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lunedì, giugno 27, 2022

la superiorità della voce

 Dopo secoli di supremazia della voce umana, gli strumenti hanno invaso il regno della musica. Anche se il ruolo del canto continua a detenere un importante ruolo in ogni genere musicale, specie in occidente la musica strumentale viene sovente considerata la regina. Non v'è dubbio che il livello tecnologico cui sono giunti i costruttori di strumenti (non oggi, sia chiaro, ma da un bel pezzo) consente di ottenere da essi diversi elementi di grande impatto. La rapidità, ad esempio, con cui si possono fare note su un pianoforte o un flauto o un clarinetto, superano sicuramente le possibilità della voce, anche di persone particolarmente dotate. Non parliamo dell'estensione, che in ogni strumento supera sicuramente quella umana. Però, stavo meditando, pensiamoci bene! Poco fa ascoltavo un concerto per pianoforte, e a un certo punto ho udito nettamente una caratteristica: sono suoni ottenuti da un congegno che batte su corde di metallo! Per quanto sofisticato, elaborato, sempre metallo è! E per quanto ricercato sia il materiale del martelletto, è sempre un pezzetto di legno ricoperto da un feltro. Si dirà: ma non è proprio dell'arte dei costruttori ad aver superato i limiti di questi materiali? Certamente! Ma vorrei far notare che il canto scaturisce da un elemento vitale e pressoché immateriale, qual è il respiro e dalla vibrazione di due piccolissime appendici muscolari. Vogliamo paragonare il respiro con pistoni, martelletti, ance? O il duro metallo presente in quasi tutti gli strumenti con la duttilità, l'elasticità, la morbidezza ma anche le possibilità tensive del materiale di cui è fatto l'apparato respiratorio-vocale? Senza contare quell'evoluzione impareggiabile che permette all'uomo non solo di emettere suoni, come ogni strumento, con le caratteristiche appena descritte, ma di dare ad essi una curvatura di celestiale primato, ovvero la parola, cosa che nessuno strumento è lontanamente in grado di fare?. Se gli strumenti sono non a ragione considerati superiori, è il solito motivo che governa un po' tutte le attività umane, cioè una maggiore facilità nel raggiungere determinate possibilità virtuosistiche e superare certi limiti. Per fare gli accordi di un pianoforte o un organo un'arpa o una chitarra, non basta una voce, ce ne vogliono diverse (un coro), e in ogni modo è vero che la varietà timbrica degli strumenti non è così facile da ottenere dalle voci, anche se si ascoltano gruppi dove qualcuno riesce abilmente a imitare il suono di molti di essi. E già, perché mentre una voce, proprio grazie alla notevole duttilità, può imitare altre voci o versi di animali, può anche imitare pregevolmente i suoni di alcuni strumenti, gli strumenti, viceversa, hanno ben poche possibilità di variare la propria voce e timbratura, sicché ogni strumento esaurisce le proprie possibilità timbriche entro uno stretto limite, e più che altro con l'ausilio di qualche artificio o strumento esterno, come una sordina, ad es., Allora un buon sistema anche di affinamento uditivo, può consistere proprio nel percepire quanto di metallo c'è nel suono di un pianoforte, o un arco o un ottone. Però attenzione, c'è anche un'altra considerazione da fare: nella voce umana noi possiamo cogliere due elementi, cioè l'aspetto aerofono o l'aspetto muscolare. Allora la riflessione è: preferiamo l'aspetto spirituale, quindi artistico, o l'aspetto fisico, animale? Beh, sono scelte e sono gusti. Sicuramente mi permetto di dire che se vogliamo considerare l'opera, cioè la musica cosiddetta lirica, che ha visto impegnati i più grandi compositori di ogni tempo, come un'arte sublime, al pari della musica strumentale, è indispensabile che essa si serva di voci che abbiano raggiunto un elevato livello di artisticità, quindi dove la loro aerofonia sia prevalente rispetto alla manifestazione uditiva di vibrazione muscolare. Purtroppo col tempo le cose sono andate al contrario, e oggi pare sia preferito il sentire lo sbattimento non solo delle corde vocali, ma anche dei tessuti faringei e collaterali, cioè, in fin dei conti, del "rumore" anziché del suono puro, che è privilegio di un fiato evoluto, proprio di persone che abbiano in sé quelle doti, quella ricchezza spirituale, che consenta di sviluppare un fiato in grado di superare i limiti del suono fisico e sostenere una parola cantata con tutti le caratteristiche auliche, poetiche, musicali, letterarie, sentimentali della parola più alta, più espressiva, che ci è consentita. 

venerdì, giugno 24, 2022

L'aura della pronuncia

 Per similitudine con l'esoterismo, secondo cui tutto ciò che è vivente ha un'aura, cioè una sorta di luminosità periferica, ed ha un colore, o più colori, a seconda del livello di conoscenza che ha sviluppato (e di questo parla a lungo e con competenza ed esperienza il grande Steiner), esiste qualcosa di analogo nel campo del canto. Se per vedere l'aura occorre evolvere le capacità visive, qui occorrono quelle uditive. Due emissioni di una stessa vocale, una anche molto buona e una giusta, vera, avranno una sorta di aura sonora diversa. Lo sento immancabilmente e cerco di farla sentire ai miei allievi facendo esempi ravvicinati, giusti e meno giusti per far sentire che quando viene raggiunta la perfetta pronuncia, si apre un ventaglio di risonanze, armonici, purezza, ampiezza, bellezza. La vera vocale suona davvero "vera", e non è gridata, non è spinta, non è schiacciata, non è affondata, non è "girata", non è nasale, non è ingolata, non è quella "col velopendulo alzato" (volontariamente) o con la laringe abbassata (sempre volontariamente), non è quella con la gola aperta (volontariamente), non è quella con la lingua in un certo modo, e potrei andare avanti molto a lungo. Non è quella cercata. Non si cerca niente e non si FA niente. Fare vuol dire impedire al respiro di compiere la propria missione; fare vuol dire interferire con la mente operante, che non è il pensiero volontario, ma quello che viene dal profondo, su cui noi non abbiamo controllo. Allora cosa deve fare l'allievo? Niente, però bisogna farlo bene!!! Cioè non è passività, ma controllo uditivo; è capacità di riconoscere il giusto dallo sbagliato. All'iniziò si andrà per approssimazione, ma bisogna impegnarsi, provare, sbagliare ma insistere nel selezionare e nel separare i suoni vocali negativi, quelli innaturali, ingolati, nasali, eccessivi, ricercati, ecc. da quelli puri, semplici, piacevoli anche se possono apparire poco "lirici", poco "importanti", poco forti... Questa è la vera durezza di una scuola d'arte. La strada dell'umiltà, della semplicità. Preferite che vi dica di gonfiarvi come palloni? di spingere come bulldozer? di cercare l'appoggio premendo verso il diaframma? o di cercare le risonanze della maschera cercando di piazzare la voce tra gli zigomi e la fronte? Mi spiace ma non posso, perché me lo impedisce la mia etica e la certezza che ciò che vado insegnando è frutto di una conoscenza basata su fondamenti inoppugnabili. Allora ascoltate i miei esempi, raffinate il vostro udito e cogliete "l'aura", cioè la libertà di quelle vocali o quelle parole, quel canto, insomma, che non è attaccato a niente di interno al corpo. Pensare che le vocali e il canto perfetto siano autonomi, staccati al di fuori di noi, potrete pensare e dire che sono illusioni, sono miei convincimenti astratti e irreali. Però prima di dirlo dovreste provare a sentire ciò che vi dico e vi esemplifico e argomentare in merito per farmi capire che ho torto, che non è vero quanto dico e che i miei esempi sono mediocri, e farmi sentire i vostri facendomi riconoscere che sono migliori. Provare per credere (cit.).

domenica, giugno 19, 2022

Correre lentamente

 C'è una frase fondamentale nella poetica del maestro Sergiu Celibidache: "dans la lenteur il y a la richesse", nella lentezza c'è la ricchezza. Detta così, fulminea e sintetica, può generare equivoci e interpretazioni assai discutibili, tipo che basta andare lentamente per far bene. Naturalmente non è così! Il m° Raffaele Napoli, suo allievo ha chiarito meglio la questione: la ricchezza è qualcosa che riguarda l'esecutore; se non è in grado di manifestare la propria ricchezza interiore, può andare lento quanto vuole, ma l'esecuzione resterà sempre pessima. 

Da qualche anno stiamo assistendo, nel campo dell'esecuzione musicale, specie della musica più antica, a un incremento vertiginoso delle velocità. Già negli anni 90 Celibidache definì "gazzella" un celebre collega che eseguiva a tempi assurdi un brano di Wagner.

Qualche giorno fa ho assistito in televisione a una esecuzione di una Norma di Bellini diretta da un noto direttore barocchista; in alcuni punti Bellini inserì una marcia, che normalmente si ascolta eseguita con un tempo piuttosto moderato. Il "nostro" ha invece ritenuto di farlo con un tempo molto più rapido, facendo diventare quella marcia una... "marcetta" a dir poco ridicola. Questo tanto per esemplificare, ma sono innumerevoli le esecuzioni di affermati complessi e direttori specie del repertorio di epoca barocca ma anche classica e protoromantica (a cominciare da Beethoven) dove i tempi di esecuzione sono sempre più affrettati.

Celibidache poneva una domanda: "che differenza c'è, in musica, tra 'tempo' e 'velocità'? Anche qui verrebbero subito da dare risposte, anch'esse affrettate, piuttosto scontate e poco efficaci. La velocità è un parametro fisico misurabile. Quando diciamo che un brano, in una determinata esecuzione, è durato, mettiamo, 25 minuti, ne abbiamo misurato la velocità in rapporto al tempo fisico. Il tempo, invece, è un parametro interno, cioè l'andamento esecutivo in ragione delle condizioni complessive che si presentano. Non può esistere un tempo assoluto di esecuzione di un brano; è perfettamente inutile e sciocco dire che "il compositore lo pensava a quel tempo"! Dove? nella sua testa? con quali esecutori? Ma anche brani eseguiti dallo stesso autore non testimoniano un bel niente! Il brano, per poter manifestare la propria ricchezza, necessita di un tempo che possa mettere in luce le caratteristiche insite nella partitura. Questo è possibile se chi esegue è in grado di cogliere tutti gli aspetti, anche i più nascosti, condividerli, eventualmente, con chi esegue insieme a lui/lei, e poi metterli in pratica. Ciò vuol dire che non può esistere un tempo assoluto, e che due esecuzioni quasi mai potranno avere lo stesso identico tempo. In questo senso il metronomo è uno strumento antimusicale, che solo raramente e per motivi particolari dovrà essere usato, e per poco tempo. Le indicazioni sugli spartiti del tempo metronometrico preferibilmente vanno cancellate, anche se inserite dall'autore. Ciò che conta è la capacità di chi esegue di riconoscere e cogliere tutti gli aspetti necessari alla valorizzazione del tessuto musicale.

Un appunto importante: il tempo giusto non può essere desunto da dischi o registrazioni in genere, perché le condizioni cambiano. Senza entrare troppo nella questione, però, solo per esempio, cominciamo dal volume: voi mettete un disco o ascoltate dal pc o dal televisore un brano di cui ignorate completamente il volume e l'intensità reale, originale. Voi manovrate il vostro apparecchio alzando o abbassando il volume a vostro piacere, con qualcuno che magari vicino a voi dirà: "eh, ma abbassa! mi assordi", oppure "non puoi alzare un po'? non si sente niente". Sembra una cosa da poco, ma già solo questo parametro può modificare notevolmente la percezione del tempo, perché se si sentono poco gli strumenti o voci più deboli, si avrà l'impressione che ci siano dei buchi, dei silenzi, e che quindi l'esecuzione vada troppo lentamente. E così via. 

Veniamo al canto, senza dimenticare quanto ho scritto prima, perché anche un solista che affronta un concerto con un pianista accompagnatore dovrà porsi questa problematica e cercare di risolverla, evitando quelle operazioni tipo: "ne ascolto un po' di esempi su youtube e poi scelgo il tempo più usato". 

Quando si fa un esercizio, è abitudine consolidata degli allievi quella di rallentare o accelerare sovente in base alle difficoltà. L'insegnante dovrà rigorosamente richiamarli a una condotta corretta, costante. Ma anche qui, magari a fini virtuosistici, è frequente l'utilizzo di vocalizzi o esercizi molto rapidi, specie con l'uso di un testo. Allora capita che senza accorgersene, proprio a causa del tempo, o meglio della velocità, si spezzetti e di articoli eccessivamente il flusso musicale. Insomma, l'allievo corre e si perdono gli aspetti più reconditi ma fondamentali del brano. Bisogna rendersi conto che anche singole note, anche non lunghe, possono necessitare di attenzione, morbidezza, dinamiche non fisse. Allora è indispensabile ricorrere al legato assoluto, cioè non lasciare il minimo buco tra le note-parole all'interno di una frase, ed evitare accenti, colpi, intensificazioni o diminuzioni improvvise. In questo senso, anche la parola o la frase, momentaneamente può cambiare. 

Ad esempio, quando il testo (ma la questione riguarda anche i semplici suoni che compongono un inciso o una frase) inizia con un breve monosillabo, magari accentato, c'è la tendenza a frenare, a staticizzare l'esecuzione. Fra-Mar-ti-no, può diventare un insieme di fonemi staccati, seppur poco percettibilmente, ma qui bisogna aguzzare l'udito e la sensibilità. Allora qui entra in gioco un'altra fondamentale frase fenomenologica del m° Celibidache: "la fine contenuta nell'inizio". 

Quando si inizia un vocalizzo, come un brano musicale, occorre traguardare alla sua conclusione. Perlomeno, all'inizio, proiettare nell'inizio la fine della frase. Allora non soffermarsi, ad esempio, su "Fra (Martino), ma già sentire il "Martino" e quanto viene dopo come una conseguenza indispensabile, per cui non suddividere il Fra dal Martino, ma iniziare già con un "framartino". e allungare sempre di più lo sguardo sonoro fino a comprendere intere frasi, se non interi brani. In questa frase, come ripeto, all'inizio si possono anche ridurre gli accenti (cosa sulla quale magari si è lavorato per diverso tempo), perché c'è spesso la tendenza a enfatizzarli, a esasperarli, inducendo lo spezzettamento della frase e l'esecuzione di "botte" che ricadono sulla voce stessa.

La cosa è tantopiù evidente quando una frase musicale è legata a un'area acuta. Prendiamo un'aria nota, Malia di Tosti. Quando si arriva, nella prima strofa, a "freme l'aria per dove tu vai", è frequente che emergano problemi, perché, anche psicologicamente, ci si avventura in un'area più difficoltosa. Allora è facile che ci si soffermi sulla "A", indiziata di causare il problema. Può essere, ma non è mettendo il microscopio su di essa che si risolverà. Se si prende in considerazione tutta la frasetta "fremelaria", senza accentare troppo la A e senza pensare troppo al significato, cioè suddividere "freme" da "l'aria", ma dire con maggiore fluidità "melaria", come se avesse un significato, abbasserà la tensione e la spinta verso la vocale, dando maggiore morbidezza e scioltezza a tutta la frase. Tornando poi a cantarlo correttamente, è probabile che l'esecuzioni migliori considerevolmente. Stessa cosa nella seconda strofa. "semiguardi", con fluidità su "miguardi". Applicare a tutti i brani dove si incontrano difficoltà-

Ma veniamo al "correre lentamente". Accade molto spesso che un esercizio, una frase, venga eseguita sciattamente, badando più che altro ai punti cardine, dove si pensa di incontrare più difficoltà, in particolare all'apice della frase. Spesso non si bada troppo nemmeno all'inizio, che viene buttato là senza attenzione. Ecco, allora occorrono due "vettori", apparentemente contraddittori, cioè l'attenzione a ogni singola nota-vocale-consonante-sillaba-parola-frase, e lo sguardo lanciato alla fine dell'esercizio-frase stessa. Quindi ogni particolare, come tessera di un puzzle, dovrà trovare la giusta collocazione ed equilibrio, considerando la visione complessiva. In buona sostanza, avere cognizione dell'UNO, non suddiviso. Vuol dire che la continuità deve essere assicurata, non ci devono essere frenate, blocchi, interruzioni, rallentamenti ma tutto deve scorrere con fluidità.

Per concludere faccio un'ulteriore analogia. Fin da quando ero ragazzo, mi capitava di notare una cosa; che fossero atleti o musicisti o artigiani o altro, spesso vedevo che non erano quelli che davano l'impressione di essere molto rapidi, molto evidenti nel far le cose che poi vincevano o arrivavano prima e che comunque facevano meglio le cose. In musica mi hanno sempre colpito alcuni grandi pianisti, Michelangeli, Rubinstein, Horowitz... che quando suonavano sembravano immobili (ma morbidi, senza rigidità); se l'inquadratura non contemplava le mani, potevano addirittura sembrare fermi. Quindi c'è una calma interiore, una energia che non si manifesta esteriormente con tanto movimento e vivacità, ma con la concentrazione e l'attenzione, senza trascurare l'aspetto fondamentale, cioè l'unità complessiva.

giovedì, giugno 09, 2022

La dura verità

Bisogna affrontare i fatti e riconoscere i problemi. 

1) questa scuola individua il fondamento delle difficoltà nell'affrontare il canto artistico nell'opposizione da parte dell'istinto di perpetuazione e difesa della specie.

- questo assunto non viene preso in minima considerazione. Le persone, addetti o meno al canto, spesso non credono nemmeno che l'uomo abbia degli istinti. Coloro i quali hanno avuto discussioni con me su questo aspetto non hanno nemmeno voluto dialogare su questo punto, adducendo opinioni prive di qualunque base scientifica. In ogni modo anche nei testi redatti da foniatri o insegnanti con buone nozioni fisio-anatomiche non ho mai rinvenuto alcun aspetto relativo all'istinto. Tutt'al più esso è richiamato, erroneamente, come spiegazione di buone vocalità spontanee.

Le poche persone, al di fuori degli allievi, che hanno accettato, almeno temporaneamente, questa tesi, ovviamente han voluto sapere, magari con spirito dubbioso, polemico, sarcastico, come si può, allora, superare questa opposizione dell'istinto. La risposta c'è:

2) occorre sviluppare un "nuovo senso", il senso fonico. L'istinto governa il nostro corpo attraverso i sensi. Parliamo di un cervello "antico", quindi di dati contenuti nel DNA, pervenuti a noi attraverso numerose generazioni. Il canto non serve alla nostra sopravvivenza, dunque non può stare nei nostri geni. 

3) il potenziale. L'uomo è suscettibile di evoluzione. Non ci riguarda la questione darwiniana, però è oggettivo che nel tempo l'uomo può adattarsi all'ambiente e alle condizioni di vita, acquisendo o perdendo delle capacità, modificando il fisico e le funzioni fisiologiche. Ciò significa che un tempo poteva avere capacità poi perdute, così come ha in sé capacità che potrebbe dover sviluppare se le condizioni di vita dovessero mutare. Ciò significa che potenzialmente possono nascere e svilupparsi nuovi sensi. 

Ora, secondo le persone "normali", dotate di un certo buon senso, di fronte a questa spiegazione, come reagiscono? Incredule, nel migliore dei casi. Se no, come già premesso, divertite e desiderose di trovare l'occasione per ridicolizzare tutto ciò. Del resto, chi anche ci credesse, non può esimersi dall'ulteriore domanda: come si fa a creare questo nuovo senso fonico?

Prima di rispondere, c'è una ulteriore, spinosa, domanda da porsi: chiunque può raggiungere un tal traguardo? Diciamo subito che sì, ogni essere umano è dotato delle stesse potenzialità, quindi la risposta sarebbe (!) positiva. Però si può domandare: quanti ci sono riusciti in un tempo congruo, ad esempio negli ultimi 20 o 50 anni? Non si può dare una risposta sicura, perché potremmo non aver saputo di uomini che ci sono riusciti. Però, volendo approssimare per intuizioni, potremmo dire che possono avercela fatta poche unità. Dunque, quante persone possono realisticamente ritenere di farcela? 

Le tante persone che in più di trent'anni si sono accostate a questa scuola e l'hanno frequentata per un certo tempo, hanno di certo condiviso questo pensiero, avendo ascoltato dettagliate spiegazioni, illustrazioni, esempi; diciamo che si sono convinte. Ma quante di loro ci credono? Non lo so, non l'ho mai chiesto, e credo che nessuna di loro se lo sia chiesto. Forse qualcuno in cuor suo l'ha fortemente desiderato, ma quanto ci abbia sentitamente creduto non so, ma penso forse nessuna. Ma proseguiamo.

4) risposta a "come si può creare un nuovo senso fonico"? Partendo da ciò che è già abbiamo implementato, quindi, nel nostro caso, dal parlato. Esso non crea particolari problemi appunto perché contenuto nel DNA. Però, per la legge del minimo costo, ha una limitata estensione e intensità. In ogni modo esercitando il parlato, estendendolo e perfezionandolo, si creerà un'esigenza di relativo sviluppo respiratorio. Sarebbe tutto qui, ma le difficoltà che si incontrano in questo percorso sono davvero tante e complesse, perché riguardano anche aspetti psicologici e di concentrazione, ma soprattutto un terribile "demone" che riguarda un po' tutti: l'ego. Questo è la principale causa di oscuramento della coscienza, e la coscienza è il centro propulsore del percorso artistico. Se non si prende coscienza di ciò che facciamo, i vantaggi che potremo ottenere dagli esercizi saranno effimeri. 

Ciò che promettiamo a chi segue questa scuola è il possesso di una vocalità stabile, omogenea e non più necessitante di esercizio, appunto perché inglobata nei nostri sensi. Ma quasi nessuno si rende conto di ciò che significa. Anche se previsto dalla Natura che si possano sviluppare nuovi sensi, in quanto potenzialmente in noi, ciò ha un costo energetico importante e può interferire, come in questo caso, con importanti funzioni fisiologiche (la respirazione), ed è per questo che l'istinto è particolarmente severo nel reagire al tentativo di estendere e adattare la sua funzione a quella vocale artistica. 

A questo punto reitero un punto fondamentale: chi può accedere a quel traguardo, e cosa succede quando non ci sono le condizioni per farlo (cioè quasi sempre)? 

Per raggiungere la meta del nuovo senso fonico occorre una disposizione che è di pochissimi nella storia, nel tempo e nello spazio. E' necessaria una spinta spirituale straordinaria (che è il vero talento), che metta il soggetto in una tale disposizione d'animo dal dedicarsi maniacalmente a questa impresa, occupandosi con fervore a tutte le implicazioni che comporta non solo e non tanto dal punto di vista dell'esercizio, ma alla soppressione dell'ego e all'approfondimento degli aspetti gnoseologici (o filosofici) che questa scelta comporta. 

Chi segue questa strada, senza raggiungere la meta agognata, sceglie la strada di una corretta educazione vocale, quindi supererà in qualità e igiene vocale qualunque altra scuola, non correrà rischi di breve durata della carriera, di problemi di salute agli apparati, però deve rendersi conto che si trova sempre su un terreno mobile, non avendo superato la reazione dell'istinto, per cui necessiterà sempre di esercizio, di studio, e che è sempre foriero di possibili regressi e di sviluppo di difetti. 

Questo per chiarezza e verità. Chi intraprende questo studio sa che migliorerà e potrebbe raggiungere un punto in cui il miglioramento si ferma perché non c'è più un "oltre", ma questo è destinato a pochissimi. Il maestro che conosce quel punto, metterà in campo tutte le strategie per consentire agli allievi di raggiungerlo, ma non dipende da lui, perché se non ci sono le condizioni spirituali di spinta, mancherà la condizione fondamentale per assimilare e individuare con incessante impegno tutto ciò che necessita per quel traguardo. Quindi il problema nasce quando le risorse proprie dell'allievo si esauriscono, mentre l'insegnante prosegue incessantemente nel tentativo di far raggiungere il limite. Si crea quindi a un certo momento una frattura difficile da suturare. Non è che non ci sia più la possibilità da parte dell'allievo di raggiungere la perfezione, ma potrebbe avvenire in un tempo infinito, oppure mai. Si può innescare in un momento qualsiasi della propria vita quello stimolo interiore a voler conseguire quel traguardo insperato. Ma, ci si può chiedere: ne vale la pena? A quanti, oggigiorno, può interessare davvero? Considerando, poi, che un canto davvero libero e puro si presenta con delle differenze piuttosto rilevanti, rispetto a quello corrente, e questo non piace alla maggior parte degli addetti ai lavori, ma anche a tanti fruitori che si sono ormai assuefatti a quel modo di cantare molto artificioso e diciamo anche difettoso e carente. 

In conclusione devo dire che è bene riflettere molto attentamente prima di scegliere questa scuola, e non farlo solo con l'illusione di poter raggiungere la perfezione, perché può essere un inganno dell'ego, di ambizioni personali che nulla hanno a che vedere con l'umiltà e la devozione all'arte che invece quella strada richiede. Ma la questione riguarda anche gli allievi già in corso, che immaginano che continuando a frequentare costantemente potranno migliorare fino alla perfezione grazie alle cure dell'insegnante. Non è così! Se mancano le risorse interne, come ho già detto dianzi, a un certo punto non solo non c'è più progresso, ma si può pure presentare un regresso, seppur di lieve entità, ma tale da far nascere dubbi, disillusioni, perdita di autostima. Momento difficile, perché l'insegnante non potrà simulare o accettare difetti o accontentarsi. E' l'allievo che dovrà porsi l'interrogativo e la decisione di quando interrompere. Risoluzione molto sofferente, comprensibilmente, anche per la difficile scelta di alternative e di prosieguo. Però questa è la realtà, sempre difficile. La strada della verità è sempre difficile, sofferta, solitaria.