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lunedì, settembre 20, 2021

La voce nasale

 Tanti anni fa il giornalista e pseudo vociologo Rodolfo Celletti, che amava coniare aggettivi per i cantanti, definì "scuola del muggito" una classe di baritoni che tendenzialmente era caratterizzata da voce piuttosto nasale. Gli esponenti più nel mirino erano Gino Bechi e Tito Gobbi. Quando la notorietà di Celletti giunse all'apice, cioè tra la fine degli anni '70 e gli '80, Bechi si era già ritirato da tempo e Gobbi era a fine carriera, Il primo aveva debuttato giovanissimo e praticamente aveva svolto la carriera con una generazione "indietro", cioè con Gigli, Caniglia, Stignani, Pasero, ecc., mentre Gobbi fu più regolare e quindi compagno di Callas, Di Stefano, Siepi, ecc. Per questi motivi il rancore verso il critico fu più acceso da parte dei fan del baritono veneto più che da quelli del toscano, che erano ormai più che altro dei nostalgici. Ho avuto come mentore della passione operistica un signore che in gioventù era stato un vero fanatico di Bechi, e aveva anche intrapreso una piccola carriera locale come baritono, egli stesso, imitando pedestremente il più noto collega. Quando lo conobbi e frequentai, appunto a fine anni 70, quando non cantava ormai più, nutriva un certo livore nei confronti di Celletti, però ammetteva, a denti stretti e a distanza di tempo, quindi "a bocce ferme", che non aveva tutti i torti a criticare Bechi per l'emissione nasale. E così mi spiegò la questione dal suo punto di vista, relativo soprattutto al fatto che la carriera di Bechi fosse stata così breve: "è come fare una gara con le automobili; Bechi è come se non perdesse tempo a cambiare marcia, faceva tutto in prima; gli altri cambiavano e quindi sulla breve distanza vinceva lui, però lui poi ha fuso!". Purtroppo questa persona è venuta a mancare dopo pochi mesi dalla nostra conoscenza, quindi non ho avuto tempo di chiarire cosa intendesse dire; il discorso non mi è chiaro, cioè se secondo lui spingesse o che altro. Un altro cantante che ho frequentato per qualche tempo, il basso Oddino Bertola, che fu compagno di Bechi in molte recite, soprattutto nel Barbiere di Siviglia, ricorda che il collega aveva una voce strepitosa, intensissima, e che non potevi stargli troppo vicino quando emetteva un lungo acuto, perché ti perforava i timpani. Su Gobbi non ho molte notizie di colleghi o simpatizzanti; quello che ho sempre ricavato dalle registrazioni e interviste, anche in diretta, che ho ascoltato, è di un cantante piuttosto confuso persino su sé stesso. Ci sono alcune registrazioni degli anni '40 che ci mostrano un cantante prodigioso, con un timbro bellissimo, ombroso ma chiaro nella dizione (a differenza di Bechi, che aveva un timbro tendenzialmente chiaro e una estensione molto portata verso l'acuto, con qualche difficoltà in basso), con un repertorio lirico-brillante, che poi portò verso ruoli più drammatici, che non solo modificò la propria impostazione (decisamente in peggio), ma che rinnegò addirittura il suo modo di cantare giovanile. C'è un "quand'ero paggio" miracoloso, che non solo regge il confronto con i più grandi Falstaff e strepitosi colleghi, ma che possiamo considerare la migliore esibizione discografica di questo passo. Viceversa, a partire dagli anni '50, nei Rigoletti, Tosche, Barbieri, Balli in maschera, Nabucchi e via dicendo si contraddistingue soprattutto per un settore acuto non solo nasale, ma anche schiacciatissimo, fisso. Credo che la maggior parte dei suoi seguaci continuasse a esaltarlo più che altro per la grande capacità scenica e di immedesimazione nei personaggi, che ne facevano uno dei migliori soggetti teatrali, sicuramente buon compagno degli altrettanto validissimi Callas, Di Stefano, Del Monaco, ecc. Potrebbe anche darsi che in teatro le caratteristiche negative fossero meno evidenti, mentre le registrazioni sono impietose. Bisogna dire che se "naso" deve essere, Bechi sapeva sfruttarlo molto meglio, perché effettivamente gli acuti risultano molto più belli e ricchi. 

Cerchiamo di chiarire come e perché di questo tipo di emissione. Intanto sottolineiamo che già i primi trattati di canto consideravano molto negativamente la nasalizzazione. Ciononostante anche nelle registrazioni risalenti al primo '900, capita di ascoltare voci con questa caratteristica, anche se i sistemi di incisione diretta credo che potessero esaltarla, quindi non rendendo piena giustizia. La situazione è andata molto peggiorando nel dopoguerra quando i foniatri portarono l'attenzione verso le cavità sopraglottiche (la cosiddetta "maschera") e quindi tutto il mondo dei docenti che si posero in condizione di sudditanza verso la scienza, che in realtà nulla sa sull'arte vocale, presero a sollevare il focus nella zona nasale, con conseguenze molto negative. Non tornerò a fare i nomi di alcuni celebri cantanti che si sono contraddistinti per avere, anche solo di sfuggita, ma comunque sensibilmente, adottato una emissione, specie nell'attacco, nasale. Quali sono gli aspetti più negativi? In primo luogo il timbro, che è decisamente brutto. Gobbi lo esaltò in particolare nel Gianni Schicchi, contraffacendo la voce di Buoso Donati. Definiva questo un "timbro giallo". Purtroppo questa sua invenzione fu imitata da quasi tutti i successori. Ma in ogni modo questi si possono considerare degli effetti comici che si possono anche accettare, come succede per il "curiale" del Barbiere di Siviglia, o il notaio nelle Nozze di Figaro, o il medico ancora nel Gianni Schicchi e nel Così fan tutte. Diversa è un'impostazione fondata su risonanze nasali. La cosa buffa è che successivamente i foniatri tornarono sui loro passi e dichiararono che la voce nasale è controproducente, perché il rivestimento delle fosse è fonoassorbente, quindi riduce, invece di amplificare. Ma anche questa non è una gran verità. Infatti come spiegano che Bechi aveva una voce così squillante? Se può essere vero che il rivestimento è assorbente, lo spingere in quella fossa comunque genera moltissimi armonici, come sanno i cultori del suono armonico. E' noto, infatti, che il timbro nasale, come avviene per le viole, esalta alcuni armonici particolarmente sonori. Peraltro non è un timbro particolarmente piacevole. A parte ciò, in campo vocale ci sono due aspetti molto controproducenti: 1) perché sia nasale, il velopendulo scende, si abbassa, il che significa una debolezza respiratoria, che per l'appunto è sempre considerato negativo da un po' tutte le scuole, che indicano sempre la necessità che il palato molle sia alto.(ma senza sapere bene il perché); 2) l'innalzamento della punta della colonna d'aria in zona nasale, comporta un sollevamento della base del fiato, ovvero dell'appoggio. C'è anche un terzo elemento, non secondario: la pronuncia non può essere esemplare, perché l'articolazione necessita degli elementi orali, lingua, palato, denti, labbra, faringe, per cui spostando il focus in alto, almeno parzialmente, anch'essa diventa carente. Un aspetto che contraddistingue oggi la stragrande maggioranza degli insegnanti di canto, è il ricorso alla vocalizzazione "muta", che porta indiscutibilmente verso la nasalizzazione. Una catastrofe dell'insegnamento, privo di qualunque fondamento logico, ma che è ormai entrato nella quotidianità e non sarà facile da estirpare, anzi probabilmente impossibile. Ma perché si ricorre ad essa? Beh, un motivo sta in ciò che abbiamo già detto: un leggero sollevamento della colonna d'aria produce un minor impegno, per cui si ha l'impressione di cantare con maggiore facilità. In secondo luogo l'ampliamento superiore della risonanza produce anche una sensazione di grande squillo, confuso, come s'è detto, con le risonanze della "maschera". Se mantenuta così semplicisticamente, questa emissione può essere pericolosa e portare in tempi piuttosto brevi a gravi conseguenze, come ballamento della voce e perdita di acuti. In genere quando ci si accorge delle diminuite prestazioni, si ricorre o all'ingolamento o all'affondamento, per contrastare il sollevamento della base. In ogni caso difetti su difetti. Qualcuno, un po' più intelligentemente, ha intrapreso un tipo di approccio meno pericoloso, cioè attacca il suono con una leggera nasalizzazione, per poi toglierlo da quella pericolosa posizione. Questo riduce le possibilità di spoggio, però dà al cantante la sensazione di un attacco più facile, più morbido , più sonoro. Naturalmente questi sono trucchi, anche piuttosto banali, quindi mettiamo in guardia dall'adottarli, anche perché a un certo punto si rischia, fortemente, di non riuscire più a uscire da quella posizione, e quindi, col tempo, restare in una posizione nasale, come mi pare sia avvenuto e stia avvenendo a chi ha adottato questa strategia. 

sabato, settembre 11, 2021

S-controllare

 Tutti coloro che studiano uno strumento musicale - canto e direzione d'orchestra compresi - ritengono che l'obiettivo fondamentale da raggiungere sia il CONTROLLO. Saper controllare le mani, per un pianista o qualunque altro strumento, controllare il fiato (?) o i muscoli (quali?) per un cantante o un direttore d'orchestra, sembra la vetta di un percorso di apprendimento. Peccato che questo sia un falso obiettivo. Il controllo non ha niente a che vedere con l'Arte! E' una illusione mentale, una imposizione razionale e prettamente fisica. La conquista di una COSCIENZA artistica, legata, nel nostro caso, a abilità strumentali, richiede il superamento degli ostacoli di natura fisica. Cioè essi non dovranno più frapporsi tra la pulsione a manifestare un messaggio spirituale attraverso uno strumento espressivo e l'azione stessa, che pur essendo in parte di natura fisica, lascia che sia la pulsione stessa, di ordine spirituale, ad agire per noi attraverso i canali fisici necessari, e il nostro intervento dovrà essere solo legato all'innesco del processo. Tutto il resto deve essere lasciato fluire. Cosa vuol dire "parla", che il maestro ripete in continuazione? Non vuole solo dire pronuncia, articola correttamente, che è un dato essenziale, ma mettiti nella stessa condizione di quando parli, cioè non guidare, non controllare ciò che fai. Potrei dire "cammina", è la stessa cosa, cioè lascia che il tuo corpo cammini. Quando compi queste azioni che definiamo "naturali" pare non esserci alcuna azione e persino nessun pensiero indotto. Si parla e si cammina come "sonnambuli", guidati dalla méta, da ciò che sta nella fine; infatti una delle frasi chiave di Celibidache relative alla musica è: "far sì che la fine sia contenuta nell'inizio". Se si entra in questa dimensione, si comprende che il controllo è superfluo, anzi negativo. Se le premesse sono corrette, cioè se nell'inizio è compresa la fine, in potenza, come nel seme c'è l'albero che ne scaturirà, dobbiamo anche comprendere che più cose facciamo, più ci allontaniamo dalla retta via. Però anche questa affermazione non è corretta, perché un problema persiste, come ho scritto nel post precedente. Se io "lascio andare", cioè non faccio niente, è vero che consento maggiore naturalezza, ma restano i "nodi", cioè degli impedimenti che il corpo presenta istintivamente, in quanto il fiato non ha il grado di evoluzione sufficiente a consentirmi la piena libertà su tutta la gamma possibile. L'evoluzione di una specie è sempre legata alle esigenza di vita di quella specie. L'uomo si trova in una determinata situazione fisica, mentale, psicologica, ecc., perché questo è il grado di esigenza (di perpetuazione) della nostra specie nelle condizioni del mondo in cui viviamo. In questo mondo l'espressione artistica non è tra le necessità della specie, quindi la natura animale che ci governa istintivamente, non consente che l'espressione artistica possa avere il sopravvento su quelle vitali, pertanto si opporrà, più o meno violentemente. Peraltro la parte spirituale che vive in noi e che tende a emergere e manifestarsi, anch'essa in modo più o meno imperioso, cercherà in qualche modo (o anche in "ogni" modo) di averla vinta sugli ostacoli che ci si frappongono. Può nascere quindi una sorta di battaglia interna, ma la parte istintiva, se battaglia c'è, avrà sempre la meglio alla fine. Al massimo potrà consentire una tregua. E se tregua sarà, non ci sarà mai una reale conquista artistica, che significa SENSORIALE: ciò che chiamiamo "senso" (udito, tatto...) è una capacità del corpo di assolvere a una funzione fondamentale per la perpetuazione della specie, per cui è compreso e contenuto nel DNA, cioè tra le funzioni istintive. Posto in questo modo il problema, potrebbe sembrare che un obiettivo artistico, che è la perfezione, sia del tutto inarrivabile. In realtà non è propriamente così, considerato però che noi non possiamo agire sul DNA, per cui possiamo arrivare a dire che ogni persona ha in sé la possibilità e la capacità di sviluppare un nuovo senso, ma che questo sarà un evento soggettivo eccezionale non trasmissibile per via genetica. Dunque, affinché il nostro sistema istintivo accetti e consenta che si possa acquisire e manifestare in modo perfetto una determinata azione artistica, dovrà riconoscere un'esigenza, che stavolta non sarà nel contesto esterno (cioè mutate condizioni di vita, come potrebbe essere uno stravolgimento climatico, chimico-fisico...) ma interno, cioè nella pulsione spirituale del soggetto. Perché un bambino sente l'imprescindibile necessità di suonare, di cantare, di dipingere, ecc.? Evidentemente perché c'è in sé questa necessità. Ma questo non basta. Manca il percorso. E' necessario sviluppare le condizioni che permettono al gesto artistico di svilupparsi in modo esemplare. Nel nostro caso, il fiato. Il fiato nel nostro stadio evolutivo, è sempre carente rispetto al livello vocale perfetto. Anche la parola è insufficiente per elevarla artisticamente. Quindi anche se c'è la forza spirituale, abbiamo bisogno di perfezionare gli elementi che determinano l'arte stessa, però facendo attenzione a non creare la guerra con l'istinto, che in ogni caso non può permettere di commutare una funzione vitale, come la respirazione, in qualcos'altro non così indispensabile. Purtroppo, siccome siamo guidati dalla mente, che è un organo fisico e che comprende la fisicità e non la spiritualità, noi vogliamo controllare l'azione, e quindi impediamo il libero fluire del canto anche quando questo potrebbe manifestarsi. Qui nasce la necessità di una disciplina, cioè della capacità di spostare il nostro fare dal piano fisico a quello spirituale, ovvero "lasciar fare", togliere i controlli e le azioni automatiche. 

I 100 nodi

 L'insegnamento del canto (di questo parliamo, ma potrebbe essere qualunque altra cosa), consiste nello sciogliere un numero imprecisato di nodi (100 si fa per dire). Ogni volta che iniziamo un percorso, si presenterà un problema. Può darsi che uno non se ne accorga, ovvero non lo riconosca, e qui c'è un problema di ignoranza, e quindi il nodo rimane. Se chi si occupa della educazione della voce di quel soggetto sa riconoscere quel problema, ne conosce la causa e sa come intervenire, scioglierà il primo nodo. Successivamente si presenteranno altri problemi e altri nodi. Alcuni insegnanti sapranno scioglierne un certo numero, pochi li sapranno sciogliere tutti, e portare il soggetto alla completa libertà. L'analogia col nodo è utile a comprendere che qualcosa ci impedisce di manifestare compiutamente una libertà di espressione. Sciogliere i nodi è l'immagine più rappresentativa di un libertà che si va a conquistare. Ma il problema che gli insegnanti in genere non vedono è: cosa costituisce quei nodi? E figuriamoci foniatri e "esperti" della scienza. La maggior parte degli addetti ai lavori sono convinti che per cantare ci voglia una tecnica, come per suonare il pianoforte o il clarinetto. Che bisogna allenare i muscoli come gli atleti sportivi, costringerli a "obbedire" alle nostre richieste. Peccato che questo non avvenga e non possa avvenire, o se sembra che avvenga, sarà solo per un tempo limitato, perché il vero problema non è la mancanza di tecnica, ma l'opposizione che ci presenta il nostro corpo laddove non intravede un'esigenza reale da soddisfare, evitando la strada della coercizione, della violenza. Inoltre si è persa la strada della parola quale viatico educativo. Dato per evidente che la nostra Natura include la capacità di parlare, anche a lungo, e che quindi il nostro sistema ha acquisito e inglobato totalmente la voce parlata e non si oppone alla sua produzione, è così difficile intuire che è proprio partendo da essa che si può esercitare la voce senza andare incontro ai più comuni problemi, e che è proseguendo, quindi perfezionandola e quindi inserendola nel cammino musicale, che si può realmente raggiungere una vocalità sana e priva di reazioni da parte del nostro corpo? La risposta sta nel panorama, in ciò che si sente nella maggior parte dei casi nelle esecuzioni in cui siano coinvolti cantanti, cioè quello di voci "annodate", cioè relegate, frenate, impedite nella loro piena e potenziale manifestazione.

"... lei non ha avuto la fortuna di trovare qualcuno che le impedisse di rimanere alla fase nella quale il suono risveglia in lei emozioni. La musica non è questo". Questa straordinaria frase è di Sergiu Celibidache. Pensate che immensa chiarezza di pensiero avesse questo genio! Non dire: "lei non ha trovato un maestro, un insegnante, qualcuno che le "Permettesse" di raggiungere un determinato obiettivo", bensì qualcuno che le "impedisse" di restare in un determinato stato. Capovolgere l'obiettivo, vedere le cose da un altro punto di vista, sovvertire l'ordine dei fattori per poter superare la visione stereotipata cui siamo abituati.

giovedì, settembre 02, 2021

Accettare?

 Da tanti anni soglio individuare se nei miei allievi c'è un reale interesse e quindi un'accettazione del tipo di educazione vocale che impartisco, oppure no; quando mi pare che i progressi stentino, soprattutto in un certo ambito, mi permetto di far presente che forse non stanno accettando questo modo di cantare o questo tipo di educazione vocale. La risposta che ottengo è sempre "noooo", perché tutti coloro che vengono animati da autentico spirito di miglioramento e di fiducia, sono convinti di aver abbracciato con anima e corpo questa disciplina, il che non è sempre così, anche se lo credono. Oggi, leggendo una frase di Aristotele, mi rendo conto di dover modificare qualcosa. La frase è: "Solo una mente educata può capire un pensiero diverso dal suo senza bisogno di accettarlo". La frase è cristallina. Si potrebbe dire che è quasi una violenza voler far accettare un pensiero, ovvero una intera scuola di pensiero, se non si è ancora raggiunta una sufficiente, matura educazione mentale (vocale), la quale non ha bisogno di essere accettata, perché sarà essa stessa a palesare la propria verità. Ma questa condizione riguarda ogni cosa del nostro vivere dove si passa o si deve passare da uno stato abitudinario, tradizionale, indotto e quindi "indossato" in modo passivo a uno che definisco artistico (ma potrei dirlo in molti altri modi), cioè che richiede una notevole energia (quindi attività) per elevarsi a un livello superiore, vero, sincero, spirituale. Chi ama il canto, l'opera, la lirica, che frequenta teatri, che fruisce dischi, radio, tv, è ormai assuefatto a un certo modo di cantare. Sono pochi coloro che si rendono conto autonomamente che oggi sono rare come perle le voci realmente educate ad alti livelli. Io stesso indico come "buone" alcune voci che si staccano dalla media tremendamente bassa di questo tempo, anche per non fare sempre il "bastian contrario" o il brontolone, ma realmente di voci realmente valide se ne sentono molto ma molto poche. Dunque non si tratta di accettare ma di attendere che l'evoluzione che si è accesa in noi faccia la propria strada e si porti a compimento. Naturalmente, pur basandosi su istigazioni tipo "non fare niente", "lascia andare", "togli", ecc., non è che richiede una totale passività; la passività può essere di tipo fisico-volontario, ma richiede una partecipazione, una adesione meditata, un'attenzione non comuni. I grandi maestri, come Antonietti e Celibidache, all'inizio di ogni lezione (guarda un po' le somiglianze) chiedevano: "domande?". Certo, la curiosità, la necessità di capire ciò che sta avvenendo, di interrogare su ciò che non si è percepito chiaramente e su tutto ciò che resta da sapere, dovrebbero indurre a chiedere, porre domande, osservare, ecc. Da quindici anni gestisco questo blog, scrivo più o meno frequentemente, faccio passare allievi... ma quante domande credete che mi siano state poste? Pochissime, nell'ordine delle unità o di una o al massimo due decine. Una miseria. Il m° Celibidache non era molto gentile con chi frequentava a lungo e non poneva domande; Antonietti insisteva, e ricordo in una registrazione che prima di terminare eslcama: "chiedete, chiedete, chiedete". Certo, è l'unica vera forma in cui possiamo realmente fare passi avanti. Però anche questo non è un obbligo; è del tutto inutile insistere affinché si pongano domande, se queste non vengono da dentro di noi. O forse mancano le abitudini a relazionarsi in questo modo, e forse è anche una mia carenza, chissà. Ogni tanto bisogna anche rivedere i propri strumenti comunicativi.