Translate

venerdì, ottobre 30, 2015

Decadenza e insegnamento

Ogni fenomeno ha la tendenza naturale a decadere. La decadenza può essere fisica, quindi il fenomeno si esaurisce o cessa la sua attività in un tempo più o meno lungo, oppure può essere di tipo psicologico: se un fenomeno si ripete eguale nel tempo, non incontra l'interesse, per cui pur proseguendo nella sua attività fisica, è come se morisse, in quanto nessuno, o pochi, ne vengono attratti. I fenomeni che perdurano nel tempo, non continuativamente ma in varie forme, vanno comunque sempre incontro al rischio di decadimento specie se richiedono un particolare, impegno, energia. E' l'istinto stesso che ci porta a dare meno importanza alle materie che si prolungano nel tempo, ovvero a cercare strade per ridurre l'impegno e quindi l'energia impiegata. L'insegnamento, in ogni sua accezione, corre seriamente questo rischio, perché rappresenta il perdurare di una pratica ripetitiva. Naturalmente scrivo questo non perché io credo che SIA realmente una pratica ripetitiva, ma di fatto lo è nella stragrande maggioranza dei casi. Purtroppo lo è anche nel caso del canto. Gli insegnanti tentano di presentarsi con aspetti di novità, di originalità, di sorpresa, ecc., ma di fatto perpetuano stereotipi già decadenti di per sé, cioè il ripetersi di esercizi tecnici senza reali fondamenti. Per quanto bravi dal punto di vista semantico e affabulatorio, la mancanza di solidi riferimenti a come funzioniamo e quindi a ciò che è necessario sapere per poter conquistare l'arte vocale (e respiratoria) non può che produrre delusione, dubbi, incertezze, "transumanze" da un insegnante all'altro, non sempre necessariamente da uno meno bravo a uno più bravo, ma semplicemente da qualcuno che non ci accontenta a qualcun altro che qualcun altro (!!) ci consiglia come bravo. Da qui espressioni come "bisogna prendere un po' da tutti", "a ciascuno il proprio insegnante", e così via. Su questa seconda asserzione non sono del tutto in disaccordo; ci sono aspiranti cantanti con obiettivi talmente distorti già in origine, che devono per forza trovare insegnanti altrettanto "distorti", cioè che avallano idee assurde, ma dove considerarle assurde può essere considerata un'idea di parte, dunque può anche essere rispettabile. L'idea di innovare l'insegnamento per poter essere più originali e interessanti, ha una base e quindi una giustificazione, perché il tempo rischia di portarlo ad esaurimento per scarso interesse, ma il modo di innovare non deve essere formale e apparente, ma si deve basare sui contenuti. Lo stesso discorso vale per il canto nel suo insieme e per il teatro. Invece di mantenere alto il livello con nuove produzioni, nuovi stili, si cerca la via facile della spettacolarizzazione, dello scandalo, degli effetti speciali, quindi di tutto il contorno, senza entrare nello specifico, nel nocciolo dell'arte cui fa riferimento, anzi abbandonandolo e quindi consentendo il suo inesorabile decadimento.

venerdì, ottobre 23, 2015

"Zitti zitti piano piano"

Da sempre il m° Antonietti ha segnalato il "piano" in tutte le sue forme (mezzavoce, sospirato, falsetto, falsettino, flautato, ecc.) come un efficace mezzo di educazione del fiato ovvero di aggiramento dell'istinto. In tempi successivi scoprì e quindi divulgò una verità ancor più sorprendente: il suono "piano" è la base della voce. Nel tempo ho potuto sperimentare su me e sui miei allievi che è proprio così. L'utilizzo di esercizi in piano, pianissimo, falsettino, sospirato sono quanti mai efficaci per individuare il punto di nascita delle vocali; è utile in quanto non stimolando la reazione del diaframma per la mancanza di peso, permette per l'appunto di percepire lo scorrere del fiato-suono fino al punto in cui la vocale si forma realmente e pienamente. Questa consapevolezza, che può determinarsi in tempi non lunghi, consente anche di realizzare quella "alimentazione" della voce, la cui carenza è quel diffusissimo difetto che possiamo descrivere come staticità, sia vocale che musicale; il "tubo beante", di cui parlano anche maestri antichi, consiste appunto in una totale libertà dello spazio oro-faringeo, dove la pronuncia, perfetta, non crea tensioni, contorsioni, difficoltà, forzature, ma esce limpida e fluida grazie per l'appunto a una scorrevolezza e costanza mirabili (libera risonanza esterna). La naturale percezione (interna) di vocali anteriori e posteriori deve sparire, in quanto falsa e ingestibile in un obiettivo di omogeneità a ogni livello, compreso quello del sillabato rapidissimo. Solo il flusso mentale, cioè la nascita esteriore del suono come creato dalla mente, da osservare come spettatori, è da considerarsi meta artistica; il suo raggiungimento passa obbligatoriamente dal suono piano. Ma anche il suono forte e fortissimo sono da considerarsi come portati del piano, assolutamente non trattenuto, al contrario, fluido, che per parecchio tempo è quasi da vivere come consumo e persino spreco! Dire "spreca fiato" può sembrare folle, specie se considerariamo che quasi tutti gli insegnanti ci mettono in guardia sulla necessità di "risparmiare" fiato. Beh, è una questione da chiarire. Quando si canta non è possibile sprecare fiato realmente, se non ci sono vistosi errori (tipo emettere spesso le "acca" aspirate), perché le corde vocali impediscono una uscita considerevole di aria. Ma l'idea di sprecare fiato non crea pressione sottoglottica, perché la percezione del fiato è diversa da quella comune del suono vocale, quindi questo consiglio evita il difetto opposto, cioè il TRATTENERE il fiato, staticizzarlo e creare tensione e chiusura glottica (che è invece la spinta meccanica che si realizza pensando al suono, che invece è più legato ai muscoli). In ogni modo consigliamo vivamente a tutti, cantanti in erba e avanzati di esercitarsi spesso in modalità piano, fino al sospirato più ridotto, facendo bene attenzione a che non ci sia alcun rumore, alcuna frizione in bocca o gola, in totale rilassatezza. Il sospirato deve essere il portato di un sentimento di sollievo, di riposo, di stupore, di affetto. Naturalmente non ci riferiamo solo a vocali, ma a intere frasi, da farsi con o senza intonazione.

venerdì, ottobre 16, 2015

Matrix

L'ipotesi di vivere in una realtà virtuale appartiene alla fantascienza, però possiamo constatare, con un po' di attenzione, che stiamo vivendo comunque in una realtà piuttosto alterata. Che sia stata la TV a portarci su questa strada è cosa scontata, però questa patina si è ormai diffusa un po' a tutto il mondo che ci circonda, in particolare quello dello spettacolo, laddove poi si è cercato di trasformare tutto in spettacolo, e dove le persone ormai inglobate in questa pseudo realtà fanno da diffusori di questo virus.
Se si vanno a riguardare le trasmissioni televisive degli anni 50/60 (su youtube è semplicissimo),  si può notare che gli attori, i cantanti, i presentatori che apparivano in quegli anni erano persone come noi; personaggi di bravura stratosferica, apparivano in televisione con la semplicità e la presenza che potevano avere nostro zio, il nostro vicino di casa, l'uomo che si incontrava per strada, insomma. Si percepivano nelle loro performance l'emozione, la tensione di un evento che richiedeva impegno, studio, disposizione, tanto lavoro, e al termine si percepiva anche la liberazione finale. Ma, in quelle condizioni, gli errori, le distrazioni, gli imprevisti, erano sempre in agguato. Quanti avevano fatto teatro, e quindi convivevano con quella possibilità, sapevano trarsi d'impaccio e non di rado creare situazioni ancor più interessanti. Ma sappiamo che la pigrizia è perennemente nostra compagna, da un lato, e una certa classe dirigenziale, particolarmente abile a uccidere l'arte, ne è il supporto ideale. Perché vivere in quello stato di timore quando i mezzi tecnici potevano consentire di eliminare ogni errore. E così in poco tempo la TV abolì totalmente la ripresa diretta (tranne gli eventi sportivi, qualche spettacolo teatrale - ma sempre meno - e qualche episodio di cronaca) per passare alla registrazione su ampia scala. Questo ha inferto un colpo micidiale a quanto di buono aveva prodotto la tv nel periodo precedente. Tutto standardizzato, modulizzato, ripetuto, anestetizzato. Per un po' di tempo hanno tenuto duro un po' di bravi attori e conduttori, che in virtù della loro precedente attività sono riusciti a sopravvivere e a far sopravvivere qualche trasmissione, ma in un decrescendo inarrestabile. Le conseguenze le vediamo facilmente in quegli spezzoni che qualcuno forse considererà divertenti che sono gli errori o "papere" durante le riprese. Praticamente questi sedicenti attori non hanno più alcun interesse a far bene, giusto, perché le scene si possono girare decine di volte, e ridacchiano e fanno ogni genere di verso, tanto si taglia, si rigira, si monta. La potremmo definire anche questa una "maschera": da un lato il prodotto finale, che si definisce "professionale" (!!), dall'altro il monte ore di riprese che nascondono una totale mancanza di reale professionalità, intesa come impegno, studio, dedizione. Ma se la tv ha creato questo disastro, non è che al di fuori le cose vadano tanto meglio solo perché non c'è il montaggio, ovvero la possibilità di rigirare le scene. Il concetto di professionismo che è andato diffondendosi ha creato altri tipi di mostri. Ascoltiamo i cantanti d'opera degli anni 50-60, se non prima, ma anche pianisti, strumentisti, orchestre, e noteremo le stesse differenze! Possiamo dire che allora non fossero professionisti? Spero di no, ma i pianisti sbagliavano le note (Michelangeli lo chiamavano "marziano" perché era uno dei pochi che riusciva a fare un intero concerto non sbagliando quasi niente), i cantanti stonavano, steccavano, sbagliavano le parole. Non è che non succeda più per niente, perché comunque, e fortunatamente, le persone sbagliano e sono preda di emozioni più o meno forti che portano a errori vari, ma l'industria dello spettacolo cosa ha fatto, cosa ha voluto, cosa ha finanziato e premiato? tutto ciò che si distanziava da un possibile concetto di "dilettantismo" inteso come sbaglio, imprevisto, modifica del progettato. Tutto deve andare come è stato deciso. Allora si confezionano spettacoli dove tutto è calibrato al millimetro, soprattutto grazie a macchine ed elaboratori. L'incognita è l'uomo, naturalmente. Ma si può far selezione. E la selezione cosa premia? L'affidabilità. Cosa significa? Che se un cantante, o un musicista, o un attore o altro, che riesce a vincere determinate forze che possono portarlo a sbagliare, è considerato vincente rispetto a chi non raggiunge gli stessi risultati. Questo INDIPENDENTEMENTE dalla qualità! Il che ha significato una lenta ma inesorabile spersonalizzazione. E' logico che la macchina, e quindi l'uomo macchina, colui che riesce a staccarsi dalle emozioni, dalle paure, riuscirà a vincere la propria scommessa nella società dello star system, dove il bravo artista, anche affidabile, ma più comunicativo, quindi che può destare meno sicurezza appunto perché comunica anche quel certo timore, avrà molte meno chances.
E' questo il pensiero che mi ha destato Salvo in un commento di qualche giorno fa, e che ho ritenuto di dipanare più ampiamente qui.

sabato, ottobre 10, 2015

Della libertà

Come avviene un'appropriazione? informazioni, sotto forma di vibrazioni, vuoi luminose, vuoi acustiche o di altro tipo, penetrano in noi attraverso vari canali sensibili e raggiungono i nostri centri neurologici. Fin qui tutto noto e normale. Però non siamo ancora all'appropriazione vera e propria, ma solo alla comunicazione di un fenomeno esterno all'uomo. Se questa comunicazione fosse continuativa e omogenea, specie se di natura ponderosa, non sarebbe appropriabile. Cioè, ad esempio, un suono lungo e molto forte o una sequenza di suoni uguali e forti, non potrebbe essere appresa, rimarrebbe allo stato di percezione esteriore. Lo stesso vale a diversi livelli. Una persona che parla sempre con lo stesso cadenzare, con un certo ritmo costante nel parlato, stessa intensità di voce, dopo poco annoia e non lo si ascolta più. Anche le persone che gridano, tipo certi insegnanti, non si rendono conto che fanno un buco nell'acqua se pensano di essere più incisivi; anche molti genitori, per altro, non comprendono che gridare sempre rende inefficace l'azione educativa. Questo principio equivale a un fenomeno legato alla forza di gravità: una trave per reggere una soletta non può essere lunga più di un tot (a seconda dei materiali), perché c'è un limite oltre il quale la trave si rompe, si divide, perché non regge più il proprio peso, oltre a quello che deve portare. In compenso a un certo punto della Storia ci si rese conto che si potevano costruire travi di lunghezza straordinaria mettendo insieme tanti pezzi! Si è scoperto, semplicemente, che in questo mondo molte cose funzionano meglio ARTICOLANDO! Tutto è articolazione; il parlato è articolazione, il corpo è articolato, ecc. MA!, attenzione, affinché l'articolazione funzioni, deve permettere la relazione tra le parti e dunque una ri-unificazione. Articolare significa avere dei "pezzi" comprensibili ("digeribili"), proprio perché più elementari, semplici, rispetto al tutto, troppo pesante e "ingombrante", ma ciò che interessa apprendere è il tutto, e questo obiettivo lo si può raggiungere solo se unifico, cioè assimilo, il primo elemento, che dovrà unificarsi col secondo, divenendo a sua volta unità, poi col terzo e così via. Se ci sono le condizioni, a un certo punto arriverò all'ultimo elemento, che se si unificherà coi precedenti e diventerà un'unità complessiva; in sostanza avrò unito l'inizio con la fine. Questo procedimento, nella filosofia Husserliana (fenomenologia), è definito trascendimento. Ma cosa significa più approfonditamente? Ogni volta che la coscienza ha assimilato - o unificato - un elemento, si è liberata, e questa è la condizione necessaria affinché si possa assimilare il secondo elemento. Se questo accadesse per tutto il fenomeno, noi al termine, oltre ad esserci completamente e perfettamente appropriati del fenomeno, ci troveremmo in una paradisiaca condizione di libertà! E' ciò che avviene, o può avvenire, quando ci appropriamo veramente di un'opera d'arte: un libro, un manufatto, un brano musicale. Ma molto spesso (quasi sempre) cosa succede in questi "interstizi" tra l'unificazione di un primo e di un successivo elemento (cioè il momento della liberazione), prima di aver completato l'apprendimento complessivo? Subentra il pre-giudizio. In genere, ma pressoché sempre, noi non siamo in grado di attendere, vogliamo giudicare, ci facciamo un'idea, vogliamo intervenire, interrompere e dire qualcosa. Un giorno lessi un piacevole raccontino-metafora: Un uomo occidentale si mise a parlare concitatamente con un saggio orientale, forse per protestare rispetto a qualcosa. Andò avanti a parlare per parecchi minuti, senza che l'altro dicesse alcunché. A un certo punto terminò. L'altro rimase ancora in silenzio, sicché, quasi istantaneamente, l'uomo occidentale gli gridò: "Beh? non hai nulla da dire?" e l'altro rispose: "volevo aspettare nel caso avessi ancora qualcosa da aggiungere". Secondo me è emblematico di tutto ciò che manca oggigiorno (non so se in oriente sono ancora così pazienti...). Provate ad analizzarvi quando parlate con qualcuno, provate a osservare cosa succede nelle conversazioni, specie quelle oscenità televisive! Nessuno attende mai che un altro termini, anzi, spesso e volentieri quasi non si attende nemmeno che l'altri inizi un pensiero, che già si interrompe, si fanno facce, ci si alza e urlando si esce, e così via. Manca la pazienza, ma soprattutto manca la coscienza della vera percezione, dell'apprendimento. Se oggi dilaga l'ignoranza non c'è da meravigliarsi. Si pensa che non ci sia ignoranza perché si studia molto, si conoscono nozioni e informazioni di tipo culturale, si legge. Ma tutto ciò è in gran parte una rudimentale e informata ignoranza. Mancano le relazioni tra le parti, manca la coscienza di un tutto, manca la capacità di mettere insieme "i pezzi", il pregiudizio è sempre presente, e blocca o riduce le capacità di assimilazione e apprendimento profondo ed efficace, e questo pregiudica la libertà! Se vengono a mancare i requisiti di libertà, viene a mancare la gioia, la serenità, il piacere che da essa scaturisce. E' indispensabile, non con la forza, quindi non reprimendo, ma con il sentimento, con la pazienza, svuotare la mente, provare a vivere la felicità della percezione priva di giudizio, cioè della purezza e della visione interiore della realtà vera, priva di quelle sovrastrutture che noi stessi creiamo con i nostri retro pensieri costruiti e immotivati.
Questa lezione vale anche per l'apprendimento del canto, come di qualunque altra cosa. Ogni volta che facciamo un esercizio rischiamo, dopo le prime note o sillabe, o altro, di distrarci rispetto a ciò che stiamo facendo, nella volontà di giudicarlo. In questo modo non sappiamo veramente come l'abbiamo fatto, perché non ci siamo liberati, ma rimaniamo in uno stato di tensione dovuto al giudizio e a quanto ne consegue. Quindi l'esercizio più difficile è quello di eseguire svuotando la mente, cercando di eseguire senza giudicare, ascoltando neutralmente e attendendo ciò che dirà l'insegnante. Se si riuscisse a fare questo, le probabilità che l'esercizio abbia successo sono enormemente maggiori rispetto al consueto. E questo, lo ripeto, vale per qualunque cosa si voglia imparare.

venerdì, ottobre 02, 2015

Libri di canto

In questi giorni ho avuto modo di compulsare un trattato di canto, di cui preferisco non citare titolo e autore. E' un libro che ha già una ventina d'anni, anche se io ne sento parlare solo adesso. Il libro ha subito pesanti critiche, e solo leggendo copertina e prime pagine si comprende il motivo; piuttosto autoreferenziale e composto con un linguaggio molto ricercato, direi spesso del tutto incomprensibile. In genere questo tipo di libri, dopo una scorsa veloce, si mettono via; alcuni si divertono a bersagliarli in rete, altri ne fanno oggetto di culto. Ho cercato invece di leggerlo con distacco e oggettività. Comincerò col dire che ogni volta che mi capita in mano un libro sul canto, due sono le cose di cui vado in cerca: un fondamento, quindi anche una poetica unitaria e una completezza di argomenti. Raramente trovo il primo, non molto frequentemente il secondo! Anche in questo caso direi che latitano alquanto fondamenti, unicità e completezza. Però vorrei iniziare con una nota, almeno in parte, positiva. L'autore, o meglio autrice, non è una sciocca, non è certo una di quelle insegnanti che tramanda le solite cose più o meno arruffate e stereotipate, ma ha fatto della ricerca e si è basata su osservazioni e intuizioni non disprezzabili. Che questo abbia portato a conclusioni sostanzialmente folli, è purtroppo la tragica realtà, però mi ha piacevolmente sorpreso che abbia ragionato e inquadrato correttamente alcuni problemi. Il nodo fondamentale che affronta il libro è la respirazione. L'autrice giunge alla constatazione che l'aria "pressata" non è una valida premessa a un buon canto, e, ancor più acutamente, fa un distinguo fra aria di sopravvivenza e aria utile al canto. Questo, secondo lei, porta a due conseguenze: il canto "inspiratorio" e il canto sulla riserva. Canto inspiratorio non inteso che si canti inspirando, ma in una condizione simile, cioè allontanando il fiato respiratorio, eccessivo e pressato e mantenendo una condizione aperta come quando si inspira. Come questo si ottenga è arduo comprenderlo dalla pubblicazione, perché a queste premesse, interessanti e stimolanti, seguono rappresentazioni sensorie, mentali, a me sinceramente del tutto incomprensibili e anche intimorenti. Posso capire un certo indirizzo a coinvolgere tutto il corpo, per quanto velleitario, ma consigli a pensare tutto dietro, tutto al contrario (inspirazione in su, espirazione in giù), rotazione oraria verso il dietro, ecc., non solo collidono con ogni buon principio della mia scuola, il che non significa che non possa essere valido, ma non trova alcuna giustificazione nel libro stesso! Come dicevo, per seguire una certa scuola, ho bisogno di riscontrare un fondamento che giustifichi le scelte e i consigli offerti. Che questa cantante, che non è certo da censurare, ha fatto una buona carriera e possiede una buona vocalità, proponga certe immagini e certe tecniche che a lei possono essere state utili e le abbiano permesso di cantare validamente, non significa che sia una strada utile a tutti, per cui non può rappresentare una scuola, un modello condivisibile, ancorché comprensibile. Un altro punto che mi ha meravigliato è stato il definire la vocale attaccata duramente "consonantizzata", come ho fatto anche io tempo fa in questo blog. Sono contento che siamo arrivati allo stesso punto, con la medesima definizione, vuol dire che a certe osservazioni ci si può arrivare con una stessa impressione. Invece ho trovato estremamente deficitario il testo sugli argomenti svolti, e in particolare non prende minimamente in considerazione il tema dei registri. Da un lato potrebbe essere meglio così, ma in definitiva manca un capitolo essenziale nella comprensione delle strategie educative. In conclusione questo libro non è utile a niente; forse l'autrice non si è resa conto che gran parte dello scritto è pressoché incomprensibile, quasi illeggibile! Forse avrebbe dovuto farlo leggere e ricevere qualche consiglio sull'opportunità di utilizzare un altro linguaggio. Al di là di quello, però, non si comprende ugualmente lo scopo di tale manuale; non si può certo utilizzare per cantare, come del resto nessun testo lo è, orientativo nemmeno, perché non prelude a prese di coscienza (nonostante questa frase sia più volte esplicitata) significative, mancando ogni riferimento a "come siamo fatti". Non è poi nemmeno chiaro il rapporto tra scienza e arte. In alcuni capitoli il riferimento scientifico è stringente, con interi passi copiati da manuali, ma sembra di capire che l'autrice non nutra tutta questa fiducia nella scienza, per cui in conclusione può essere un libro da leggere per curiosità rispetto un modo alquanto bizzarro di affrontare la vocalità ma non privo di spunti intelligenti, ma che sconsiglierei di seguire.