Translate

domenica, dicembre 29, 2019

Non appoggiare!

Da ormai molto tempo, il tormento degli insegnanti di canto riguarda il far "appoggiare" la voce. Per molti è talmente assillante, che vanno oltre... SCAVARE!! Ormai non ci sono più limiti; premere, allargare, spingere: sugli intestini, sulla schiena, sul pube... non vado oltre, ma questa deriva porta a indicazioni che con la voce non hanno niente a che vedere, mentre molto hanno a che fare con situazioni intestinali ... lassative. Lasciate perdere, siete su una strada assurda, questo è il mio consiglio che posso ampiamente argomentare. Poi... ognuno è libero di fare ciò che vuole, però è consigliabile informarsi attentamente prima di iniziare un percorso che può non avere strade di ritorno.
Detto ciò, vediamo di comprendere in cosa consiste questo argomento.
Si ritiene che la voce per poter avere "spessore", sonorità, proiezione, intensità, timbratura, colore, estensione, debba avere un solido appoggio, e questo appoggio debba puntare sul diaframma. Ho letto che per qualcuno questo appoggio debba insistere invece sulla schiena. Per altri è più in basso ancora, ma queste differenze alla fin fine poco ci interessano. La questione è che per moltissimi insegnanti, quasi la totalità, con l'inizio dello studio del canto si debba praticare un lavoro per sviluppare e aumentare sempre più questo appoggio. Si ritiene, in sostanza, che la voce immatura di chi si accinge a studiare, povera, corta, fissa, sia dovuta allo scarso appoggio. Siccome il diaframma o le altre zone ritenute sede dell'appoggio stanno in basso, ciò che viene imposto agli alunni sia premere giù! Magari qualcuno meno violento non parla di pressione, ma più aulicamente di "sedersi" sulla "pancia", lasciare dunque che la parte superiore del torace si rilassi sopra quella inferiore, in modo che, senza una vera spinta, ci sia comunque questo appoggio. Da qui nasce una vera ossessione per tutto ciò che possa salire. Se la laringe sale: guai!! se la lingua sale, guai, ecc. Qui nasce poi la "dualità" delle scuole: quelle che ritengono che premendo in giù si faccia anche compiere un balzo alla voce che vada automaticamente anche "in maschera", contro quelle che invece ritengono che bisogna "mandare" volontariamente il suono nelle cavità superiori, o comunque verso il palato anteriore. Queste ultime quindi esercitano una doppia pressione: una verso il basso e una verso l'alto, avendo come fulcro la gola (e infatti è proprio lì che si ferma tutto). Purtroppo devo dire che queste metodologie, che hanno una loro logica, non portano ad alcun risultato artistico. Possono in alcuni casi creare voci molto forti, timbri "popolari", ma niente che possa realmente portare a risultati espressivi, musicali, sinceri. Tutto un mondo di artefazione, costruzione, superficialità.
Che la voce artistica debba avere un appoggio è più che corretto, è logico. Ma chi lo dice che la voce "naturale" non sia appoggiata? Dovremmo pensare che nella nostra vita di tutti i giorni ci sia una ragione per cui i polmoni siano "staccati" dal diaframma? o che esso non si distenda ma resti perennemente nella sua posizione rilassata? Certo, quando svolgiamo la nostra vita sedentaria esso parteciperà pochissimo, e idem quando camminiamo lentamente, tranquillamente. Ma quando acceleriamo, facciamo una salita o una scala, se non addirittura sport, esso parteciperà in modo più o meno ampio ed evidente.
Quando andiamo un po' oltre il parlato normale, quindi usiamo la voce in modo più incisivo, quindi utilizziamo anche il fiato in modo più impegnativo, creiamo un "peso" sul diaframma; entro un certo lasso (e questo dipende da una situazione del soggetto che può avere un grande margine di diversità) non avverrà niente di particolare, ma superando questa soglia di tolleranza, il diaframma (ovvero l'istinto) reagirà provocando una risalita più o meno violenta e risoluta del diaframma. E' quello che sinteticamente possiamo definire "spoggio" della voce. Questa è la situazione più temuta e quindi più "nel mirino" da parte degli insegnanti, che per evitare questa "catastrofe" fanno esercitare con l'opposizione. Premi giù! Ora, se il nostro corpo fosse un meccanismo, una costruzione meccanica, la cose potrebbe anche funzionare, ma purtroppo (ma direi fortunatamente) è un organismo biologico cui sottende un complesso apparato nervoso. Se l'istinto ritiene che tentare di forzare l'apparato respiratorio (vitale!) sia un "attentato", cioè un'azione che può mettere in pericolo la nostra vita, modificando - non si sa come - il funzionamento respiratorio, noi ci troveremo vita natural durante con una opposizione: noi che premiamo verso il basso per tenere giù il diaframma (o perlomeno con questa intenzione), lui che continuerà a reagire premendo in su. Succede però che l'istinto non è del tutto cieco, dopo un certo tempo che esercitiamo questa pressione, cederà un poco, poi un altro po', dando fiducia che non vogliamo proprio suicidarci, ma che abbiamo qualcosa da fare, tipo uno sport, che richiede questa manovra. Ma, sappiamo dallo sport, che ogni azione perdurante nel tempo ci offre dei vantaggi: corriamo più forte, saltiamo più in alto, lanciamo più lontano, alziamo pesi maggiori, ecc. ecc., MA a patto che noi quotidianamente o quasi, ci alleniamo. Se non lo facciamo, lentamente perderemo quanto conquistato. Questo perché l'istinto è "economo"; mantenere determinate caratteristiche, costa! in termini energetici, quindi la nostra "bolletta" è cara, e l'istinto spegne i nostri interruttori laddove non c'è continua richiesta di energia. Tradotto in campo canoro, l'istinto si riprende quella "tolleranza" che ci aveva concessa, e torneremo a trovare difficoltà. Questo avverrà comunque, salvo situazioni al limite del miracoloso, quando il corpo comincerà a perdere tonicità, quindi verso la mezz'età. Dunque ogni strada che faccia perno su un'azione muscolare, violenta ma anche solo "di peso", è destinata a un buon margine di fallimento, o comunque a forti limitazioni. Torno da capo: quando parliamo, per quanto insensibilmente, noi abbiamo un buon appoggio. Cioè, detto meglio, non spoggiamo! (a meno che non ci siano cause particolari, che se non sono patologiche, sono facilmente risolvibili). Quindi la realtà dell'apprendimento del canto artistico NON E' e NON DEVE INDIRIZZARE verso un'esaltazione dell'appoggio, perché esso, per quanto minimo, c'è. Si tratta di NON PERDERLO. E, guarda caso, il modo migliore per perderlo è proprio quello di premere verso il basso, perché è questo che origina la reazione dell'istinto e quindi il sollevamento di questo muscolo.
Le antiche scuole di canto ci hanno insegnato con la loro semplicità che è con l'esercizio semplice e graduale, che parte dalla sillabazione, dal parlato, che si sviluppa (noi diciamo EVOLVE) la respirazione artistica.
Adesso arrivo però al fulcro di ciò che volevo dire con questo post. Quando sento voci che sono state educate secondo modalità muscolari, quindi che "appoggiano in giù", avverto fin da subito come l'esistenza di "chiodi", legacci, uno in zona sternale, uno in zona glottica. Non sempre entrambi, e non sempre in modo rigido, fortunatamente. Ma comprendo che per loro a un certo punto questa situazione diventa una necessità. Se sei convinto che se "lasci andare" il diaframma, cioè non lo tieni giù con la forza, esso viene su e la voce si spoggia, non lo lascerai mai andare. Per contro, non avere un "freno" cioè sentire il tubo libero e aperto, come nella respirazione fisiologica, sia impossibile o pericoloso, crea uno stato mentale che irrigidisce e blocca, come se ci si trovasse sull'orlo di un precipizio. Quella fantastica sensazione di far uscire il fiato, non di frenarlo, di sentire tutto libero e aperto, in realtà non è una condizione che accettiamo facilmente e velocemente (a meno che non si studi fin dall'inizio così). Non voglio entrare in questioni psicologiche, ma spesso le persone si sentono più a loro agio in condizioni strette, limitate, imposte, mentre la libertà, l'ampiezza, crea disagio. Sentire SOLO il fiato, cioè non governarlo mediante spinte muscolari, è una condizione che si acquisisce dopo molto tempo, ma è straordinaria. Se fate un alito, un sospiro, voi sentirete che c'è solo il fiato, e lo potete dosare dall'esterno di voi, non internamente. Questo deve succedere anche durante la fonazione. Alla fine della fiera, come la mettiamo con l'appoggio? Prima di tutto, niente spinte, niente "appoggi" sul diaframma, ovvero premendo giù. Lasciare che il fiato esca, e quindi evitare nel modo più assoluto di opporsi alla risalita del fiato, anche se questo può dare la sensazione che il diaframma si alzi. Seconda cosa: quando sarà ora vi renderete conto che un vago senso dell'appoggio, nel senso di ampiezza, risonanza, intensità, ecc., lo potrete esercitare in avanti, cioè ampliando e intensificando... cosa? LA PAROLA!!! Parlate, pronunciate! E fuggite da chiunque vi dica che le "A", o le I o qualunque altra vocale non si devono pronunciare. Sono dei ciarlatani, non sanno NIENTE!

domenica, dicembre 08, 2019

L'ego-sistema

In tutto il blog, circa tredici anni di articoli, ho trattato infinite volte il problema dell'istinto che si oppone alla disciplina artistica e ci guida verso soluzioni razionali e fisiche che poco hanno a che vedere con l'arte. Ho trattato diverse volte anche dell'ego, ma forse non abbastanza. L'ego lo potrei definire un "istinto umano", cioè una condizione tipicamente dell'uomo, soprattutto quello moderno, che invece vuol sfruttare un fenomeno artistico a fini esteriori. A parole, e anche con una certa sincerità, credo siano in tanti d'accordo di non coltivare l'ego e avere un approccio serio, profondo, non superficiale, ma esso è più radicato e subdolo di quanto si possa immaginare! Specie in chi ha scelto discipline così rappresentative di un soggetto, come il canto e la direzione d'orchestra, esso è sempre in agguato e pronto a prendere le redini. Parliamo del canto. Nel momento in cui una persona si appassiona al canto, l'ego subito salta fuori e vuole condurci verso l'esaltazione celebrativa. Uno, a un certo punto, sarà pronto a dire: no, io non lo faccio per la fama, per i soldi, per gli autografi e l'esaltazione mediatica, ma perché mi piace la musica e il canto. E fin qui magari è sincero, ma "lui" lavora sotto. In sintesi, noi ci facciamo idea di una voce "vincente", cioè quelle caratteristiche edonistiche che possono raccogliere folle di fans: timbro, colore, potenza, espressività. Sostanzialmente non interessa la "nostra" voce, ma "quella voce", a volte legata a qualche celebre cantante, talaltra idealizzata. Questo inseguimento, che sottolineo, è un travaglio interiore, incosciente, ci porta a non lasciare libera la nostra voce, perché l'ego la considera povera, normale, uguale a quella di tanti altri, ma a cercare ad ogni costo di esaltare quella idealizzata, unica (ma in realtà standardizzata), ricorrendo a ogni trucco per cercare di crearla, quindi pressioni, gonfiamenti, scurimenti, ingolamenti, nasalizzazioni ecc. Il lavoro che opera l'ego è così sottile e nascosto che quasi nessuno riesce a coglierlo. Il segnale più evidente è la spinta. Tutti spingono come matti, pensando di farla diventare forte, potente, mentre è solo ingolfata, distorta, schiacciata. Il compito di un vero maestro è abbattere l'ego, che rappresenta quel muro che impedisce al soggetto di poter diventare cosciente. La coscienza è oscurata dall'ego, dunque nessuno riesce a intravvederla in quanto separata dal nostro vero io. Tutto questo lo si coglie soprattutto in un atto strutturale della lezione, cioè il passaggio dal momento degli esercizi a quello del canto. Spesso il cambiamento è sorprendente, cioè esercizi svolti con grande giudizio, con risultati entusiasmanti per pulizia, libertà, espansione... poi il canto ritorna all'età della pietra! E' vero che il canto, rispetto agli esercizi presenta molti punti di maggior difficoltà, ma anche su frasi relativamente semplici e lineari, il cantante torna a soluzioni deludenti, ingolamenti, spoggio, ecc. Questo è in buona parte dovuto all'ego, che nel canto si esalta, quindi per "dimostrare" non si accontenta di quanto svolto nella fase propedeutica, ma vuole "far sentire che...", dimostrare, gonfiarsi, impressionare. Ricordo bene quando un giorno a casa, dopo qualche mese che studiavo col m° Antonietti, mi parve di aver finalmente trovato la soluzione ottimale. Andai, dopo qualche giorno, a lezione, pensando di impressionarlo, lui accennò un lieve sorriso annuente, ma poi mi annientò non dicendomi che non andava bene, ma facendomi rendere conto che se fino a qualche lezione prima ero sotto zero, adesso... ero a zero!!! Quindi una botta al mio ego. Queste sono le "docce di chiodi" che se uno ha la forza di superare può ambire alla strada della perfezione, se no si lascerà guidare dall'ego e inseguirà "quella" voce. In diversi casi potrà anche raggiungere un risultato interessante; l'importante in questi casi è sperare che la coscienza non si mostri mai, perché rendersi conto improvvisamente che si è buttata via una vita per inseguire un sogno, è un brutto risveglio. Ma questa, fortunatamente, è un'ipotesi piuttosto remota.

martedì, novembre 26, 2019

... Alto, basso...

Come tutti i termini e le definizioni, anche dire "suono alto", "suono basso", "respiro alto" o "basso", lasciano il tempo che trovano, nel senso che si possono contestualizzare durante una lezione, e si spera che ci si intenda, altrimenti possono essere ampiamente interpretati e quindi indurre in errore e non avere alcuna utilità, se non l'opposto.
Il termine "alto" viene utilizzato quasi sempre con un'accezione positiva; suono alto, o posizione alta, che vengono quasi sempre intesi internamente. Si parla quindi di suono alto intendendo a livello di testa, quindi naso-occhi fronte, se non addirittura calotta cranica. Già così possiamo dire che si tratta di indicazioni fuorvianti, errate e controproducenti. Qualche scuola del passato, e più raramente recente, si riferisce a un suono a livello di palato e denti superiori. In questo caso ci troviamo su un'indicazione meno negativa, anche se i riferimenti all'interno degli apparati sono sempre da usare con estrema parsimonia.
Il termine "basso" è, invece, quasi sempre utilizzato in senso negativo. Siccome moltissimi insegnanti fanno continui riferimenti all'appoggio basso, a spingere "giù", e altri consigli in tal senso, per bilanciare affermano che "più vai giù, più viene su"!... come se ci fossero dei contrappesi!
Allora si può affermare che esista un binomio tra suono alto-buono, suono basso-cattivo? Per l'appunto, dipende da cosa s'intenda e dal livello formativo in cui si trovano le persone che ne parlano. Spesso si è parlato del suono "alto" della Callas, del fatto che il suo canto "piovesse" dall'alto della volta del teatro, che superasse il coro e l'orchestra "volandoci" sopra. Sono percezioni rispettabilissime, da non deridere e da non sottovalutare. Ma a livello didattico possono essere disorientanti, perché... come si ottiene un simile risultato? Si pensa che si possa far volare la voce come un uccello o un aereo? Cosa crea questa "magia"? Evidentemente sempre e solo la respirazione, giacché il canto E' fiato. Ma perché in qualcuno può dare quello straordinario effetto e in molti altri no? Evidentemente perché quel fiato ha ottenuto, guadagnato, quelle caratteristiche di leggerezza che possono permettere al suono di sovrastare tutto quanto. Quindi è la scorrevolezza, la "scivolosità", l'espansività, a permettere la piena efficienza del fiato-suono. E perché ciò si possa ottenere, occorre disciplinare il fiato in continuo rapporto con la voce cercando sempre di escludere tutti quei maltrattamenti che possono impedire quel risultato, quindi spingere-premere (in qualsivoglia direzione), trattenere, tirare, schiacciare (in ogni direzione), ma sempre e solo lasciar scorrere, non ostacolare, liberare. Sono tutte indicazioni che possono sembrare banali, ma sono tremendamente difficili da ottenere nel canto, specie quando si parla di canto lirico. Anche nell'inspirazione occorre correggere certi luoghi comuni delle scuole recenti, che vorrebbero l'inspirazione "alta", dove poi si canta (cioè in maschera, cioè tra naso e fronte, dicono....!!). Io non solo metto in guardia, ma sconsiglio di adottare questo sistema, perché vuol dire alzare la colonna d'aria, vuol dire non rilassare, vuol dire assumere poca aria. Come ho suggerito nel post precedente, se si rilassa la bocca e il mento, si possono assumere grandi quantità d'aria senza accorgersene, senza controindicazioni.

mercoledì, novembre 13, 2019

La respirazione "bassa"

Sono sempre molto dubbioso su cosa scrivere che possa indurre ad azioni controproducenti. Il problema, come si può comprendere, deriva dal punto in cui si trova colui che legge e che può essere indotto a replicare quanto scrivo. Del resto non si possono scrivere solo cose elementari. Quanto vado a scrivere ora, per un verso può già interessare i neofiti, però realmente è più da esperti. In tutti gli scritti, prima del maestro Antonietti e poi miei, si parla sempre molto poco di "come" si respira, suscitando una certa meraviglia in chi inizia una studio con me, abituato solitamente a compiere lunghi e complessi esercizi respiratori. Come ho già scritto molte volte, il fiato, o meglio la respirazione, E' canto, è tutto!! Pensare di risolvere qualcosa separando la respirazione dal processo vocale, sonoro, è un errore piuttosto serio, e lo è tanto più quanto prima viene commesso, e siccome è abitualmente una delle prime cose che si fanno, i problemi conseguenti possono essere già da principio piuttosto importanti.
Da molto tempo, l'interesse degli insegnanti di canto si concentra sull'inspirazione. Si parla di due-tre tecniche con alcune varianti. Ne ho già scritto in passato, non replicherò qui. Devo dire che già una trentina d'anni fa Rodolfo Celletti, citando qualche altro studioso, faceva presente che il focus della respirazione non sta nell'inspirazione ma nell'espirazione, che poi è il momento canoro vero e proprio. Detto questo, il discorso era finito, cioè non ha scritto altro di significativo, continuando a parlare di posture respiratorie. Ma è difficile capire il momento che separa l'inspirazione dall'espirazione nel corso del canto. Cosa cambia di significativo tra una espirazione fisiologica e una vocale? Se noi ci osserviamo mentre parliamo, probabilmente non notiamo particolari differenze, perlomeno se è un parlato tranquillo (e questo è già un dato su cui riflettere); viceversa quando pensiamo di cantare, specie se abbiamo in testa che per l'opera ci vuole un "imposto", ecco che la presenza della laringe può diventare un "oggetto ingombrante"! Quando questo accade, ed è molto facile e frequente che accada, ecco che la "funzione valvolare" diventa rilevante, quindi non può più assumere il ruolo musicale che noi le vorremmo assegnare. Tutto questo ha una soluzione, che definiamo SEMPLICE, ma molto difficile da raggiungere, cioè far sì che la voce si espanda all'esterno della bocca, come il parlato, e abbia la stessa naturalezza del parlato. Si comprenderà che la cosa molto difficile è far sì che l'apparato respiratorio si comporti durante tutto il momento canoro in un modo che assomigli a quello del parlato o dell'espirazione fisiologica. I cantanti di musica leggera hanno solitamente più facilità in questa operazione, perché non pensano a "fare voce", a spingere, a gonfiare, ma sono più portati a dare risalto al testo; il problema che possono incontrare riguarda la zona acuta, che però in molti casi è naturale.
Spesso è capitato che allievi di questa scuola siano stati accusati di avere una voce da musica leggera, o di essere privi di imposto. Anche questo è un tema già trattato; l'idea che esista una voce "lirica" è un inganno davvero assurdo. Non esiste nessuna voce lirica, esiste una voce che corre, che si espande, che può governare in un ambito di tessitura piuttosto ampio tutti i caratteri musicali ed espressivi esistenti, necessari. E' poi vero che una voce "piena" è anche molto ricca, e questo crea un timbro con uno spettro più ampio, ma questo richiede tempo e caratteri individuali. In ogni modo, per tornare al tema, e andare a concludere, la questione sta in una chiusura del cerchio della respirazione. Molte persone sono nervose quando stanno per cantare, sono preoccupate, e quindi procedono con inspirazioni altrettanto nervose, rapide, rubate. Per la maggior parte delle persone, il problema del fiato è prenderne tanto! Per esperienza personale, ho verificato che tutte le tecniche per respirare di più, spesso sono fallimentari. L'ingrediente fondamentale del canto, che è lo stesso della respirazione (inspirazione-espirazione), è IL RILASSAMENTO. Inspirare rilassando: cosa? rilassare tutta la bocca, le labbra, la lingua (soprattutto la lingua), il collo (specie la parte sotto la bocca). L'aria deve penetrare principalmente dalla bocca, LENTAMENTE, massaggiando e solleticando la stessa lingua, e penetrando a fondo. Come nei tanti inganni, così facendo avremo due sensazioni che potranno sembrare non positive: che sia un'inspirazione "bassa", penetrando a livello di una lingua rilassata, quindi bassa, (consideriamo che molti insegnanti dicono di inspirare nella stessa posizione in cui si canta, cioè "maschera", ovvero alta, quindi naso-occhi [secondo loro]), e che penetri poca aria. La realtà è esattamente opposta, cioè è una inspirazione profonda e molto efficace; l'aria se pur silenziosamente, trovando tutto aperto, entra in gran quantità; ciò che ci dà la falsa impressione è la mancanza di FORZA! Eliminare le barriere delle pressioni, dello forzature, è sempre la chiave del successo. Si dirà che questo è possibile prima di iniziare il canto, ma difficile o impossibile durante l'esecuzione. E' vero solo in parte. Bisogna considerare che le pause fanno parte della musica, non sono interruzioni!!! Sono sospensioni del suono, ma resta in esse una tensione musicale. Non deve succedere che si fanno apnee, che si blocca la fluidità. Noi continuiamo su un ritmo musicale, e all'interno di quello dobbiamo inspirare prendendoci il tempo. L'errore di molti è di aver sempre fretta, di pensare che non c'è il tempo di... Invece il tempo c'è sempre, quando si sa studiare con la dovuta concentrazione e pazienza. Quindi per un po' di tempo bisognerà anche prestare attenzione a come si respira durante un brano. Ricordarsi che l'inspirazione è un'azione in gran parte passiva! All'interno dei polmoni si forma una depressione, per cui l'aria, se i condotti sono liberi e rilassati, entra senza alcuna nostra volontà!! Già questo è un dato importante, che potrebbe risolvere parte dei problemi che molti si fanno. La respirazione rumorosa spesso nasconde problemi, e in ogni modo non è MAI efficace, perché l'aria incontra ostacoli (è quello che produce un rumore), e nella stessa logica non deve mai essere solo nasale.
Ultima cosa, la più difficile e che non dipende dalla volontà. Si canta nello stesso modo. Quella rilassatezza che non è molto difficile da assumere in fase inspiratoria, si deve mantenere nel canto. Potremmo dire che i muscoli inspiratori restano attivi anche in fase espiratoria. Lo dicevano alcuni insegnanti del passato, e qua e là lo troviamo ancora scritto, però resta un dato fondamentale, cioè che non deve essere una azione volontaria, indotta, ma a carico del fiato, cioè deve avvenire anch'essa in totale rilassatezza. Questo è il cerchio chiuso!!

lunedì, novembre 11, 2019

La voce non è niente...

"La musique n'est rien", quindi "la musica non è niente", è il titolo di un libro scritto da Patrick Lang, un direttore d'orchestra allievo "stretto" di Sergiu Celibidache. La frase si può ascoltare all'interno di un film dedicato dal figlio, che è regista, al maestro rumeno. Al suo apparire il libro ha destato un certo stupore, come si può immaginare, ma ciò è dovuto alla sua decontestualizzazione, mentre nel film è ben comprensibile. In ogni modo sono dell'opinione che è un bel titolo, attrae l'attenzione su un tema molto importante. Proprio oggi il m° Raffaele Napoli, altro allievo "stretto" di Celibidache, su facebook ha scritto "la musica è morta". Avrei potuto benissimo intitolare anche io questo post "il canto è morto", perché le vicende sono molto simili. Ci stiamo battendo da anni per cercare di risollevare le sorti di queste arti fondamentali (non che le altre stiano molto meglio...), ma è come il classico svuotamento del mare con un cucchiaio. In ogni modo, noi continuiamo a svolgere quello che riteniamo un dovere e una forma di ringraziamento nei confronti di chi si è speso per noi. Proprio ieri mi è tornata in mano una lettera del m° Antonietti in risposta a una mia (di cui non ho copia) del '96, in cui mi incoraggia a andare avanti, avendo percepito un certo scoraggiamento. Sono passati 23 anni, e sono andato avanti con un po' di alti e bassi ma senza mai mollare, e continuerò così.
Dunque, per tornare al titolo: il m° Celibidache cosa intendeva con "la musique n'est rien"? Che non è un oggetto del pensiero. La nostra mente razionale ha la necessità di avere delle varie cose di cui ci occupiamo, una definizione concreta, ferma, ben circoscrivile, altrimenti rischia di sfuggire. Ed è così! Tutta l'arte, facendo parte del bagaglio spirituale, non è definibile; una definizione ne limita la portata. Molti vorrebbero che fosse "un linguaggio". Può "anche" essere un linguaggio, ovvero per poter essere comunicata e trasmessa, sempre nell'ottica razionale del nostro funzionamento cerebrale, ha richiesto l'uso di un linguaggio, o meglio di più linguaggi. Ma questa è stata una limitazione, che però lo studio approfondito può superare, ed è proprio in questo sforzo che sta la capacità di un vero musicista di potersi avvicinare alla Musica. Se è fondamentale che si impari la morfologia musicale, cioè saper leggere le note in tutte le chiavi, capirne la durata, saper replicare correttamente il ritmo, l'altezza con la voce e con un eventuale strumento, o più d'uno, comprendere e usare segni espressivi, dinamici, agogici, ecc. ecc., è altrettanto fondamentale capire che essi sono una necessità pratica, ma con forti limitazioni, e che se si eseguisse la musica basandosi solo su quanto scritto, il risultato sarebbe ben misero. E quanti sedicenti "grandi" musicisti ripetono "facciamo tutto ciò che è scritto"!?  o ti dicono: "studiare la partitura, perché lì c'è tutto...". Purtroppo è un'ammissione di debolezza, anche se il significato di queste frasi solitamente si riferisce al fatto che nel tempo a molte partiture sono stati apportate delle modifiche, che senz'altro non fanno del bene alla musica, ma certo la questione non sta tutta lì. Gli stessi compositori il più delle volte tornano sui propri lavori, non sono mai del tutto soddisfatti; talvolta hanno avvalorato modifiche portate da altri... Insomma il "linguaggio" si rivela sempre un mezzo insufficiente, ma necessario all'uomo.
Nel canto la questione è anche più concreta. In tempi lontani, un giorno scrissi: "la voce non è un vaso di fiori"! Il problema (uno... dei tanti!) degli insegnanti di canto degli ultimi decenni, è di considerare la voce come "qualcosa", come un oggetto che si può spostare, mettere da qualche parte. La voce è un flusso, una corrente, proprio come lo è il fiato, anzi E' fiato, con una diversa qualità, una periodizzazione, un ritmo interno, una vibrazione, che ne conferisce un valore sonoro, che poi l'uomo è in grado di modulare in vari modi. Questo flusso può variare il proprio percorso in funzione dei moti dell'apparato fono-respiratorio, cioè faringe, lingua, palato, labbra, ma queste variazioni devono essere dettate dalla mente in funzione di un carattere che si vuol dare (o che viene in base alle nostre emozioni, sentimenti, ecc.). Invece si pensa di "ingabbiare" la voce, di dominarla, di farne ciò che si vuole. Così non può essere perché sfuggente, perché, per l'appunto, "non è niente". Tutti i movimenti che vengono indotti volontariamente spostano il flusso, sì, ma non necessariamente come pensa il soggetto, quindi si formano moti e reazioni, per cercare di mandarlo dove si vorrebbe (che poi non è detto che sia un "luogo" efficace) e soprattutto si creano forti tensioni nella muscolatura, che impediscono la fluidità necessaria al fiato-suono.

sabato, novembre 09, 2019

Indipendenza degli apparati

Oggi ho ritrovato un appunto del m° Antonietti, non scritto direttamente da lui, probabilmente dettato a qualche allievo nel periodo in cui aveva problemi alle mani e non riusciva a scrivere. E' interessante, ma ancora una volta ho dovuto notare quanto lo scritto sia passibile di interpretazione, quindi non "universale", cioè non acquisibile con un unico senso, ma a cui la propria esperienza può dare più significati.
Il tema dell'appunto è "l'indipendenza della laringe". Il presupposto è che la laringe nella vita comune è dipendente dal fiato, cioè in base alle esigenze e ai moti del fiato fisiologico, essa compie movimenti (ciò che in altre parti del blog e nel trattato abbiamo indicato come "funzione valvolare"). Nel canto questo non dovrebbe avvenire, nel senso che la laringe dovrebbe compiere movimenti in base alle esigenze vocali e musicali. E qui nasce un possibile equivoco, che mi ha colto leggendo. Sembra che laringe e fiato diventino indipendenti l'uno dall'altro, ma non è esattamente così. L'indipendenza deve avvenire, solo durante il canto, in relazione alla fisiologia respiratoria, ma ne nasce una nuova, che potremmo dire opposta, cioè è il fiato che diventa dipendente dalla laringe, ovvero dalle necessità vocali e musicali che attraverso il sistema nervoso animano la laringe. Il fiato deve dosarsi in quantità e qualità in base all'atteggiamento delle corde vocali. Anche così potrei avere da ridire, perché la verità è che tutto risponde a un solo principio artistico, quindi fiato, spazi glottici, atteggiamento laringeo si conformano alle esigenze espressive, emotive, sentimentali, comunicative, spirituali che ci portano ad esprimerci col canto.

Dello studio

Sul tema dello studio occorreranno diversi post, essendo un argomento piuttosto complesso. Intanto preciso che parlo sempre e solo di studio in presenza di un insegnante o maestro, non di autodidatti. Nessuna arte, e in particolare il canto, può apprendersi correttamente senza un ottimo insegnante, o meglio di un maestro. Quindi parlerò dello studio tra una lezione e l'altra. Quando si inizia lo studio del canto è meglio astenersi dal fare esercizi; la cosa migliore e riflettere su quanto svolto, specie se si sono presi appunti o si è registrato. La registrazione è un'ottima pratica, permette di risentire sé stessi, l'insegnante (eventuali altri allievi) e le correzioni. E' bene ascoltare a pezzi, risentire anche più volte ciò che è stato detto e le correzioni apportate. Dopo qualche lezione si potrà cominciare a eseguire semplici esercizi. In questo periodo è sempre bene evitare di affrontare il settore acuto, specie se anche a lezione risulta difficoltoso. Anche gli esercizi più semplici non devono provocare stanchezza, per cui è bene non superare frazioni di studio di più di 10 minuti, anche per migliorare la concentrazione. Gli esercizi non devono mai essere svolti meccanicamente, non deve essere un allenamento fine a sé stesso. Per molto tempo l'esercizio a casa è consigliabile si svolga in un ambiente tranquillo, con una buona o discreta acustica e dotarsi di uno specchio. E' anche importante che il luogo permetta di svolgere questa attività senza troppi imbarazzi. Si sa che nei condomini queste attività sono mal tollerate, quindi chi si esercita spesso si trattiene per non disturbare, ma questo non va affatto bene, si rischia di produrre più danni che vantaggi. In questo caso è meglio evitare. Lo specchio è importante, sia specchi da tavolo, per controllare il viso e la bocca in particolare, sia specchi grandi per controllare la figura e i movimenti, specie quelli involontari, che si manifestano durante il canto. Questi nel tempo diventano sempre più importanti. All'inizio dello studio è abbastanza normale che si compiano gesti inconsci, che però bisognerebbe cercare subito di controllare, perché possono diventare difficili da eliminare. Un primo esercizio da compiere, molto utile, senza voce, consiste nel pronunciare molto lentamente delle parole e poi frasi, verificando allo specchio che la bocca si articoli armoniosamente secondo quelle parole, senza esagerazione, ma rigorosamente. La parte alta del viso, naso, occhi e fronte, devono restare rilassati e sereni. Il tutto dovrà essere fatto molto lentamente. In sostanza è come se dovessimo farci comprendere mediante la lettura labiale. Il fatto che possano insorgere dei piccoli dolori alla muscolatura adiacente la bocca, non solo non è negativo ma è un buon segno; questi muscoli sono solitamente dormienti, li utilizziamo pochissimo, quindi il rimetterli in  funzione vuol dire reimpadronirsi di una parte dimenticata del nostro corpo. Ricordarsi sempre che ci vuole molta ma molta pazienza. L'esercizio può considerarsi un dovere per chi vuole affrontare questa attività, ma se non c'è piacere, se non c'è motivazione e voglia, può essere controproducente, per cui esercitarsi sempre e solo se si ha voglia. Naturalmente se la voglia non c'è mai... forse c'è qualcosa che non va, ed è bene ripensare se si sta affrontando la giusta scuola.
[continua]

domenica, novembre 03, 2019

Il punto di vista

Leggevo una frase su un libro di circa 50 anni fa che è ancora piuttosto famoso e venduto, cioè "Coscienza della voce" di Rachele Maragliano-Mori (ed. Curci). Bel titolo, piacerebbe anche a me darlo a un eventuale libro sul canto (ma ne ho comunque uno altrettanto valido..!), peccato però che per avere coscienza della voce un libro non serva assolutamente a niente. E' un grande concentrato di frasi, di suggestioni prese da numerosi trattati di canto ma anche carpiti qua e là da vari artisti che la Maragliano ha incontrato nella sua carriera, o riportati. Naturalmente la signora ha una propria idea, che però non esibisce chiaramente, però si intuisce.
La frase è: "... mentre dal 19° Sec. si addice l'uso generoso della risonanza totale ed ampia dilatazione della faringe, che si ritiene instaurata dal tenore Duprez per ottenere timbri caldi, scuri e pieni, consoni all'espressione drammatico-romantica di cui era l'interprete." Il tenore Duprez è noto più che altro per gli acuti, ma anche per aver portato nella cultura francese lo stile italiano; in Francia dominavano per lo più gli "haute-contre", cioè i contraltini, con emissioni molto chiare, morbide, flautate sugli acuti, mentre in Italia già c'era un maggior ricorso alla voce piena. Ciò che però vorrei sottolineare, è l'inversione del punto di vista che la Maragliano propone, e che è alla base di tutta la scuola degli ultimi decenni (non per nulla al libro ha partecipato anche un nullasapiente come Celletti e il suo degno maestro E. Gara). Cioè "...l'ampia dilatazione della faringe per ottenere timbri caldi, scuri e pieni..." e non il contrario! Cioè il VOLERE timbri scuri caldi, ecc., provoca NATURALMENTE e AUTOMATICAMENTE ampia dilatazione della faringe o qualunque cosa, anche a noi ignota, come lo era nel passato, instauri quella nostra esigenza. Garcia notò queste cose e le descrisse, ma non disse "bisogna far così per ottenere..". Se io dovessi costruire uno strumento, è logico che dovrei conoscere molto bene alcune leggi fisiche per ottenere determinati colori, in base anche ai materiali utilizzati (benché nel 500, 600, ecc., le conoscenze fisiche erano sicuramente molto ridotte, eppure costruivano strumenti di una perfezione che oggi ci sogniamo...!!!), ma nella voce non possiamo e non dobbiamo applicare quei principi, perché sono già presenti in noi e dobbiamo solo richiamarli con la volontà. Conosciamo tanti imitatori, in tv, che producono le voci molto differenti di tanti personaggi pubblici, alcuni con voce scura, altri chiara, morbida, aspra, ecc. Ma anche senza andare lontano, penso che tanti, da ragazzi, avranno imitato i propri professori o qualche personaggio della tv, facendo voci chiare o scure o particolari; io l'ho fatto tantissimo: ai miei tempi alla radio c'era una trasmissione molto in voga, Alto gradimento, con tanti personaggi buffi, che io e i miei amici spesso scimmiottavamo. E quando facevamo questo pensavamo (o pensano questi attori-imitatori) a dare ampia dilatazione alla faringe? No di certo, il nostro orecchio aveva percepito quella voce, il nostro cervello aveva raccolto e memorizzato quel timbro, e spontaneamente si provava a imitarlo, e il cervello "manovrava" le varie strutture anatomiche per replicare quel timbro. Tutti hanno questa facoltà; il fatto che alcuni riescano meglio di altri sta nella miglior memorizzazione e nel possesso di una voce centrale, che consente un ampio spettro di giochi coloristici. Nel canto in genere non ci serve tutta questa tavolozza timbrica, a meno che non si sia dei caratteristi, come certi bassi "buffi", e ovviamente la cosa da evitare nel modo più totale è l'imitazione. Quindi la base è che si canta con la propria voce, e le caratteristiche di questa ci condurranno verso il repertorio più idoneo. Cercare di modificarla con stratagemmi, artifici, per affrontare ruoli inadatti può anche essere un modo per aumentare le proprie possibilità di carriera; non dovrebbe appartenere al mondo dell'arte, ma ce ne facciamo una ragione. Però sarebbe bello che anche in questo caso ci si arrivasse... con coscienza!

martedì, ottobre 29, 2019

Il tempo fisiologico

C'è una componente temporale in ognuno di noi; in teoria dovrebbe combaciare con quello delle altre persone, ma non è così. Il motivo è di carattere psicofisico, umorale. Il tempo delle persone, in generale, rispetto a una volta, è molto accelerato, perché si è molto alzato il livello dello stress, della fretta, dell'ansia. E' cambiato in funzione del lavoro, delle aspettative delle persone, delle pretese... Anche geograficamente è molto diverso; nei paesi caldi è sempre più lento, pacato, nei paesi freddi molto più rapido. Negli ultimi decenni l'accelerazione sta diventando un fenomeno patologico abbastanza serio. Però non è questo aspetto che noi affrontiamo, bensì quello legato al mondo della musica e del canto. Fattori interiori e fattori esteriori. La percezione interna del tempo influenza, e non poco, anche la percezione del tempo in musica, e quindi (lo avrete già capito), questo è uno dei motivi per cui ultimamente le esecuzioni musicali tendono a essere galoppanti. Dall'altro lato c'è meno comprensione e meno attenzione alle strutture interne, al dipanarsi e al comprendere l'orientamento e quindi la tensione interna dei brani... è difficile capire quanto l'uno sia conseguenza dell'altro o siano due problematiche separate, che però portano allo stesso disastroso risultato. Non si fa più musica. E non si fa più canto. Il canto è doppiamente penalizzato perché c'è la carenza sia dell'aspetto musicale che di quello vocale.
Se il nostro umore, il nostro ritmo vitale, è accelerato, noi faremo fatica ad accettare determinate esecuzioni, perché le percepiremmo lente, e questo perché il nostro stato di tensione è alto; dobbiamo sempre fare cose, sbrigarci, avere e dare risposte e soluzioni. Ma qui sta anche la contraddizione. La tensione ci dovrebbe portare a uno stato di gioia, di entusiasmo, che si dovrebbe raggiungere con lucido controllo (quindi non buttandocisi a rotta di collo), dopodiché dovrebbe subentrare il rilassamento durante il quale si vive ancora per un po' lo stato piacevole procurato. Chi vive in perenne tensione, non può apprezzare un brano musicale, perché mal sopporta i momenti di riflessione, quegli spazi che il compositore deve utilizzare per preparare le "salite" al climax. La tensione interna, il tempo rapido personale, denotano anche stati piuttosto confusi della mente. Occorre riportarsi al proprio tempo fisiologico. Ci sono specifici esercizi per riconquistare, anche in pochi minuti, questo stato, che poi è uno stato piacevole, rilassato, sano. Qualche volta la musica può avere questo potere, ma non è detto; esistono molti brani composti a scopo rilassante. Ad esempio c'è un ampio movimento che da tantissimo tempo chiede l'utilizzo del diapason a 432 hz. Secondo certi studi, questa vibrazione base sarebbe in rapporto con una vibrazione della Terra e quindi anche nostra, perché la situazione più elevata si origina quando cose e persone riescono a vibrare all'unisono. E' un discorso grande e complesso, che non posso affrontare qui, ma invito ad approfondire, che ci si creda o meno, non è da considerare propriamente una sciocchezza.
Dunque c'è tutta una questione legata al tempo interiore. Suggerisco di seguire i video di Mauro Scardovelli, che affronta spesso questo tema anche con pratiche soluzioni per controllarlo.
Ovviamente questo ci interessa anche nel canto sul piano musicale, ma qui subentra maggiormente il problema del tempo esterno, in particolare nello studio. Studiare un brano sembra che consista solo nell'imparare le note. Magari fosse così. Anzi, spesso ho gradito esecuzioni con note sbagliate ma con altri parametri ben esposti. Un'aria, un brano cantato, prima di tutto deve essere un brano COMPRESO! sia dal punto di vista testuale, che musicale. Vuol dire che il testo va letto e compreso lessicalmente. Ricordo che anche io cantavo alcuni brani in assoluta ignoranza e mi è pure capitato di storpiare delle parole (che evidentemente mal comprendevo). Ho letto che il tenore Ferruccio Tagliavini quando impartiva lezioni, prima di ascoltare l'esecuzione voleva che l'allievo recitasse il testo. Ovviamente la maggior parte si bloccava o si impappinava, perché se non c'è la musica quasi nessuno ricorda il testo. Ma anche così è troppo poco! Non c'è solo da sapere il testo, esso va RECITATO! ricordo che nella scala evolutiva vocale la progressione è: parlato, parlato modulato (giusti accenti, ritmo, tempo, registri espressivi...), parlato recitato (attore di teatro), canto. Quindi se si vuole raggiungere un alto livello, non si devono saltare i passaggi! Uno dei punti chiave dei corsi di dizione e recitazione è IL TEMPO. Cioè? Voi provate a far leggere dei ragazzi. In genere corrono come gazzelle, non si capisce niente, e non capiscono niente di quanto leggono. Il brutto è che gli insegnanti si limitano a non far leggere quelli che non sanno leggere (anche perché in genere gli insegnanti non sanno insegnare a leggere, così come quelli che insegnano musica si limitano a non far cantare quelli che ritengono stonati, creando danni enormi a causa della loro incapacità e insensibilità). Quindi la funzione temporale, nella lettura come nella musica, è far sì che chi ascolta riesca a mettere in relazione le varie parti del discorso per riuscire a fare di tutto un'unità. Questa cosa può sembrare persino elementare, ma non si considerano mai le variabili e le infinite implicazioni interne. Se voi doveste leggere un normale articolo di giornale, o un libro di svago, potete farlo anche molto rapidamente... potreste persino saltare delle parole o intere frasi, e la comprensione alla fine è quasi sicuro che ci sarà lo stesso. Viceversa leggere dei testi artistici, delle poesie, richiede un tempo a volte enorme, perché in poche parole possono essere contenuti pensieri profondi e che richiamano altri pensieri, e tutto questo richiede tantissimo tempo per essere sviluppato, e a volte non c'è tempo di lettura che basti; bisogna fermarsi a meditare, rileggere più volte, fino a quando si sarà esaurito il processo cognitivo. Quando sentite un grandissimo attore leggere determinati testi, vi si svelerà proprio quel concetto profondo che voi invano avete cercato. Negli anni ho sentito più volte in televisione affrontare La Divina Commedia. In genere ci sono lunghissime spiegazioni, poi qualcuno che recita. Beh, le spiegazioni possono essere molto interessanti perché ci narrano aspetti storici dei tempi di Dante, però l'arte non può esaurirsi e nemmeno puntare a racconti di un contesto storico, ma devono trasmettere ben altro, come sappiamo, per cui ciò che l'autore scrive di contestuale, è un mezzo, un artificio per far passare qualcosa di molto più sottile e utile al nostro spirito, altrimenti rimarrebbe un esercizio retorico. Ed è in genere ciò che fa la scuola, non consentendo di amare niente, ma addirittura di odiare le cose più belle e gioiose che siano state create. Colui che vuole cantare sul serio, dovrebbe porsi in questo atteggiamento realmente professionale (che non significa avere il libretto dell'enpals), cioè scandagliare il testo, capire dove mettere e dove togliere gli accenti (Gloriàààààà), dove crescere e dove diminuire, con quale tempo affrontare il brano, ecc. ecc. Se si pensa che si abbia tanto da trasmettere, se ci si commuove ogni volta che si affronta un brano perché si è sensibili e si è convinti che questo sia "trasmettere", si è sul binario sbagliato ed è bene saltare rapidamente su quello giusto, che è quello di scegliere il TEMPO GIUSTO. Il tempo giusto esterno è smontare un brano, leggere il testo, comprenderlo, recitarlo fermandosi ogni volta che qualcosa non è chiaro, leggerlo a qualcuno per avere riscontro se è ben comprensibile e piacevole da ascoltare, registrarsi; imparare le note, studiare i passi difficili a pezzettini, non imparare dai dischi, capire la forma del brano, dove aumenta la tensione e dove cala, individuare il punto di massima tensione, verso il quale occorrerà studiare il modo di viverlo e farlo vivere; cantare badando in primo luogo a non perdere i criteri della lettura e della recitazione che si sono evidenziati prima. Questo è uno studio artistico. Cantare per soddisfare il proprio piacere di cantare è un modo dilettantesco, che può andare benissimo se si mira a quello, cioè passare un po' di tempo senza impegnarsi, senza stancarsi, magari avendo in testa di avere del "talento" e quindi che si ha "tanto da dare", e che lo studio alla fin fine è aria fritta. Purtroppo anche questo non è del tutto falso, se si cade in mano a insegnanti che realmente fanno accademia e non hanno neanche le basi elementari di un approccio artistico. Nel prossimo post affronterò ancora aspetti dello studio.

mercoledì, ottobre 23, 2019

il dubbio

Si sente spesso dire: "invidio coloro che hanno certezze, io ho sempre dubbi". E' un atteggiamento, una posa, che suscita condivisione, persino ammirazione, e fa il paio con quelli che stigmatizzano chi ha "la verità in tasca". Da cosa si originano queste frasi? Sono frasi fatte, facili repliche in assenza di argomenti. Uno crede di togliersela facilmente pensando di aver messo con le spalle al muro qualcuno che si sentirà scoperto. A volte può anche funzionare. Dopo aver pronunciato una di queste frasi solitamente la discussione o termina o diventa tumultuosa, ma in ogni modo poco fruttuosa, perché chi la pronuncia non vuole mostrare la propria debolezza o carenza. Sono sempre manifestazioni dell'ego, che deve sempre far sì che si abbia l'ultima parola, che non si mostrino le proprie deficienze culturali e conoscitive. Anche dare del "presuntuoso" nasconde un non indifferente egocentrismo, perché per fare tale asserzione occorre porsi su un piedistallo, su una posizione più elevata, ovvero avere maggiori dati da esibire. Invece solitamente viene utilizzata da persone che su una data questione ne sanno ben poco.
Quando si è molto giovani e si manifesta una passione, un forte interesse verso una data materia, si fanno ricerche, ci si documenta e si cercano persone che possano aiutarci ad approfondire. Diciamo insegnanti o maestri. Chi cerca ha dubbi, e si mette nelle mani di chi dovrebbe risolverli. Se ritiene che l'insegnante abbia dei dubbi, si trova, evidentemente, nel posto sbagliato! Può accadere che la situazione non consenta di avere di meglio, quindi ci si accontenta, ma certo non si potranno fare grandi progressi, anche se ci fosse un errore di valutazione, cioè quell'insegnante poi fosse realmente valido; ma se l'allievo ha dei dubbi in merito, ci saranno resistenze difficili da superare, a meno che a un certo punto non cambi idea. Viceversa un determinato atteggiamento o una particolare abilità verbale, spesso ci fanno apparire delle persone come la quintessenza della competenza. Succede molto in campo politico, ma questo fa anche parte del loro lavoro. Viceversa in campo culturale e soprattutto artistico, la competenza si rivela nel fare e nel modo di illustrare quel fare.
Partiamo però da un dato di fatto, che forse a molti non è chiaro: ciascuno di noi quando fa un'asserzione, manifesta una "propria" verità. "Quella cosa è brutta!", "quel tizio canta male!", "Caio non sa niente!", ecc., rivelano un convincimento assoluto, poco incline a essere messo in discussione. Solo una persona a cui viene attribuita una conoscenza superiore può creare dubbi su di sè, ma raramente ben accetti, perché vanno a incrinare l'ego, e questo può creare grossi problemi di sicurezza psicologica, che possono portare a conseguenze anche molto gravi. L'ego è il detentore della nostra verità. Il fatto stesso che parlare di verità metta in imbarazzo quasi tutti, è il segno che c'è qualcosa in noi che non vuole confrontarsi con questo argomento, che può mettere in discussione le nostre convinzioni. Per l'appunto, convinzioni. Essere convinti di una cosa non è "saperla", ma solo aver deciso che è così. Allora in questo senso le frasi citate in premessa prendono forza; se tu sei convinto di una certa cosa, ma non hai seri argomenti di sostegno, ecco che diventa una "verità in tasca", una presunzione e una certezza a priori. Nel campo dell'arte, tutto ciò risulta ancor più instabile, perché si entra in un campo dove le certezze sono molto più labili, non basandosi su attività umane indispensabili e basate su molti dati oggettivi. Il cervello umano funziona per definizioni. Ha la necessità di catalogare in base a etichette, che ripone nei propri archivi. Laddove manca la definizione o dove è molto generica, egli vacilla, non sapendo a cosa aggrapparsi. Non solo è difficile definire l'arte e le varie arti, ma è controproducente, perché la loro è un'essenza "fluida" che sfugge alla staticità e certezza della definizione. Questo d'altro canto, è l'arma buona per far passare qualunque cosa per arte, non essendoci una definizione che ne limiti l'area di pertinenza. Il problema di fondo è che tutto ciò rientra in quel campo della conoscenza superiore e della verità oggettiva che ci spaventa e ci fa allontanare come da un pericolo. E in effetti si entra in un universo dove tutte le nostre certezze vacillano, quindi si deve essere pronti a rinunciare al nostro ego, che del resto è l'unica strada per conquistare un'arte, è l'unico modo per potersi confrontare con la nostra coscienza e poter realmente intravedere e conquistare una verità oggettiva e compiutamente un'arte.

lunedì, ottobre 21, 2019

Il virilismo

La questione del "virilismo" ha invaso, non poco e non di recente, il mondo dell'opera e del canto. Questa tematica è andata di pari passo con l'emancipazione femminile, ma anche con le contraddizioni del nostro tempo. Il tutto possiamo dire che abbia inizio nel primo 900. Il futurismo e le filosofie del periodo, compreso l'interventismo verso la Prima Guerra Mondiale, sono molto tese verso una visione virile dell'uomo e della società. Soldati con armi in pugno, treni e macchine in continua evoluzione che vengono esaltate dalla poesie e dalle arti futuriste, sono il segno più evidente di questa tendenza. Musicalmente (e letterariamente) abbiamo il Naturalismo e il Verismo, dove si raccontano fatti della realtà più cruda. Personaggi come Canio e Turiddu sono la rappresentazione più evidente del "machismo". Nasce quindi la necessità di una vocalità adeguata. Caruso, con la sua voce brunita, viene a rappresentare il primo caso di un tenore verista, cioè una voce di colore baritonale senza rinunciare al settore acuto, a cui non si rinuncia perché rappresenta sempre il simbolo della vittoria, della superiorità (a questo, per la verità, si accompagna anche una perdita del fraseggio musicale per esaltare l'accentazione declamatoria). Ma il lento ma inesorabile progresso dell'emancipazione femminile non è da sottovalutare, per cui ai soprani di coloratura si sostituisce sempre di più il soprano drammatico e il mezzosoprano, tant'è vero che in quasi tutte le opere del periodo la protagonista è quasi sempre un soprano centrale, non di rado propriamente mezzosoprano, perché voci più vicine alla realtà e al tipo di voce che rappresenta il potere, il dominio. La produzione musicale operistica, però, va lentamente spegnendosi. Prende piede una maggiore tematica sociale, e le voci tradizionali vengono un po' messe da parte; il baritono è maggiormente protagonista (Wozzeck, Ulisse...), poi bassi e mezzosoprani, che hanno ruoli più narrativi. Si consolida e intensifica il repertorio classico, per cui le questioni si spostano interamente sul canto, quindi anche le opere meno recenti vengono rivisitate sul piano vocale. Opere come Norma e Guglielmo Tell, sono ripensate soprattutto per un tenore "virile". Mario del Monaco, più ancora di Caruso, anche per convinzione personale, viene a impersonare il mito del tenore "maschio", mentre i tenori leggeri vengono emarginati al poco repertorio residuo dove questi sono indispensabili, come le opere buffe o i ruoli caratteristici, dove la voce querula (come l'imperatore Altoum nella Turandot, il rivendugliolo della Forza del destino), li ridicolizza, come il loro stesso repertorio. Oggi può sembrare assurdo che un tenore come Pavarotti non sia stato subito salutato come un astro luminoso. La sua voce argentina e squillante che adesso ci pare normalissima in opere come il Ballo in maschera o Turandot, tra gli anni 60 e 70 destava molte perplessità, accompagnate dai commenti dello stesso Del Monaco o di critici e appassionati, ormai consolidati nella tradizione delle voci virili, per non parlare di opere come Cavalleria, Pagliacci o Otello, dove quest'ultima ancora oggigiorno con difficoltà viene accolta da voci che non siano paragonabili a quella delmonachiana. Eppure la realtà non è quella; Tamagno aveva voce chiara e squillante, niente a che vedere con i "baritoni lunghi" cui è stata affidato quasi sempre il ruolo, persino da Toscanini. Per non allontanarsi dal "feticcio" della voce maschia, si insinua e prende sempre più piede la vocalità "affondata" e ingolata. Sono le voci più fisiche che si possano produrre, cioè le più lontane dalla voce sul fiato di belcantistica cultura, che è stata la culla anche delle voci più potenti e squillanti della Storia, ma oggi questo non lo si comprende. La fatica e lo sforzo che occorrono per produrre un suono scuro e sonoro, al limite del sacrificio, appagano un vasto pubblico, che li saluta quasi come eroi, come pompieri, che non per nulla rappresentano proprio il mito dei nostri giorni (giustamente), ma non solo e non tanto per il meraviglioso lavoro umano che compiono, ma per come lo compiono, cioè sfidando la morte. I nostri cantanti (parlo molto del tenore, perché sicuramente è quello che meglio rappresenta il tema, ma lo stesso percorso ha anche animato baritoni bassi e le altre classi vocali) sono glorificati se non fanno troppe mezzevoci (segno di mollezza), se mantengono il più possibile verso l'acuto quel colore oscuro e pieno di timbro "inchiostroso" (gola).
Ma ecco che, nella logica delle contraddizioni che ci animano, a un certo punto avviene il recupero del repertorio belcantistico e delle voci che lo rappresentano, quindi soprani, tenori e bassi con acuti facili e agilità virtuosistiche. Lo consente una modificazione anatomica, antropologica oso dire, dovuta ai radicali cambi di stile di vita. L'uomo è sempre meno sottoposto a lavori duri, pesanti; ci sono sempre più macchine per quelli, si lavora meno in generale, e questo porta a un assottigliamento e allungamento delle pareti muscolari. Tutto, nel corpo umano, tende a diventare più lungo, leggero e sottile, e questo porta più facilmente a suoni chiari e acuti. Si presentano quindi più frequentemente contraltini che bassi, tenori leggeri e soprani di coloratura. Ma si va anche oltre. Si recupera un repertorio ancora più antico, dove furoreggiavano i castrati, ed ecco sorgere pletore di controtenori, all'insegna del mito opposto al tenore dalla voce maschia. E oggi ci troviamo proprio a vivere questo doppio aspetto dell'opera: Haendel e Mascagni, Rossini e Puccini. Purtroppo non all'insegna di una diversità musicale, da far rivivere nella loro ricchezza, ma in una competizione, che è il vero disastroso segno dei nostri tempi.

mercoledì, ottobre 16, 2019

Del gridare

Le corde vocali oppongono un certo grado di resistenza al passaggio del fiato, in relazione alla loro tensione, al grado di accollatura, spessore, ecc. Questa occlusione non è la stessa (o non dovrebbe esserlo) se la motivazione della loro chiusura è di tipo valvolare o relazionale o di altri tipi (e vedremo quali). La laringe è fisiologicamente parlando una valvola, che si relaziona con l'apparato respiratorio per moderare l'afflusso di aria soprattutto in uscita, per gestire la deglutizione, per gestire la pressione pneumofonica, e altre situazioni in cui è coinvolto il fiato.L'area del cervello dedicata, regola la tensione delle c.v. in base alle motivazioni per cui esse sono chiuse. Se la chiusura riguarda uno sforzo che il soggetto sta compiendo o sta per compiere, essa sarà molto energica, i muscoli intrinseci saranno estremamente contratti con l'obiettivo di impedire al massimo livello di far uscire l'aria, in quanto essa serve per creare una forte pressione che si riverbererà sul diaframma e sui polmoni onde creare una sorta di "pallone" che aiuterà la muscolatura del torso a sostenere questo sforzo. E' la condizione più antivocale che possa esistere, anche se purtroppo, per il fatto che c'è un rilevante impegno diaframmatico, alcune scuole lo utilizzano senza rendersi conto di quanto sia pericoloso e contrario a ogni buon senso artistico.
Il tipo relazionale è quello del parlato colloquiale tranquillo, che è la condizione più equilibrata.
Un altro tipo è la situazione dell'alterazione della normalità, che può riguardare: l'essere in pericolo, l'essere irritati, arrabbiati fino all'ira, l'essere in collera, l'essere piangenti addolorati, sofferenti, ecc. In queste situazioni potremmo dire che l'apparato si trova in una condizione intermedia, cioè è prevista dall'istinto, quindi non avversata, ma per produrre un tipo di voce utile allo scopo, è necessario uno sforzo che non riprodurrà propriamente la condizione valvolare, ma ci andrà piuttosto vicino, con una forte adduzione, per cui questa condizione non dovrebbe protrarsi per troppo tempo.
Un altro tipo, che ci interessa più da vicino, è il canto lirico. Come ho scritto decine di volte, il nostro istinto non riconosce il canto come qualcosa di utile alla vita dell'uomo, e non riconosce quindi una condizione da consentire come nel caso del tipo relazionale (parlato), in quanto vi è una richiesta di pressione e di tensione molto elevata (per ottenere suoni forti e di ampia estensione), per cui più facilmente interpreta questa richiesta come valvolare, cioè come per compiere uno sforzo. Ed è ciò che solitamente avviene soprattutto con chi inizia a cantare e lo fa senza troppa cognizione, senza una disciplina di tipo artistico, ma meccanica. Se non si entra in un percorso virtuoso, la vita del cantante sarà sempre angustiata da una lotta tra la propria volontà di cantare e la resistenza del corpo che non arriverà mai a capire, ad acquisire coscienza, di cosa sia il canto artistico, per cui ci sarà un periodo di apparente tregua, in cui si sfrutterà la tolleranza dell'istinto, la gagliardia fisica giovanile, che già richiedono costante allenamento per essere mantenute, dopodiché anche con questo mezzo si dovranno cominciare a praticare compromessi, mettendo sempre più in mostra limiti e difetti. Per altro anche nella fase precedente ci saranno sempre difetti più o meno evidenti perché comunque ci si trova in una situazione di perenne opposizione, che non consente e non può consentire la piena libertà, per non parlare di coscienza, che è un miraggio. Dunque occorre una terza condizione, che chiameremo di "senso vocale artistico", in cui ci si trovi come nella situazione "relazionale", cioè come nel parlato, pur chiedendo prestazioni molto superiori. Questo è ciò che sto cercando di spiegare nei quasi 900 post di questo blog e nelle mie lezioni, e non proseguo qui, se no non arrivo al nocciolo di questo specifico post.
Ho detto all'inizio che le corde vocali si oppongono al passaggio dell'aria in base alla tensione che viene loro comunicata da uno stimolo nervoso in base all'esigenza. Se l'esigenza è parlare, esse si addurranno al minimo, opponendosi quasi per niente al passaggio dell'aria, per cui manterranno un'ampia elasticità e morbidezza. Questa dovrebbe essere la stessa condizione da presentare per cantare. Purtroppo non è per nulla facile, perché il fatto di voler cantare "liricamente", per stereotipia, pone una condizione psicologica particolare (potrei anche dire esaltata), in cui siamo orientati a spingere, ad alzare l'intensità e ad utilizzare frequentemente la parte più acuta della voce. La parte acuta della voce, che istintivamente è divisa dalla parte centrale anche da un punto di vista meccanico, è quella che l'istinto ci riserva per situazioni anomale, come ho descritto poco sopra, cioè quando si è in uno stato di pericolo, quando si è alterati, quando si è in una posizione autoritaria, ecc. (si pensi al classico caporale militare che addestra la truppa). Però bisogna specificare meglio: il grido si può originare in diverse parti della gamma voce. Se il grido è legato a una richiesta di aiuto, oppure se si lanciano gemiti di dolore, più facilmente si utilizzerà la parte più acuta della gamma, che è molto penetrante e viaggia più lontana, quella che suol definirsi falsetto-testa, più o meno intensamente. Viceversa se il grido è autoritario, se si vuole spaventare un avversario o umiliarlo, ridurlo all'impotenza, o situazioni analoghe in cui si vuole esercitare una condizione di superiorità, si utilizzerà più facilmente il registro detto di petto, sempre in una zona molto acuta, ma decisamente impropria, però efficace, che può arrivare a danneggiare l'apparato stesso, se protratto per molto tempo. Questo perché la pressione sottoglottica è decisamente squilibrata. Dunque, cerco di illustrare al meglio la situazione: quando il fiato ha la forza (o pressione) minima per mettere in vibrazione le c.v., esse produrranno un SUONO vocale. Con i veri suoni, si può perfettamente intonare, quindi si può cantare, e si possono articolare fonemi, quindi pronunciare, parlare con o senza intonazione. Questo è più facile nella zona centrale della voce, dove si parla abitualmente, ma molto più difficile quando si sale, dove non siamo abituati a parlare ma a gridare. Pertanto siamo portati a spingere e quindi a entrare nella condizione grido. Quando la pressione dell'aria (attenzione: non la quantità, ma la qualità dell'aria, cioè la spinta o pressione!) supera quella giusto necessaria alla vibrazione delle c.v. in relazione all'altezza della nota e al suo colore e intensità, quindi non è rapportata, si entra nella condizione grido. Cosa succede, ancor più esattamente? che perdendosi questo rapporto, si avrà un quantitativo d'aria con una elevata pressione che preme sotto le corde (p. sottoglottica). Questa pressione che investe tutta la laringe impedisce alle c.v. di vibrare in modo perfetto, per cui non possiamo più parlare realmente di suono vocale, perché l'eccesso di vibrazione produce in realtà un RUMORE, che in parte genererà un suono, non perfettamente relazionato, in parte farà "sbattere" le corde producendo rumore o diversi rumori, a seconda di quanto si è fuori dal rapporto. Il grido non permette facilmente di articolare le parole ed è per questo che negli acuti solitamente, specie in campo femminile, dove si è un'ottava sopra rispetto ai maschi, non si comprende niente della pronuncia. Purtroppo però possiamo dire che oggi in una percentuale molto elevata di cantanti in carriera, in quasi tutta la gamma vocale si tende a gridare, ed è per questo che non si capisce più niente della pronuncia. Pertanto ribadisco che la strada più corretta riguarda proprio la volontà di parlare. Se si cerca di articolare e di dire con intenzione, con sincerità e contestualizzando ciò che si vuole (o deve), l'istinto si orienterà nella condizione del primo tipo, cioè in quella relazionale, per cui le c.v. si disporranno in una posizione elastica, morbida, non oppositiva, e relazionandosi con un fiato di modesta pressione (e quindi ecco il prezioso consiglio di cantare piano, pianissimo, in falsetto e falsettino, sussurrando, ecc.). Seguendo questa strada, ci si indirizzerà verso una sempre maggiore fluidità del fiato.
Il grido, per sua natura, è brutto, aspro, irritante, ed è giusto che sia così perché deve richiamare l'attenzione, incutere fastidio, quindi in nessun tipo di canto artistico, esclusi occasionali necessità espressive, sempre da usarsi con il massimo della parsimonia, vi si deve far ricorso. Purtroppo invece io sento cantanti che non sanno utilizzare il registro acuto se non urlando. Tutti dovrebbero rendersi conto di quando un cantante grida, e invece oggi le grida piacciono a molti, anche presunti competenti e insegnanti.
Ancora una cosa: se si impara a non spingere, quindi a lasciare fluire il fiato e far sì che le c.v. si trovino in uno stato di elasticità, morbidezza e "sottigliezza", la gamma possibile di ogni sfumatura, colore, dinamica è enorme; se si entra nella logica della spinta, anche minima, cioè in quella condizione per cui c'è più fiato di quanto le corde richiedano, quindi del grido, la laringe e le c.v. in particolare dovranno adeguarsi a contenere questa spinta, quindi si svilupperà una muscolatura di contenimento. Questo significa che perderanno proporzionalmente elasticità, sottigliezza e morbidezza. Quanti utilizzano una situazione da sforzo, avranno corde da "culturisti", ammesso che la loro condizione fisica lo permetta, cioè che non ceda prima di raggiungere quella condizione, e questo è antivocale. E' come se su un violino si volessero montare corde da contrabbasso per poter reggere una pressione dell'arco molte volte superiore a quella necessaria ordinariamente per suonare le normali corde da violino; spero di aver compiutamente spiegato la situazione.

sabato, ottobre 05, 2019

C'est plus facile...

In un film documentario biografico, il m° Celibidache a un certo punto, durante un corso di direzione, ferma un allievo e dice, grossomodo: "perché tutta questa fatica, guarda:" e dirige l'orchestra ruotando banalmente un dito. In altre interviste dice: "Vengono qui, quindici giorni, un mese, pensano di aver capito tutto e cercano di far carriera: io in quel tempo riesco a malapena a far capire cosa NON bisogna fare". L'unica differenza tra la direzione d'orchestra e il canto artistico è che la direzione d'orchestra i più pensano che non vada nemmeno studiata, o, appunto, giusto un mesetto, mentre il canto si sa che richiede qualche anno. Ma la questione di fondo sta proprio in quella frasetta "perché tutta questa fatica"? Stavo guardando poco fa un post su facebook dove si glorifica un celebre tenore che è andato alla casa di riposo Verdi di Milano con i suoi allievi di una masterclass. Al termine anche lui si unisce in un "nessun dorma". Inizia il video e io lo spengo subito. Il motivo si sarà capito: un fiume di gola. Poche settimane fa ho involontariamente visto su rai 5 un concerto di gala alla Scala con alcuni dei più celebri cantanti del momento, e accanto a un corretto Florez, stava un tenore ben più famoso, che gode di tanta fama usando bistecche di faringe.
Il canto di gola non è solo sgradevole (ma se poi subentra l'abitudine acustica che... va bene così...)  è proprio sbagliato, non artistico. La voce di gola non corre, non si espande, non consente molte sfumature espressive. Quindi perché possa funzionare al "minimo sindacale", deve essere molto forte, quindi o in corpo a una persona con notevoli doti fisiche, oppure amplificato artificialmente. Meglio se tutte e due le cose. L'arte è la capacità di svolgere un'attività spirituale arrivando al limite delle capacità umane. Quindi è possibile, ce lo hanno mostrato e insegnato tanti cantanti del passato, far sì che una voce qualsiasi possa essere udita in uno spazio teatrale con tutte le sfumature espressive che questa esige, e quindi possa essere portatrice del messaggio in essa insito. Ma chi ha voglia e sente l'urgenza di raggiungere quel risultato sa e deve sapere che non solo richiede molto tempo, ma anche molto sacrificio, pazienza, perché è un risultato che trascende la normalità, intesa come "tecnica". La tecnica, anche quella molto buona, raggiunge un risultato "accomodato", cioè sfrutta quella tolleranza che l'istinto consente entro certi limiti. Allora "perché tutta questa fatica"? Se al pubblico va bene un canto ingolato, forzato, inespressivo, duro, inarticolato, aspro, perché impiegare le nostre migliori energie per ottenere purezza, eleganza, omogeneità (vera), recitazione, espressione, sostanza di contenuti...? Basta un fisico un po' robusto e, meglio ancora, un buon microfono... A maggior scorno, proprio perché il pubblico (ah, no, non solo il pubblico, ma molti "esperti") ha sempre più le orecchie foderate, chi canta in purezza spesso viene deriso e criticato o, nel migliore dei casi, indicato come "voce d'altri tempi, inattuale". Si salvano più facilmente i tenori, perché oggi avere un tenore che affronta il registro acuto con brillantezza è un fatto raro, quindi bisogna accettarlo. Ciò che poi mi lascia perplesso è che ci sono una miriade di siti che diffondono registrazioni antiche, e spesso anche sui social ogni tanto inseriscono qualche vecchia incisione di artisti delle prime decadi del 900, ed è tutto un pullulare di "ahhh", "ohhh", "che meraviglia", "che stile", "che piacere sentire cantare così, oggi non c'è più nessuno..." ... ma poi si esaltano veri violentatori della voce e del canto, supportati da insegnanti che inventano le cose più stravaganti per cercare di far cantare i poveri allievi, quando l'essenza del canto è la semplicità, la piccolezza, la linearità. Ma quanti riescono a cogliere che il canto è un flusso espiratorio continuo? Tutti a dar botte, a spingere come arieti alla carica, a cercare di "costruire" ciò che potenzialmente c'è già e inibendo in realtà il giusto flusso. Bisogna comprendere che ogni volta che si mette in azione volontariamente o per reazione la struttura fisica degli apparati, quindi laringe, faringe, lingua, ecc., si blocca il fiato, quindi ci si allontana sempre di più dal corretto funzionamento vocale, dal canto sul fiato, da tutti proclamato e da nessuno raggiunto. Chi parla di muscoli, e più o meno tutti lo fanno, si è già posto sulla strada sbagliata. Voler imporre e voler dominare parti del nostro corpo per cantare è già di per sé un'idea assurda, un ossimoro! Come si può imporre la libertà? L'arte è libertà, il raggiungimento di un ideale potenziale in ognuno di noi, possibile a patto di scioglierlo dai legami imposti dai limiti muscolari e mentali. Questo è il lavoro veramente massacrante, non imporre, non forzare il nostro organismo a fare ciò che noi pensiamo sia meglio (ovviamente una pia illusione), ma permettergli di sviluppare ciò che è già contenuto in esso. Ogni muscolo, ogni articolazione fisica tesa, rappresenta un ostacolo, un impedimento. Solo con la rilassatezza si può raggiungere la libertà. Ma dobbiamo fare i conti con una reazione che ci pone difficoltà in questo percorso, perché manca la consapevolezza, e la conoscenza razionale, scientifica, ci porta su una strada che è più in contraddizione che a favore di quanto vorremmo fare. Sono pochi, ad es., i riferimenti al fatto che la laringe è una "valvola", cioè ha un ruolo, una funzione istintiva e fondamentale come organo fisiologico. Ma detto ciò, si pensa che si possa far sì che essa possa diventare uno strumento musicale semplicemente con una "tecnica"? (quale poi non saprei dire e non credo nessuno sappia dire). Ho letto molti libri anche di foniatri e insegnanti esperti di anatomia e fisiologia. Bene, ho intravisto negli scritti delle intuizioni interessanti, un avvicinamento al problema... ma la cosa è finita lì, non si è arrivati a proporre soluzioni davvero efficaci, ma questo dipende dal fatto che c'è da fare un salto, non indifferente. Per capire veramente a fondo il problema bisogna entrare nell'ambito gnoseologico (diciamo filosofico, per intenderci più semplicemente). Se non si riflette in chiave di un pensiero più profondo e più ampio, e si rimane sulle "tecnicucce", si va poco lontano. Ma chi si avvicina al canto o anche allo studio di uno strumento, non vuole sentire parlare di queste cose, in genere, le ritiene "fumosità" o peggio, le ritiene argomentazioni da "setta", e quindi non solo rifiuta, ma attacca, anche pesantemente. E' comprensibile. Come ho già più volte detto e scritto, ognuno è spinto dalla propria esigenza spirituale; chi si sente portato ad approfondire, potrà farlo, e quindi siamo qui per offrire uno spiraglio a coloro che si sentono di navigare nelle tenebre; per gli altri... ci sono tante scuole di canto tecnico che li aspettano.

giovedì, ottobre 03, 2019

Profondità

Sentendo cantare le ultime generazioni, si avverte spessissimo che al suono si vuol dare una profondità, intesa come ampiezza interna. Sono i frequenti consigli ad "allargare la gola" se non addirittura a tirare indietro (ho sentito io stesso più d'un insegnante dire di tirare indietro come tendere l'arco per scoccare la freccia. Ci rendiamo conto!!?), oppure dare spazio, ampiezza interna, che creano questa condizione tutt'altro che positiva. La voce cantata correttamente si deve generare fuori e non deve dare questa sensazione di retro-allargamento, di incavernamento interno. Queste sono induzioni fisiche che modificano e distorcono la voce e la tolgono dal giusto percorso respiratorio. Deve solo esserci il canto puro e semplice; il fisico, gola, collo, nuca, ecc. devono essere e restare rilassati. Questo non significa che la gola non debba essere ampia, ma questo è un compito del fiato che non si avverte nella voce perché il fisico non partecipa (e non deve partecipare) attivamente. Ascoltate i cantanti che registravano cent'anni fa, e, in genere, ascolterete voci pulite e pure che "parlavano" e salivano e scendevano con facilità senza strani giri interni, senza allargamenti e retroflessioni. Si canta come si recita, su una linea musicale. All'orecchio dei cantanti e insegnanti odierni quella mancanza di "incavernamento" suonerà forse troppo semplice, "piatto"ma senza alternative se si tornasse ad ascoltare con sincerità e purezza.

mercoledì, settembre 25, 2019

Il parlato si sente?

Se una persona "normale", cioè un comune cittadino che non abbia avuto in dono delle doti vocali straordinarie sale su un palco e si mette a parlare, dai palchi come dalla platea si sentirà poco o niente, salvo si tratti di un teatro altrettanto straordinario, cosa assai rara, specie nelle costruzioni moderne. Questa è la principale motivazione per cui se dite a qualcuno che intende studiare canto di "parlare", resterà alquanto meravigliato, fortemente dubbioso e probabilmente cambierà scuola. E' successo che quando un allievo è riuscito a pronunciare in modo convincente una frase intonandola su una o più note, dopo un periodo non breve di studio, risentendosi registrato abbia affermato: "se questo è corretto, non fa al caso mio". E fine. Oggi non parla NESSUNO! ho ascoltato poco fa un certo numero di cantanti impegnati nella stessa aria; ho sentito le migliori esecuzioni degli ultimi cinquant'anni. Poi ho ascoltato una cantante degli anni 20, la Zamboni... anni luce di distanza. Un vero, autentico parlato, voce avanti, omogeneità, chiarezza di significato e di emissione. Lo stile... beh, lo stile un po' datato, ma quello lo possiamo comprendere e migliorare. Ora faccio un'osservazione. In passato, e fino alla fine dell'800, molte opere prevedevano dei recitativi PARLATI. I singspiel di area austro-tedesca, l'opera comique francese, zarzuele e poi l'operetta italiana. Chissà come mai poco dopo molti di questi recitativi sono stati musicati, spesso non dagli autori originali, e oggi quando si vuole ripristinare il parlato... microfoni! Pensiamo poi alle lettere del Macbeth e della Traviata, dove i cantanti o non si sentono o si atteggiano alla Duse urlando in modo assurdo! Se chiedete a un cantante di parlare si indigna, e vi dirà che il parlato è nocivo, asciuga la gola, ecc. ecc. Poveri attori, direi, chissà come hanno fatto per secoli a recitare in modo sublime senza neanche sapere cosa fosse un microfono! Ma un cantante, che dovrebbe aver elevato la parola ad arte... niente, non riesce a farsi sentire (ma penso che anche in campo attoriale oggi le cose  non vadano tanto meglio). Dunque qui sta una delle chiavi di tutta la questione. Il canto è una evoluzione, uno sviluppo, un progresso del parlato, della parola. Se il parlato in un ambiente spazioso non corre, non lo farà nemmeno il canto, che per farsi sentire dovrà essere forzato, urlato, ridotto a suono anonimo e quindi "ululato". E' prima di tutto la parola che dovrà compiere un balzo di qualità, il che non riguarda il suono vocale, cioè non è questo direttamente l'oggetto del miglioramento, ma il fiato che presiede alle sue caratteristiche. Il suono, di per sé, non può essere "mandato" da qualche parte per ottenere un rinforzo, un'amplificazione! E' il fiato che dovrà modificare il suo funzionamento in relazione al tipo di emissione che si vuole ottenere. Ma non si agisce neanche direttamente sul fiato, perché esso presiede la funzione vitale dello scambio ossigeno-anidride, quindi non ha alcun rapporto diretto con la voce. Sarà proprio dal continuo lavoro sulla parola di qualità che otterremo, mediante questo stimolo, il relativo incremento respiratorio artistico vocale. Questo obiettivo è lontanissimo da ottenere, occorrono anni; è piuttosto normale che su tempi brevi il parlato risulti ancora piuttosto "acerbo", quindi di una chiarezza eccessiva, con passaggi da una vocale all'altra bruschi e quindi poco gradevoli. Deve essere una raffinazione continua, tesa al bello e al vero. Ma dietro tutto questo ci deve essere una determinazione alla consapevolezza e all'accettazione totali, perché se si è alla ricerca del "suono lirico", si resterà delusi, amareggiati. Non è la scuola per voi. Ma per chi persegue la strada della vera arte vocale, sarà di una gioia e un piacere estremo ascoltare la propria voce che si espande nell'ambiente con assoluta scorrevolezza, la parola bella, vera, il dominio su di essa, sulla dinamica, sulle sfumature, sulla possibilità di dare un senso compiuto al significato, semplicemente nella musica, senza effetti, senza "interpretazioni", modifiche, sovrapposizioni. Significa veramente dar voce a quel testo e quella musica aprendosi a una coscienza universale che ha reso possibile la creazione di quella pagina. Ma il male è sempre la fretta. Se fate fare un suonaccio di gola accontenterete molti più studenti che facendogli fare una serie di esercizi elementari su una nota sola e correggendoli mille volte prima di andare avanti di mezzo tono!! Ma così è. Il vero canto risiede nel donare; questo deve essere un prerequisito. Se studiate canto "per voi", cioè solo con l'idea di avere un po' (o tanto) successo, siete sul binario dell'ego, e i risultati saranno esteriori, superficiali; l'idea artistica è che cantando voi potre(s)te farvi tramite tra il pensiero spirituale che vi ha spinto a intraprendere questa attività e lo spirito di coloro che sono stati spinti ad ascoltare questa musica. Perché si canta? Perché si va ad ascoltare? E' una domanda che talvolta ho posto al pubblico e a chi suonava. Se succede è perché esiste una spinta interiore, a volte fortissima. Ma attenzione perché questa spinta può essere "intercettata" dal nostro ego, da quella voglia di competizione e di supremazia che non accetta tempi lenti e messe in discussione. Bisogna arrivare presto e facilmente, ma con argomenti sbaraglianti. Allora si genera la mediocrità, e la mediocrità chiama mediocrità, ammantata di effetti spettacolari. Oggi assistiamo sempre di più a spettacoli, a spese dell'arte. Naturalmente poi si chiamano tutti artisti, tutti maestri. Ma con quali criteri?
I "grandi maestri" vogliono fornire anche una motivazione tecnica al fatto che il parlato non è confacente al canto lirico. Il parlato in avanti secondo costoro inibisce lo spazio interno. Da anni è invalsa l'idea che il canto lirico necessiti del massimo spazio oro-faringeo. A questo, di conseguenza, si è associata anche l'idea del "suono scuro" (maggior spazio, colore più scuro). Tutti concetti privi di qualsivoglia fondamento belcantistico. Il colore vocale è un fattore personale. Si può dare una sfumatura di colore per conferire una particolare espressività a una frase, a un'intera parte, ma non può essere una "spalmatura" scriteriata. Maria Callas utilizzava due colori estremi per passare dalla Gioconda alla Fiorilla del Turco in Italia. Questo ebbe un prezzo nella tenuta della sua organizzazione vocale, che non fu mai propriamente esemplare, ma sempre posta al servizio di un'idea teatrale. L'uso scriteriato dei colori può avere un prezzo. Utilizzare costantemente lo scuro può avere dei vantaggi per un certo tempo, perché esso genera maggior pressione sul diaframma, inibendo la sua ascesa, e quindi fornendo un suono più "appoggiato", quindi più sonoro e ricco. Ma se a questo non corrisponde un'educazione esemplare del respiro, questa maggior pressione genererà maggior provocazione; fin quando le risorse fisiche, quindi la gioventù, riusciranno ad aver ragione delle reazioni, tutto procederà accettabilmente, ma a un certo punto (in base alla resistenza soggettiva, ma anche al grado di incoscienza) l'istinto comincerà a riprendersi ciò che ritiene essere stato "estorto". Se si utilizza prevalentemente il colore oscuro, ma poi si passerà al chiaro o addirittura chiarissimo, sempre senza una vera coscienza vocale, dapprima sembrerà tutto piacevole e facile, e si cadrà anche nella trappola di affrontare con troppa disinvoltura tessiture acute e acutissime. Ma l'istinto ballerà la mazurka! L'aver tolto quel peso dal diaframma darà modo, finalmente, di potersi rialzare. Questo non provocherà immediate conseguenze, o perlomeno non sempre, ma in tempi neanche tanti lunghi, inizierà l'oscillazione. Ormai le voci "ballanti" non si contano più, persino in giovane e giovanissima età. Alcune tecniche, come l'affondo, non possono nemmeno concepire lontanamente uno schiarimento, perché si perderebbe all'istante ogni "impostazione", la voce risulterebbe subito spoggiata, vuota e priva di squillo e anche di estensione. Questo è l'estremo, che ci deve far riflettere. Non è del tutto fuori luogo ritenere che la voce artistica richieda spazio interno, lo sbaglio è pensare che noi dobbiamo volontariamente creare questo spazio. Così come tutte le azioni dirette sui nostri apparati, anche questa è una mancanza di umiltà e di disciplina che non può sposarsi con un obiettivo artistico. E' il fiato stesso a determinare lo spazio e mille altri parametri degli organi da esso investiti in base alle esigenze, ed esso è l'unico elemento in grado di determinarli e formarli, una volta educato. Quindi, per terminare, una saggia evoluzione respiratoria sarà in grado di far udire perfettamente il parlato, in quanto è esso stesso la base di un canto esemplare.

Della tradizione

Il direttore Sergiu Celibidache, a proposito della tradizione in musica, diceva: "la tradizione è il brutto ricordo dell'ultima cattiva esecuzione". A parte quelle popolari, le tradizioni sono in realtà il frutto della pigrizia umana. L'istinto ci porta alla pigrizia per "risparmiare". Ascoltare cose nuove, richiede attenzione, quindi impegno, mentre ascoltare "il solito", è più riposante, chiede meno fatica mentale, meno pensiero. Le esecuzioni operistiche dei grandi autori del Novecento risentono in pieno della tradizione, il che vuol dire di "interpretazioni" che spesso hanno arbitrariamente manomesso la scrittura originale, con variazioni, aggiunte, il più delle volte prive di musicalità, di senso. Il che non significa che la musica vada eseguita pedissequamente come è stata scritta. La partitura è un grande canovaccio, una stenografia, dove il compositore ha rivestito un testo di una sontuosa base musicale con il compito di esaltarlo, di illuminarne il contenuto. Il compositore diventa come un grande attore che recita quel testo con le giuste inflessioni, gli  accenti, le espressioni più sensibili del suo repertorio sonoro. I cantanti non hanno che da seguire quella linea, senza tradirla, ma sapendo riconoscere il "non scritto", che non significa "interpretare"!. La partitura comporta molte limitazioni, come la scrittura. E' basata su pochi simboli, che necessariamente vengono ripetuti continuamente, pur non riflettendo sempre uno stesso principio. Le durate dei simboli vengono assimilate a tempi meccanicamente identici, ma nella realtà così non è, anche per una questione di semplificazione, altrimenti tutto diventerebbe estremamente complesso. Questo comporta stereotipie e dunque il rischio continuo di annoiare, cosa che puntualmente avviene, non per colpa del compositore, o non sempre, ma dell'esecutore che non riesce a rivivere lo stato di coscienza del compositore, dunque si rifugia nella replica fisica, meccanica, della scrittura, senza riconoscere la verità che nasconde. Noi dunque siamo inondati da esecuzioni il più delle volte uguali perché qualche cantante ha trovato un escamotage per dare interesse a una certa aria, a un certo momento, non sapendo o non potendo restituire la verità, la sincerità della scrittura e del senso, del significato che vi è contenuto. Effetti, spesso dozzinali, appariscenti, rozzi, per non rischiare la noia o quella che si ritiene la mera ripetizione. La ripetizione in musica non esiste, nel senso che il compositore non la può aver utilizzata banalmente; in essa egli ha vissuto anche la tensione del momento, acuita o rilassata, per cui ci ha sentito anche un inasprimento o un decadimento dinamico per sostenerla o contrastarla. Il compositore ha dentro di sé il fuoco che ne ha seguito il processo compositivo, e non riesce a sentire con la stessa partecipazione dello spettatore ciò che avviene esternamente, dunque non si trova nello stesso stato che vive più oggettivamente il pubblico, ed ecco perché è un errore pensare (come diceva Stravinsky) che l'autore è il migliore interprete di sé stesso. Se ascoltate l'intermezzo della Cavalleria Rusticana diretta dall'autore, Pietro Mascagni, e seguite la partitura, rimarrete più che meravigliati, attoniti, di fronte a un'esecuzione che ne stravolge totalmente la scrittura. Lui, da direttore, si arrogava il diritto di sconvolgere tempi, dinamiche, agogiche in chiave "interpretativa". Aveva sbagliato a scrivere o a dirigere? Egli non si è accontentato di quanto aveva scritto e in fase esecutiva voleva destare maggiore interesse esasperando il "tira e molla". Se si segue la tradizione o addirittura l'idea che il compositore è anche il migliore interprete di sé stesso, oggi dovremmo sempre eseguire quell'intermezzo sulla base della sua esecuzione. Fortunatamente non è così. Invece nel canto il più delle volte si ricorre alla mera ripetizione di quanto ci hanno lasciato esecuzioni del passato, in termini di note cambiate, aggiunte, tagli, cadenze. Esiste anche una raccolta, compilata da Luigi Ricci, di una miriade di modifiche riguardanti arie di gran parte delle opere dell'Ottocento. Qualche direttore, negli ultimi decenni, sulla scorta delle esecuzioni "filologiche", ha voluto ripristinare i tagli ed eliminare aggiunte e modifiche. Bene ha fatto, ma ha compiuto un lavoro parziale e talvolta controproducente. Perché? Come ho spiegato, seguire pedestremente la scrittura può rivelarsi limitante e impoverente, se non si sa valorizzare il "non scritto". Le variazioni, come dicevo, sono nate spesso proprio per colmare la percezione della vuota ripetitività senza sapere come fare. Anche qui ci soccorre la Storia. Per molto tempo, dopo la nascita dell'opera, i cantanti sapevano variare con gusto e opportunamente, cioè in base al contesto, le ripetizioni. Erano maestri dell'improvvisazione. L'improvvisazione era una delle arti legate alla musica, ed era sempre presente nei concorsi e nelle prove. Col tempo però i cantanti misero il proprio ego davanti al fatto musicale, e cominciarono a infiorettare le arie solo per far sentire le proprie capacità virtuosistiche senza che questo apportasse arricchimento all'opera. Questo avvenne anche in campo strumentale, infatti esiste tutta una sterminata letteratura di variazioni per tutti gli strumenti (il più delle volte basate proprio su arie d'opera) da parte, spesso, di compositori del tutto sconosciuti - ma ottimi conoscitori delle proprietà tecniche degli strumenti - che risultano il più delle volte di una noia mortale, proprio perché fini a sé stesse, prive di reali qualità musicali. Ecco dunque che alcuni compositori ritennero di voler "ripulire il campo", vietando ai cantanti di aggiungere virtuosismi, e scrivendoli essi stessi direttamente in partitura (in tempi recenti alcuni sedicenti musicologi hanno voluto scrivere variazioni per i cantanti nelle arie, il più delle volte con esiti disastrosi). L'altro motivo per cui i direttori "filologi" hanno compiuto un lavoro parziale, è che non sentono e non si accorgono delle tradizioni più sottili, cioè il ricorso a modi di cantare, uso, o meglio abuso, nell'utilizzo dei registri vocali, e nel ricorso a rallentamenti e corone. Sono queste tradizioni che il più delle volte rendono davvero obsolete le letture operistiche, e questa è una delle motivazioni, insieme alla paurosa decadenza dell'arte vocale, a far sì che sia emersa, per evitare la monotonia, la necessità (direte che non sentite la necessità, ma a pensarci bene è così) di regie e scenografie assurde. Se il piano vocale, che dovrebbe essere fondamentale, risulta sempre meno interessante, il teatro qualcosa deve fare per salvaguardare la teatralità. E' una scelta che si basa sulla provocazione, sullo scandalo, roba proprio da indignare, che dalla fine del Secolo scorso, è stata proposta con questa occulta motivazione. Scelte che possiamo definire scellerate, scorrette anche sul piano etico e artistico, ma che trovano giustificazione nel rischio di chiudere i teatri d'opera. Si dirà che se queste regie sono così negative, dovrebbero dissuadere la gente dal frequentare, ma non è così, il pubblico è attratto anche dall'horror o dalla sadica motivazione di andare a contestare!!! E intanto la gente continua a esaltare cantanti, anche i più miserrimi, perché le personalità, anche solo estrose, comunque attraggono e molti spettatori non possono fare a meno di tifare per qualcuno, e le orecchie sono sempre meno sensibili e delicate.

venerdì, settembre 13, 2019

Della coscienza

Un vero maestro rappresenta una coscienza pura. Chi si sottopone agli insegnamenti di un autentico maestro, può contare su questa coscienza, che per un lungo tempo rappresenterà anche la sua. Chi inizia lo studio di un'arte, infatti, non ne possiede una legata a quell'arte. Può avere una disposizione, può avere doti anche elevate, ma non possiede la coscienza di ciò che fa. Riuscire a cantare anche molto bene in virtù di una particolare predisposizione e doti fisiche innate, non è fare arte. Purtroppo questo non molti sono in grado di comprenderlo e valutarlo, per cui sedicenti artisti, dotati di voci ragguardevoli, buona musicalità, passione, disinvoltura, ma senza alcuna coscienza del proprio operato, possono assurgere a fama, denari, successo su larga scala. Ci si chiederà come mai succede questo, è un fatto "naturale"?
Sono molti gli aspetti da considerare. In primo luogo dobbiamo considerare che l'arte è un mondo "nascosto", misterioso, inconoscibile se non da chi l'ha raggiunta. In teoria quasi nessuno è in grado di apprezzare realmente e sinceramente una qualsiasi arte. I cosiddetti intenditori, i critici, i giornalisti specializzati, spesso e volentieri, quasi sempre, sono i meno idonei! La loro cultura è basata su letture, sentito dire, impressioni soggettive, personali; tutto questo è "condito" da una sicuramente elevata capacità di descrizione, di scrittura, di "affabulazione". Ricordo quanto lessi Doktor Faust di Mann; le sue descrizioni di brani inesistenti mi prese tantissimo, avevo una pazza voglia di ascoltarli. Eppure erano sue fantasie. Se un critico di razza vuole esaltare un brano, un quadro, uno strumentista o un cantante, lo può fare, stuzzicando la curiosità e l"'appetito" di quanti vedranno o sentiranno. Avendo posti di potere, di privilegio (radio, tv, giornali, riviste...) la loro parola può avere ed ha un peso determinante. Ma appunto per questo, spesso la loro parola non è solo il frutto della loro personalità, ma dietro, sempre più nel tempo, ci stanno altri poteri. Le agenzie, ormai da qualche decennio, stanno imponendo le scelte ai teatri e gestendole a livello comunicativo, di immagine, di critica. Non sto qui a presumere l'uso di mezzi scorretti o addirittura illegali, ognuno la pensi come vuole, fatto sta che ciò che assurge al successo è il frutto di scelte operate da pochi, che si sentono sempre più detentori del potere e quindi della vita di alcune persone che ritengono il successo indispensabile alla propria esistenza, ma anche gli "orientatori" del gusto del pubblico. Persone anche con elevata cultura, affermano che tizio e caio sono grandi artisti, credendo di aver compiuto scelte personali e oculate, quando invece non fanno che seguire ciò che hanno letto e sentito. E questo anche perché di molte persone, magari autentici artisti, non sanno nulla perché il "sistema" li ha tenuti fuori, o al margine. Mi capita sovente di ascoltare su youtube delle esecuzioni in teatri o sale di serie b cantanti di valore, migliori dei big pagati a peso d'oro nei teatri più blasonati.
La coscienza è "pericolosa". Avere il cosiddetto talento, termine che io tendo a non usare e che reputo mal utilizzato, alimenta l'ego, che diventa padrone e ipervalutatore delle capacità del portatore (sostenuto, come s'è detto, da stampa e agenzie). E' spaventoso pensare a una persona che ha avuto un grande successo e che un brutto giorno comincia a sviluppare coscienza. Quando questo accade in età già avanzata può essere un colpo ferale, da suicidio. Ma anche i giovani spesso messi di fronte al fatto che una scuola sviluppa coscienza, si spaventano, anche molto, e rinunciano. Mi è successo diverse volte che persone giovani, già con qualche anno di studi del canto, approdando alla mia scuola, messe di fronte ai problemi esistenti, ma anche di fronte al percorso da intraprendere, hanno deciso, magari con dispiacere e dubbi, di rinunciare. Significa anche rinunciare a sé stessi, perché se non si segue la vera disciplina che porta all'arte vuol dire non poter sviluppare alcuna potenzialità, ma solo riprodurre con artifici tecnici un effetto superficiale, il cosiddetto "timbro lirico", il mito della voce, del canto, senza saper realmente nulla di tutto ciò e senza poter dare realmente niente di sé, se non effetti esteriori, banali, scontati e non di rado ridicoli. Ma è per pochi. Rinunciare all'ego è una delle più impegnative e dure prove per un essere umano, specie in questo tempo in cui è così facile l'accesso alla comunicazione persino a livello internazionale. Nessuno può giudicare negativamente chi sceglie la strada del successo, dell'avere e dell'apparire, è comprensibile. L'unico che lo può fare è il possessore della coscienza, sperando che resti sempre silente.

giovedì, settembre 12, 2019

Cosa si intende per voce artistica

Forse è un punto che non ho mai trattato in modo diretto. Avevo già scritto in passato sul mito della "voce lirica", cioè l'illusione per tantissimi, soprattutto giovani, che esista un "suono lirico" o "impostato" completamente diverso dalla voce parlata. Percorrere quella direzione non porta a risultati artistici. Quello che forse non è ben chiaro è che la voce può essere frutto di molti processi, alcuni corretti altri meno, altri per niente. Quando uno strumentista suona, ad es. un violino, noi possiamo apprezzare la purezza del suono, ma in alcuni momenti potremmo anche apprezzare suoni "ruvidi", poco melodiosi, legati, magari, al carattere di un particolare brano. Ma qualche strumentista meno raffinato o poco istruito può suonare regolarmente con una timbrica "sporca". Dopo poco la maggior parte degli ascoltatori probabilmente si renderà conto della pochezza di quell'esecutore, e gli tributerà ben poco plauso. Nel canto non solo questo non succede, ma addirittura capita il contrario, cioè che il suono puro, pulito, raffinato, espressivo, modulato, sia assai meno apprezzato rispetto a suoni duri, aspri, ingolati, monotimbrici. La spiegazione, che già descrissi tempo addietro, è semplice: il suono puro, realmente artistico, è il frutto di una corrente d'aria di modesta pressione, che metta in vibrazione dolcemente le corde vocali e si arricchisca di armonici e risonanze negli spazi sovrastanti, si articoli in vocali e consonanti concludendo il suo ciclo nello spazio antistante la bocca per poi essere espanso in tutto l'ambiente circostante. Ciò che invece capita nella stragrande maggioranza dei casi, è che la pressione aerea sia esagerata per cui la forza esercitata sotto la laringe impedisce alle corde vocali di vibrare "dolcemente", bensì in modo rude, violento; non solo, a vibrare non sono solo le corde, ma anche parte dei tessuti glottici, i quali producono "rumore". Questo rumore, per molte persone è il "timbro lirico". Cioè l'esatto opposto di una voce artistica. Quando noi parliamo spontaneamente in condizioni di serenità, di rilassatezza, ci troviamo solitamente in una condizione ottimale, non spingiamo e il nostro corpo non ci crea particolari opposizioni, essendo il parlato una condizione legata alle necessità comunicative, relazionali e di vita sociale dell'uomo. Naturalmente questa condizione ottimale è limitata al parlato. Se già si alza troppo la voce, si parla in modo alterato o si cerca di cantare in tessiture improprie, si va incontro a problemi, più o meno rapidi a presentarsi. Se si vuole parlare già a un livello di maggior qualità occorre fare qualche corso; se si vuole usare una voce molto più dominabile, ad es. per recitare, ci vogliono studi lunghi e impegnativi. Se si vuole accedere al regno della voce cantata artistica, siamo ad un livello di studio esponenzialmente superiore. La cosa che appare paradossale, è che lo studio, quello vero, porta la voce cantata allo stesso livello di quella parlata, cioè rende tutta la gamma facile e duttile come quella parlata, senza camuffamenti, senza artifici, senza distorsioni e trucchi. Già solo pensare che per cantare si debbano modificare le vocali (le cosiddette "intervocali") è un andare contro la ricchezza del nostro patrimonio. La parola, con tutte le sue sfumature, non può essere triturata, frullata, omogeneizzata in modo incolore, insapore... ma valorizzata proprio in tutte le sue possibilità espressive, cromatiche, dinamiche, musicali, ecc. Ed è con la parola che va educato il fiato, unico artefice di tutte le possibilità suddette. La corrente d'aria che può "suonare" le corde in purezza, è un fiato "evoluto", un fiato che in natura non esiste perché ignoto al nostro corpo perché non necessario alla nostra esistenza, alle nostre esigenze, ai nostri bisogni primari (e quindi osteggiato). La laringe, se sottoposta a un lavoro improprio si comporta come una "valvola glottica", che si chiude, che si oppone, così come si oppone il diaframma, e di conseguenza il fiato, che invece di "suonare" la corde, le percuoterà con brutalità. Gli "effetti", per chi avrà raggiunto il dominio respiratorio e quindi vocale, saranno sempre possibili; realizzare momenti di angoscia, di cattiveria, di rabbia, di dolore... non costituirà un problema, entro certi limiti. Molto più difficile, per chi brutalizza il proprio organo vocale in continuazione, evocare dolcezza, passione, affetti, sentimenti... Tutte le infinite e assurde "tecniche" basate su pensieri e fatti che coinvolgono direttamente l'organo vocale-respiratorio: alzare il velopendolo, abbassare la laringe, muovere la lingua, pensare di mandare il suono in "maschera", intesa come occhi, fronte, naso, zigomi..., farlo "girare" in gola, in bocca, in nuca, ancora in "maschera", affondare, schiacciare, spingere, alzare, abbassare, tirare, appoggiare sull'inguine, sui reni, sulla schiena, sulla pancia, sul petto, respirare addominalmente, e mille altre di queste sciocchezze illusorie, non porteranno a niente di artistico. Per molti è sufficiente che la voce "rumoreggi"; lo si può fare in poco tempo, spesso senza neanche tante ripercussioni, e con buone possibilità, specie oggigiorno, di buoni e anche grandi successi. E' da comprendere che chi vuole cantare aspiri al successo e ai "danè", più che a far arte, ma è una spinta interiore quella che guida, e se il proprio spirito spinge verso l'arte, l'unico modo per riuscirci è abbattere l'ego, non c'è alternativa. Bisogna tacitare tutte le "vocine" che spingono verso altre direzioni. La voce parlata per molti è banale, volgare, modesta, "ignorante", non consona a un'arte. E' vero, superficialmente, ma proprio per questo esiste un percorso che la può valorizzare, che non vuol dire affatto modificarla, artefarla o in ogni e qualsiasi modo cercare di cambiarla. Cantare non significa questo, ma far sì che si èlevi, e questo succede perché con gli opportuni esercizi il fiato che la origina può evolversi in senso artistico, cioè può andare oltre le esigenze di specie per assecondare le inclinazioni spirituali, quindi artistiche, dell'individuo. Cioè si costituisce un fiato "valorizzatore" E' cosa non da tutti. Spesso e volentieri le difficoltà che si incontrano vengono attribuite a fatti esterni, ad altri. Tutte scuse inutili. Ciascuno di noi è sempre artefice del proprio successo, dei progressi o degli insuccessi e dei rallentamenti. Siamo di fronte a uno specchio "acustico"; le nostre orecchie si evolvono insieme alla nostra voce. Dobbiamo usarle! Ascoltiamoci e ascoltiamo. Nessuno, in natura, possiede le competenze per valutare le qualità di una voce. Tutti credono di "avere" le orecchie, ma si illudono, perché pensano che nessuno possa controllare qual è il nostro livello di percezione, ma i modi ci sono. Spesso rabbrividisco dai giudizi che sento stilare nei confronti dei cantanti che vengono uditi. Ci sono passato anche io quando ero molto giovane, ma ho imparato anche presto a tacere. Celibidache diceva "parla presto chi non sa". Ma anche di fronte ai giudizi affrettati, tipo "beh, il risultato c'è", scoppiava in crisi d'ira: "in base a quali criteri dici che c'è il risultato? quanti criteri conosci? e quanti credi che ce ne siano?". Ecco. di umiltà non se ne ha mai abbastanza. Ascoltare è la cosa più difficile a questo mondo. Meditare, fare con saggezza; non fare tanto per fare, non allenarsi, non c'è meccanicità, noi dobbiamo far emergere dal nostro corpo ciò che già sa. Non dobbiamo insegnargli niente, dobbiamo solo permettergli di realizzarlo non facendo violenza, non imponendogli cure drastiche e ripetitive, ma ascoltandolo e convincendolo che stiamo percorrendo una via di valorizzazione delle sue più recondite potenzialità, quelle che possiamo definire divine, quelle aperture luminose, ampie, infinite che ci guidano e ci mostrano l'eterno.