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sabato, maggio 27, 2017

Della sonorità

Il problema che oggigiorno, ma ormai da molto tempo, si pongono tutti coloro che studiano canto è quello di avere una voce molto forte (perché, dicono, con le orchestre e i teatri odierni, superare la buca d'orchestra è arduo, come se i teatri e le orchestre fossero diverse da quelle di cento-centoventi anni fa, quando imperavano cantanti-parlanti). Questo induce, di conseguenza, gli insegnanti a passar sopra alle vere finalità del canto, cioè la musicalità, l'espressione, la recitazione, e a concentrarsi solo su tutte le modalità possibili e immaginabili per rendere la voce più forte possibile. Voce forte, poi, non significa voce sonora! Fino a una trentina di anni fa, ancora si parlava di "voce che corre", poi anche questa espressione è sparita. Affondo, maschera e corbellerie simili, buone solo a rendere il canto inintelligibile, artificioso, distante e faticoso, sono state tutte idee partorite da menti presuntuose (in quanto pensare di insegnare al nostro corpo come comportarsi in attività dove noi non abbiamo alcuna possibilità di sapere realmente come vanno le cose) per cercare di fare più rumore possibile. E di questo parliamo: rumore, più o meno piacevole, ma rumore. Ma lasciamo stare. Ora, tutti gli studenti di canto si preoccupano sempre di non essere sufficientemente udibili e di essere criticati per la voce "piccola". Dobbiamo dirlo: chi ha la voce piccola non può pensare di poter avere una voce grande (e chi ce l'ha grande ringrazi i suoi cromosomi), a qualunque metodo si rivolga. Diverso è il discorso sulla SONORITA' della voce. La voce che corre, che si espande, che occupa lo spazio, che è limpida e pura, si sente sempre, anche se piccola. E qual è la voce limpida e pura? E' la voce parlata elevata a canto. Punto. Non lo si accetta, e io non ci posso far niente. Se non si vince questo muro, che non è da addebitarsi all'istinto, ma all'EGO, si navigherà sempre nel mare dei difetti, perché fare la voce forte è collegato comunque allo SPINGERE. E spingere significa, alla fine, spoggiare. Allora si deve cantar piano? In un certo senso sì, cioè quel "piano" che è l'intensità normale della nostra voce parlata (alcuni l'avranno già spontaneamente forte, altri velata o leggera...). Parlare e subito dopo intonare con la stessa modalità, senza cercare niente, senza modificare alcunché, e passare da parlato a intonato con la stessa facilità e fluidità. Questa che sembra una sciocchezza, è la chiave di tutto il grande canto, e quelli che ci arrivano sono casi quasi unici nella Storia (oggi). Ogni cambio di vocale, ogni cambio di nota, ogni cambio di colore, di carattere, ecc., genera in tutti uno stimolo a una modificazione meccanica, cioè si pensa o si accetta supinamente che bisogna che qualcosa cambi a livello di lingua, di laringe, di velopendolo, di faringe, ecc., e al di là di ciò che succede naturalmente quando parliamo, si pensa supinamente che occorra aggiungere, ampliare e amplificare per poter cantare in grandi spazi. Non è così, non è per niente così! Noi dobbiamo mettere in campo le condizioni di stimolo affinché il fiato dia il meglio di sé diventando mantice del nostro strumento. Non quantitativamente ma qualitativamente. Senza alcuno sforzo, seguendo la giusta disciplina, la voce diventerà via via più sonora, e si canterà come parlando, con le stesse possibilità articolatorie ed espressive di un attore (bravo) ma con in più la possibilità di far ciò su tutta la gamma vocale. Allora la prima cosa per chi punta all'arte è ACCONTENTARSI (cioè mortificare l'ego) di cantar PIANO, cioè con la propria voce, non solo nel senso timbrico, ma acustico. Aguzzare l'udito, e rendersi conto che in questo modo in poco tempo la voce acquisterà tutti i pregi che le si richiedono. Tutti i metodi, che in qualche modo mettono in mezzo il fisico, uccidono il fiato, non lo lasciano sviluppare ed evolvere, e sarà un allungamento dei tempi e una esaltazione dei difetti. Poi a qualcuno i difetti piacciono, i rumori piacciono, per cui... come non detto! fate come più vi garba. Per i pochi che invece (magari anche perché delusi dopo aver speso cifre iperboliche da insegnanti celebri che non hanno saputo risolvere alcunché) nutrono qualche vago dubbio che in quanto dico ci possa essere del vero, provate a dire una frase che dovete cantare; ditela diverse volte, col giusto carattere e ben articolando, e cercate di avvicinarvi all'intensità necessaria per raggiungere grossomodo la nota iniziale, dopodiché provate a ridirla intonandola, senza abbandonare la stessa efficacia della frase parlata, ricordandosi che è il fiato che la deve creare. Cambia qualcosa?

domenica, maggio 21, 2017

Chi rimane indietro?

Con l'espressione "è rimasto indietro" si intende generalmente una sorta di involuzione rispetto a un livello raggiunto da altri. Nel caso del canto l'espressione si attaglia anche a una posizione reale, fisica. Da che mi interesso di canto (diversi decenni), indistintamente tutti al sentire un canto difettoso commentano: "ha i suoni indietro". Sarebbe interessante capire cosa intendono i tanti che concepiscono soltanto suoni interiori, cioè indietro, per quanto alti o bassi. Se "indietro" è indice di suoni non corretti, perché rifiutano di insegnare o di cantare fuori, cioè avanti? Perché pongono come limite dell'avanti la cosiddetta maschera, cioè le ossa facciali. Quindi secondo costoro l'avanti e l'indietro è questione di pochi centimetri. In realtà noi dobbiamo considerare indietro tutto il canto che non sboccia all'esterno, e per noi è più di un semplice avanzamento fisico, è un avanzamento evolutivo. Saper parlare con proprietà, con elevata alimentazione respiratoria e ancor più saper cantare, vocalizzare, in modo puro, genuino, vero e sincero, senza spinta e senza trattenimento, fuori dal corpo (ovviamente avanti la nostra bocca), significa aver percorso anche uno spazio temporale, essere andati in un nostro ideale futuro, di uomini più saggi, più raffinati. E in questo processo noi dobbiamo cercare di vedere noi e di vedere il nostro canto come staccato e indipendente dal nostro corpo (con cui mantiene una relazione), come un'entità che risponde alla nostra volontà. Se il canto inteso come parola elevata a canto perfettamente alimentata da un respiro che si è trasformato in alimentazione strumentale, chi è rimasto indietro? ovviamente il suono. Il suono è la radice archetipa, la componente arcaica e ancestrale, che continua a vivere nella "grotta" negli spazi interni e che non può farne a meno in quanto ancorato alle componenti fisico materiali che lo producono. La vocale è la parte depurata di questo suono che viene arricchita dalla saggezza e dalla coscienza artistica. Questo filtraggio ho idea che sia sempre più difficile da raggiungere perché la saggezza e l'ambizione all'unità sono sempre meno presenti, mentre la tendenza è sempre più a dividere e a razionalizzare. Voler cantare nello stesso luogo del suono, cioè internamente, vuol dire non liberare le potenzialità più elevate dell'essere umano e mantenersi su un piano più arretrato, rozzo e materiale. Significa anche non condividere. Il canto esterno, come è avvenuto per gran parte dei cantanti almeno fino alla Prima Guerra Mondiale e per altri ancora fino alla Seconda, era un canto molto più accettato e vicino al pubblico, non solo quello degli appassionati, dei cultori, ma di tantissima gente che comunque apprezzava l'opera e il canto classico in genere, perché non lo percepiva come una sofisticata ingegneria, ma come una condizione umana possibile, seppur molto impegnativa e necessitante di qualche dote speciale. Se io sento un cantante che mi fa vivere affettivamente ciò che canta, perché capisco perfettamente ciò che dice e me lo riesce a trasmettere, lo spettatore si trasfonde e in un certo senso trascende la realtà e vivrà per un breve tempo un'avventura all'interno di quel canto. Se si comincia a non capire niente, al di là del comprendere le parole, ma se il suono è impedito a uscire e quindi le parole più o meno comprensibili, ma non possono raggiungere realmente lo spettatore, sarà forse bello, ci potrà essere emozione per la musica, le scene, il luogo... ma sarà impossibile incontrarsi nel canto, vuoi del cantante, vuoi di tutti coloro che partecipano. Rimarrà un evento fine a sé stesso, di cui si potrà anche conservare un buon ricordo, ma esteriore, non avrà partecipato realmente con l'anima.

mercoledì, maggio 17, 2017

Legato articolato staccato

Il legato nel canto è un obiettivo talvolta di difficile raggiungimento a causa di equivoci psicologici difficili da rimuovere. Sono già molto difficili nel corso degli esercizi, figuriamoci nel canto, anche se talvolta una certa predisposizione espressiva può aiutare. Comunque il problema che si presenta il più delle volte è che si confonde il legare con lo spingere, lo schiacciare, il premere, soprattutto in avanti. Cioè, cosa già ridetta mille volte, si vuol materializzare o "cosificare" [cit. Celibidache] il suono, ignorando che esso è immateriale, quindi dobbiamo farlo, o meglio lasciarlo, scorrere senza opporgli ostacoli. Alla base del perfetto legato ci sta il perfetto articolato [anche questo lo scoprii molti anni fa ascoltando una prova del m° Celibidache]; cosa vuol dire? Che legare una frase non significa "spingere" un suono nel successivo, ma lanciare un "ponte" tra l'uno e l'altro, e questo ponte è sempre e solo un fluire aereo, inconsistente, tra due pronunce perfette, siano esse due vocali o due sillabe o altro. Esemplifichiamo con un vocalizzo di tre note (ascendenti più due discendenti, ad es. do-re-mi-re-do), ad esempio sulla I. Intanto c'è il grosso (a volte enorme e talvolta abnorme) problema dell'attacco. Come ho già scritto infinite volte, occorre comprendere che una vocale si differenzia sostanzialmente da una consonante per il fatto che non dovrebbe esistere un attacco "duro", ovvero generato dall'opposizione di due parti (labbra, lingua-palato, lingua-faringe, ecc.), quindi è indispensabile rendersi conto che l'attacco (della) vocale deve avvenire senza qualsivoglia colpo (ghigliottina del fiato), senza fretta e la pronuncia deve essere incontrovertibilmente esatta, cioè non deve "tendere" né alla E, né alla U, ecc. Quando si sarà raggiunto questo già non facile risultato (ma chi legge questo blog avrà trovato anche diversi suggerimenti su come disporsi correttamente in quella direzione), ci si troverà nella difficoltà di eseguire correttamente l'esercizio (anche se si crederà di far bene). Il problema, infatti, è che l'esecuzione della seconda nota produrrà quasi sicuramente un "appannamento" della I, che risulterà meno a fuoco, meno precisa, e produrrà anche una tensione muscolare soprattutto nella zona tra il mento e il collo. Accade ciò che ho descritto nel post precedente, cioè la vocale esterna si lega al suono interno (e al suo organo produttore, la laringe) creando una tensione verso l'esterno che possiamo definire spinta, schiacciamento, pressione indebita. Ciò non avviene, o più difficilmente, quando stacchiamo, ovvero quando eseguiamo i cinque suoni indipendentemente, articolandoli uno dopo l'altro con una piccola pausa, eventualmente anche respirando tra l'uno e l'altro. Cosa avviene in questo caso? che in genere cessando l'emissione, prima di riattaccare il successivo, si ha un attimo di rilassamento. Quel piccolo rilassamento già riesce a spezzare quel legame interno che porta a un sollevamento laringeo-diaframmatico. Ecco, allora, che se nel momento in cui lego, ogni qualvolta definisco l'attacco della prima vocale immediatamente rilasso prima di attaccare la seconda nota (anzi prima di cominciare a pensare di attaccare la seconda nota) ridicendo perfettamente la vocale, io mi metto nella stessa situazione dello staccato, dove tra una vocale e l'altra non ci sarà il silenzio ma un "ponte" d'aria sonora che devo alimentare e lasciar scorrere, priva di alcuna tensione. Appena riesco produrrò un video, che sicuramente è più chiaro di tutte le parole.
Il parlato e il sillabato hanno minori problemi, ed ecco il motivo per cui anticamente per un certo periodo propedeutico veniva svolto unicamente il solfeggio sillabato. Noi però preferiamo di gran lunga esercizi che si basino su frasi normali in modo da avere un riferimento (quindi una relazione) con il parlato comune, cui anche l'esecuzione intonata dovrà ispirarsi. Parlato e sillabato, comunque, hanno il vantaggio, rispetto al vocalizzo, di avere un attacco consonantico che aiuta, potremmo dire che fa da trampolino, e in questo caso per raggiungere un buon legato ecco che la consonante può rivestire un ruolo importante, specie se il salto è un intervallo ampio e ancor più se è un salto discendente, dove istintivamente si tende a tirare indietro o a lasciar cadere. In questo caso giova molto esercitarsi con il portamento. Potremmo dire che il flusso d'aria è assimilabile per molti versi a un portamento, sempre rimarcando che NON DEVE MAI dar luogo a spinte o pressioni. Queste sono le vere grandi difficoltà da superare, che devono impegnare seriamente lo studente, altro che "alzare, abbassare, tirare, mettere...". Semplicità, flusso, elasticità, rilassatezza.

sabato, maggio 13, 2017

Legàmi e relazioni

Gli apparati preposti alla vocalità, che sono anche, prioritariamente, preposti alla funzione respiratoria e ad altre funzioni fisiologiche, sono interessati da legàmi e relazioni. Istintivamente e funzionalmente ci sono dei legami, che possiamo definire di tipo fisico, anche se il mezzo di connessione non è necessariamente un organo fisico, come possono essere muscoli, tendini, ecc. ma il fiato. Affinché la respirazione risponda a determinati schemi di funzionamento e possa intervenire in casi di emergenza (vera ma anche presunta), associa i propri organi non direttamente sottoposti a un legame fisico, con legami di tipo respiratorio, per cui il diaframma e il blocco polmonare-bronchiale, pur non essendo direttamente legati alla laringe, ne controllano i movimenti (per dir meglio, è la laringe che è strutturata in un certo modo - valvolare - affinché risponda alle esigenze e alle necessità respiratorie) affinché in tutti i casi in cui vi è la necessità, essa si comporti in un determinato modo, ovvero apra o chiuda o rallenti il flusso aereo in modo che la pressione interna ai polmoni possa aumentare o diminuire con le conseguenze che necessitano. Se dobbiamo compiere un certo sforzo, che può essere di tipo fisiologico (evacuazione) ma anche esterno, tipo sollevare carichi, il fiato viene richiamato ausiliariamente a collaborare con la muscolatura esterna. Quando ciò avviene la laringe tende addirittura a chiudere completamente il passaggio dell'aria e il diaframma a sollevarsi affinché nei polmoni si crei un'elevata pressione, che come uno pneumatico aiuti il corpo a ritrovare una posizione eretta. Questa funzione è insita nell'ingegneria del nostro corpo, è ineliminabile e fa parte del nostro istinto di conservazione  e sopravvivenza, intendendo, con questo, quel "programma" di funzionamento che fa parte del nostro "kit". Il canto non può assurgere, nel nostro tempo e nelle nostre condizioni ambientali di vita, a esigenza tale da commutare queste regole di funzionamento in altre a noi più consone, come ad esempio cantare, perché metteremmo, almeno potenzialmente, in pericolo la nostra vita e quindi il nostro sistema di difesa impedisce tale commutazione (i legami sono gli stessi che intervengono per la deglutizione, per l'espulsione di corpi estranei dalla gola, per l'apnea in acqua o in determinate condizioni di pericolo generale). Le relazioni tra organi, diversamente dai legami, pur mantenendo un rapporto tra essi, non ne impone sempre e necessariamente i movimenti in base all'organo principale, ma ne lascia l'indipendenza a seconda delle esigenze. Ed ecco, ancora una volta, che noi possiamo parlare di una evoluzione qualitativa del corpo, che compie una leggera modifica, nel senso che gli organi interessati diventano più "intelligenti"e autonomi, ovvero in base alle richieste, se più cogenti - gestite dal nostro cervello rettiliano - o più espressive - gestite quindi dalla neocorteccia o da pulsioni artistico-spirituali - possono compiere movimenti e funzioni diversificate. E' chiaro che se mentre si canta entra un granellino nella trachea, dovrò tossire per espellere il corpo pericolosamente infiltrato, ma finché le condizioni generali non lo richiedono, se la disciplina artistica a cui il soggetto si è sottoposto è riuscito a rendere indipendenti i vari organi, io potrò usare la laringe, e ogni altro organo necessario, come strumento musicale e non come valvola o altra funzione primaria.
Pertanto riconosciamo che il primo e fondamentale legame è quello instaurato tra diaframma-polmoni e laringe. C'è poi un legame, che però è anche muscolare, tra laringe e velopendolo, infine ve n'è uno tra la laringe e l'esterno (parlato). Quindi i nostri tre apparati fonici fondamentali: alimentazione (fiato), produzione (laringe) e articolazione-amplificazione, sono tra loro legati e interdipendenti in senso istintivo. Questi legami non funzionano in modo identico in tutte le persone, così come l'istinto non è egualmente "accanito" in tutti gli uomini, pur basandosi sullo stesso principio. Nel parlato colloquiale, ecco che noi abbiamo già una diversificazione rispetto al funzionamento generale, per cui gli apparati si rendono indipendenti e funzionano in modo rilassato e fluido. Se però forziamo la mano e gridiamo o parliamo a lungo in una modalità diversa dal solito, ecco che le nostre funzioni di difesa possono entrare in campo e crearci difficoltà al fine di far cessare la nostra attività ritenuta impropria. Se si canta, senza una preparazione specifica ed appropriata, su una tessitura acuta non supportata naturalmente dai nostri apparati, la laringe tenderà a salire perché le corde per tendersi molto hanno bisogno di spazio, che si trova appunto nella parte più elevata del faringe. Il legame esistente tra laringe e diaframma provoca di conseguenza un sollevamento di questo, quindi uno spoggio del fiato e quindi una diminuita energia che metterà le c.v. in difficoltà; ne potrà conseguire subito un fastidio, tosse e, alla lunga, afonia. Mettere in atto una disciplina che recida quel legame, significherà poter far sì che la laringe possa alzarsi, per ragioni fonico-musicali, senza provocare lo spoggio.
Quando si esegue ad esempio una scala o un salto ascendente, la consuetudine, anche di tipo psicologico, fa sì che si "tiri" in avanti il suono stesso, e quel legame tra laringe e bocca fa sì che salendo con le note salga anche laringe e poi l'altro legame faccia salire il diaframma. Ancora:  il voler dar tanto suono, in genere porta a spingere, a premere in avanti e anche questo porta a sollevamenti e spoggio. Il pensare che le vocali si originino internamente, e che quindi il canto si diffonda nell'ambiente come proiezione da dentro a fuori, comporta l'insorgere di una catena che subirà le stesse conseguenze, mentre il risultato ottimale è che la vocale si origini esternamente (unica possibilità di pura pronuncia) e che maturi una sua indipendenza dal suono, con cui avrà ovviamente una relazione, ma non un legame.
Se per cercare degli effetti mi metto a premere sulla laringe (molti lo fanno, anche senza accorgersene coscientemente), o lo si fa per evitare che si alzi (errore madornale), perché ci si accorge che il sollevamento laringeo comporta spoggio ovvero dequalificazione del canto, si va esattamente nella direzione opposta a quella artistica, cioè si consolida il legame tra diaframma e laringe, e si inibisce la sua potenzialità di strumento musicale e (per questo) la sua indipendenza dagli organi respiratori maggiori. Ecco quindi che necessita prima di tutto esaltare le possibilità di interdipendenza già insiste tra gli apparati, partendo dal parlato che già le possiede in natura e ampliarle, perfezionando, cioè richiedendo una esaltazione espressiva, emotiva, sentimentale della parola affinché sia sempre correlata non con gli organi fisici ma con quelli spirituali.

mercoledì, maggio 03, 2017

Dell''amplificazione

Nelle centinaia di post pubblicati in questo blog, non mi sono mai soffermato specificatamente sulla questione dell'amplificazione vocale (naturale). Il motivo è semplicemente che non è un problema. Educare la voce comporta automaticamente un graduale aumento della sonorità. In compenso questo sembra essere il problema numero uno per chi si accinge a studiare canto lirico e chi lo insegna. Non è, con questo, che lo si vuole minimizzare o escludere, ma si pone come prioritario un problema che in realtà non esiste, in quanto mentre l'articolazione è un'attività attiva, che richiede un impegno e uno studio specifico e da affrontare sul piano disciplinare, non lo è l'amplificazione, in quanto lo stesso apparato articolatorio assolve nel contempo anche quello amplificante, ma passivamente. E' la valorizzazione dell'articolazione, relazionata al fiato, come si è detto nel post precedente, che esalta sempre più anche la funzione amplificante, senza bisogno d'altro. Dire e curare con sempre maggior attenzione ogni sillaba, ogni vocale, ogni parola e ogni frase, comporterà la valorizzazione del fiato che le alimenta, il che porterà a una evoluzione complessiva unitaria che arricchirà la sonorità fino alle massime possibilità del soggetto. Le idee che si sono divulgate negli ultimi decenni, per cui l'aumento di volume e intensità dipenderebbero dall'alzare qui, abbassare là, allargare sotto, tirare sopra e via dicendo, comportano manipolazioni improprie e forzate, che possono anche portare a risultati apparentemente validi, ma sempre comportanti effetti collaterali negativi sul piano della correttezza musicale e fonica, ovvero artistica. Il fatto che nella maggior parte delle voci la dizione sia incomprensibile o comunque non significativa del senso, del contenuto del contesto espressivo e comunicativo, è già il segno distintivo che queste sono fuori dall'arte del canto e dall'arte vocale. Fare tanto "rumore" con la voce, fare gridolini acuti e sovracuti non ha niente a che vedere con essa. Occorre aver presente che la massima diffusione e perfezione vocale e teatrale si attua con una evoluzione del parlato al sommo grado, il che naturalmente mette in gioco al 100% un'arte respiratoria perlopiù sconosciuta o misconosciuta, fraintesa e anche osteggiata involontariamente da pratiche che tentando di forzarne il funzionamento in senso vocale, ne inibiscono il più corretto e spontaneo sviluppo.

lunedì, maggio 01, 2017

Le relazioni respiratorie

Il respiro, a parte lo scambio chimico, ha o può avere altre funzioni. Mi soffermo un attimo sul fiato per suonare uno strumento, tipo oboe o tromba, rispetto a quello vocale. Moltissime persone sono convinte che il suonare uno strumento possa servire al canto, e/o viceversa. Non si può negare che una certa utilità possa averla, così come il fare sport o attività in genere che necessitino di un uso più frequente e intenso del fiato. Suonare uno strumento consiste nell'insufflare aria in un tubo, mediato da un'ancia che trasforma il fiato in suono. Che differenza ci può essere con il gonfiare un pallone, ad esempio? Poca, a parte che l'ancia pone un ostacolo per cui è richiesta una maggior pressione, almeno inizialmente (anche il pallone, quando sarà pieno d'aria richiederà più pressione). Dunque per il nostro corpo suonare uno strumento è grossomodo assimilabile a gonfiare un pallone. Riuscire a insegnare al fiato che occorre una disciplina, sarà molto difficile, perché una relazione con un mezzo meccanico esterno è quasi impossibile da instaurare. Diciamo quasi, ma forse lo è del tutto. Nella voce la relazione si instaura prima di tutto con la laringe, cioè un elemento anatomico e fisiologico con cui il fiato ha già nativamente un rapporto. Non dimentichiamo però mai che dal punto di vista vocale c'è un limite, cioè il ruolo fondamentale di questo organo, che non è quello vocale, ma quello valvolare; allora occorre considerare che i rapporti tra fiato e laringe ci possono aiutare ma anche ostacolare (quindi di fatto noi dovremo modificare questa relazione, almeno nel tempo in cui cantiamo, passando dalla relazione istintiva-valvolare a quella artistica-strumentale; l'insegnamento meccanicistico invece esalta il ruolo istintivo con tutte le conseguenze che ne derivano, perché il canto diventa improprio). L'intelligenza non è un ruolo preposto unicamente al cervello; tutto il nostro corpo, in misure diverse e sicuramente minori, ha un'intelligenza; ce l'ha il fiato (importante) e ce l'hanno i muscoli, ovvero ci sono relazioni conoscitive tra la mente e le varie "periferiche", è una rete (quindi trattare muscoli, fiato e organi in modo meccanico, come avviene oggigiorno da parte della maggior parte dei cantanti, vuol dire misconoscere l'intelligenza o conoscenza insita, ed è una forma di presunzione della mente razionale). Ciò che possiamo ottenere dal fiato nella relazione con la laringe, ha potenzialità enormi, che non si possono paragonare ai risultati che si possono ottenere suonando uno strumento a fiato, in quanto con lo strumento non abbiamo relazioni biologiche. Ora però dobbiamo inserire il terzo elemento, cioè l'articolazione. Se noi consideriamo che nel mondo animale questa relazione non c'è, in quanto il ruolo dell'articolazione nel mondo animale è pressoché nullo, possiamo evincere che un aspetto evolutivo fondamentale nell'uomo (o di supremazia) sta proprio in questo apparato, tant'è vero che una radicale trasformazione scheletrica dell'essere umano (gravante soprattutto sul cranio), compreso il passaggio alla postura bipede, è stata necessaria affinché l'uomo potesse agevolmente articolare i fonemi. In questa transizione è stato coinvolto anche il fiato, ma in misura minima, cioè limitata all'alimentazione del parlato di relazione. Gridare, benché concesso, non può andare oltre certi limiti di durata e di estensione, perché altrimenti subentrano afonie e danni (cioè l'impossibilità di alimentare oltre certi limiti in quanto manca la predisposizione, anche se si può ottenere nel tempo, ma sempre con usure rimarchevoli nel tempo, perché in genere manca l'esigenza). Anche il parlato può avere i suoi limiti, ma è più un fatto soggettivo. Ciò di cui si deve prendere atto è che la relazione tra fiato e articolazione non è ottimale, in quanto una pronuncia perfetta avrebbe un "costo" in termini di energia che non ci possiamo permettere. Stesso discorso vale per l'estensione e la sonorità. Quest'ultima può anche sussistere, in qualche caso, ma sempre limitatamente a determinate zone della gamma. In sintesi: in natura esiste una relazione tra fiato, organo vocale e organo articolatorio, che ci consente di parlare abitualmente. E' possibile migliorare il parlato ed estenderlo in volume, gamma ed espressione (attori) ed è possibile cantare su zone non troppo estese e con moderata sonorità. Quando cerchiamo di forzare questi limiti, le relazioni vanno a farsi benedire, come suol dirsi. Dove sta uno degli errori più ricorrenti delle scuole di canto? Nel voler passare al canto, specie su tessiture e con intensità ragguardevoli, senza essere prima passati dalla prima fase, cioè il miglioramento del parlato. Questa è la strada maestra, perché il fiato è legato all'articolazione, e il suo sviluppo, o meglio ulteriore evoluzione, può avvenire solo grazie all'esigenza di avere un parlato più corretto, fluido ed espressivo. A questo, con i giusti tempi, si potrà affiancare l'intonazione, ma sempre legata al parlato; solo in un secondo momento si potrà cominciare, senza fretta, a riservare tempi al puro vocalizzo, il quale dobbiamo sapere che per le sue caratteristiche troverà opposizione e creerà pertanto reazioni, almeno per un certo tempo, e anche considerevoli. Allora dovremo essere noi a mantenere i rapporti ricordando sempre di dar fiato al fine di poter pronunciare perfettamente, considerando sempre che il puro parlato è esterno e un po' distante da noi, ma senza mai minimamente spingere, anzi togliendo ogni forza e ogni pressione, anche cantando o esercitandosi piano e pianissimo (senza trattenere).