diverse frasi successive! "L'orrendo foco" è una risposta musicale su cinque do (sempre col "trillone"), posta armonicamente sulla tonalità di Fa minore; torna repentinamente a Do sulla frase successiva "tutte le fibre", su tre sol e due fa (qui non mette l'accento sull'ultima sillaba per consentire un miglior legame con la frase successiva "m'arse, avvampò). Sono in tutto otto battute (più quella d'introduzione). A questo punto tutto ricomincia: "Empi spegnetela, ond'io fra poco" sono esattamente identiche alle prime quattro. Però a questo punto compie, per concludere la frase, una variazione. Dopo due Sol, "col sangue", sale per due semitoni, fino al La (in armonia di Sol maggiore, Dominante) "trillone" discendente e ancora dopo tre note discendenti (Fa, Mi e Re) "la spegnerò", torna alla tonalità principale di Do. A questo punto, come capita spesso in arie ma anche cabalette, c'è una sorta di B, cioè una sorta di pausa, in cui il protagonista dopo l'eccitazione iniziale, fa una riflessione: "Era già figlio, prima d'amarti, non può frenarmi il tuo martir". Sono sempre otto battute, ed è costruito esattamente come le seconde otto, ma nella tonalità di Do minore, per dare un tono patetico alla riflessione. La sequenza è anche da eseguire "piano", come da indicazione. Al termine, con una rapida scaletta in Sol, in crescendo, si torna al Do per riprendere il tono concitato dell'inizio. "Madre infelice, corro a salvarti, o teco almen corro a morir". Musicalmente ricalca le seconde otto battute. Di seguito inizia una parentesi (Più vivo) dove, al ripetere delle ultime parole di Manrico, fa eco Leonora, che... non ne può più! ("non reggo a colpi tanto funesti, oh quanto meglio saria morir!), in Do e Fa minore. Praticamente la cabaletta potremmo dire che finisca qui, perché con poche battute, riprende da capo. Dopodiché inizia una fase che possiamo definire "Coda", dove entra il coro. Prima però faccio un'osservazione. La prassi tradizionale, nella prima o nella seconda esecuzione della prima parte (spesso viene omessa la ripetizione) sulla parole "o teco", la scrittura viene variata per interpolare un Do acuto (salvo i soliti indicenti abbassamenti di mezzo tono che riguardano l'intera cabaletta). Dunque, sappiamo che da lungo tempo esiste una prassi, (che sarebbe stata interrotta da Rossini, ma in realtà non è così, perché anche nelle opere di Rossini si è sempre continuato, anche oggi, a variare oltre la scrittura) per cui in alcuni punti delle arie o delle cabalette si eseguono "cadenze", cioè virtuosismi del solista, che naturalmente devono essere in accordo con il momento drammatico del brano e non sono scritte dal compositore, o al massimo viene indicata con delle "notine" una semplicistica soluzione da lui proposta. Nel punto in cui si esegue il Do, non è prevista alcuna cadenza. Il punto più corretto per fare una variazione è all'inizio di quella sorta di parentesi,  subito prima dell'intervento di Leonora, dove, dopo un La acuto, all'inizio di una rapida risoluzione, Verdi indica per Manrico un "a piacere" che termina con una corona. Questo è sempre stato il segnale che il cantante ha un momento di libertà, può variare, con gusto e buon senso. Che a me risulti, non è mai stato fatto. Questo è l'indice della pigrizia e della scarsissima fantasia e capacità esecutiva di direttori (in primo luogo) e cantanti. Il "grande" Riccardo Muti, che si erge sempre a paladino della correttezza esecutiva, e vieta l'esecuzione del Do, cosa che può essere anche giusta, ma perché non ha mai pensato a far variare dove Verdi lo aveva concesso?

Inizia la coda (Poco più vivo), sempre in Do maggiore, il coro ripete le parole guerresche di Manrico, "all'armi, all'armi", anche su una ritmica che distrugge la semantica (all'armì, viene la terza ripetizione, cadendo l'ultima sillaba in battere). Ma è previsto che anche Manrico continui a ripetere in tono declamatorio, acceso (e qui Verdi toglie le legature, lascia solo gli accenti), le sue perorazioni ("madre infelice, ecc."); sedici battute ripetute. Al termine tenore e coro ripetono più volte "all'armi". In fondo Verdi prescrive che sull'ultima A egli si mantenga per due battute e mezzo sul Sol, mentre il coro e l'orchestra passano rapidamente da Sol a Do. Anche qui una cieca e assurda tradizione vuole che il tenore invece salga nuovamente al Do. Se è discutibile quanto si esegue sull' "O teco", questo è decisamente erroneo, perché il Do confligge con i Si e i Re che vengono eseguiti dal coro e dall'orchestra ogni volta che passano all'armonia di Sol. Perché questo fatto non è additato dai tanti musicologi che infestano riviste e libri, nonché radio e tv? Perché queste battute sono così rapide che le dissonanze non si ha tempo di notarle, e così... va tutto bene, i loggionisti sono contenti, i cantanti pure (essendo ormai passata in giudicato anche la trasposizione a Si maggiore dell'intera cabaletta). Quattro battute alquanto concitate chiudono il brano.