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venerdì, settembre 30, 2011

Le tre O

Nel disegnino pressoché infantile, ho evidenziato la pronuncia di tre O in tre luoghi diversi. Chiunque si rende conto che la meno corretta è quella posizionata tra bocca e gola, in zona tonsillare, eppure è di gran lunga la più eseguita, perché in realtà pur non volendo e non credendo di farla, la maggior parte di chi canta la realizza in quel luogo. E' una O cupa, opaca, molto scura, ma può piacere a molti uditi (non propriamente raffinati), perché può anche essere una O molto rumorosa, laddove il rumore per molti è ricchezza timbrica e armonica. Il fatto di essere realizzata così in basso può contribuire a una certa ampiezza glottica e una pressione sulla laringe che determina, seppur molto artificialmente, appoggio/peso, per cui può risultare un suono importante. Il problema n° 1 è che risulta abbastanza difficile passare alle altre vocali, cui solo la U si avvicina, mentre le altre appaiono molto più chiare e leggere, e questo può creare problemi di omogeneità. Altro problema può essere il passaggio di registro, tant'è che molti in questa situazione non lo eseguono, cantando tutto in corda spessa. E' un rischio enorme, aggravato dal fatto che una simile posizione del suono non permette pressoché nessun gioco di colori e di dinamiche. E' inoltre evidente che, ingabbiato com'è, non può espandersi nell'ambiente e tutta la muscolatura faringea è pesantemente asservita a "tenere" il suono lì. La O dietro i denti, seppur più avanti della precedente, può avere meno chances. Il fatto di essere più avanti già provocherà più impegno, perché l'aria deve fare un percorso maggiore e richiederà già un certo tempo per trovare il giusto appoggio. Il suono in quella posizione preme sulla lingua e sulla mandibola, impedendone la giusta e libera mobilità; anche in quella posizione non espande molto esternamente, però ha più possibilità di produrre risonanze secondarie e ha maggiore varietà di colori. La pressione anteriore sulla lingua, però, può anche determinare una sorta di schiacciamento in avanti e una retrochiusura del faringe; per questo motivo si tenderà ad allargarlo volontariamente. Anche quando è in questa posizione il passaggio alle altre vocali creerà qualche problema in quanto la loro ubicazione cambia, rispetto alla O, anche se molto meno rispetto alla posizione faringea. Naturalmente quella consigliata è quella che si forma esternamente alla bocca, che permette un adattamento automatico delle cavità interne, che non sono schiacciate e irrigidate. Il fiato scorre nel condotto aereo modellandolo in rapporto alle caratteristiche del suono prodotto. La mandibola e la lingua sono libere; la pressione del fiato genererà armonici e risonanze secondarie grazie all'incidenza sulle pareti elastiche (perché rilassate) del faringe e alle ossa e cartilagini. E' un suono che richiede molto tempo per la sua corretta emissione a piena voce, perché il tragitto che il fiato deve compiere è lunghissimo, ma questo darà anche luogo a un appoggio e peso enormi, che da un lato saranno elementi utili alla grande velocità ed espansione del suono in sala, ma richiederanno tempo e impegno per essere sopportati. E' un suono che permette la più ampia possibilità di colori e dinamiche, permettendo in automatico, cioè senza movimenti volontari, l'adattamento delle cavità interne a quanto voluto dalla mente. Da questa posizione il passaggio alle altre vocali è del tutto omogeneo e fluido, perché sono tutte lì!

Del calibro

Un termine che il M° usava frequentemente a lezione, anche se è poco usato negli scritti, è quello di "calibro" del suono. Secondo me è un esercizio mentale e fisico molto efficace quello grazie al quale riusciamo a uscire dallo stereotipo del suono "lirico" grosso, scuro, super appoggiato e gonfio (e tronfio). Non voglio nemmeno escludere dalle possibilità finali quella di ottenere suoni molto sonori, ricchi, scuri e squillanti, intendo dire che quei suoni non possono e non devono essere ricercati, ma ottenuti grazie ad un paziente lavoro di sviluppo. Il primo e più grave errore risiede appunto nel calibro, ovverosia nel ricercare immediatamente, o comunque il prima possibile, suoni "grandi", "grossi", ovvero di ampio calibro. Cercare un grande calibro, a meno di essere dei "superdotati", ed è ovviamente molto rischioso pensare di esserlo, significa immediatamente far rientrare il suono in bocca, dove esso trova ampio spazio di risonanza. Ma questo non è sviluppare il suono, anzi, è un renderlo difettoso e un tarpargli le ali. Se infatti noi possiamo avere la sensazione di un suono più grosso e importante, l'azione ne ha già ridotto le potenzialità di sviluppo, perché il "tubo" aereo è accorciato, e conseguentemente diminuito l'appoggio. Dunque, il criterio di quanto sto cercando di comunicare è per la verità molto semplice: se voi nel dire con semplicità una qualunque parola vi soffermate su una qualsivoglia vocale, ne avrete, grossolanamente, il giusto calibro. E' ovvio che nel parlato corrente tutto è limitato e difettoso, ma c'è un dato di fatto che non si deve mai sottovalutare: gli apparati sono in sintonia tra loro e la pronuncia è fuori. Quando intoniamo il parlato i difetti si rivelano più evidentemente, in parte perché noi li esasperiamo andando a cercare qualcosa (che non c'è), in parte perché il maggior impegno provoca la reazione istintiva. Allora ecco il motivo per cui dobbiamo, per qualche tempo, ricorrere alle forme chiave delle vocali. La O con le labbra strette, la U con le labbra "a fischio", la I e la é col sorriso, la A con la bocca ampia, similmente la è. E' ciò che facciamo nel parlato, in modo tranquillo e contenuto, ma di cui non abbiamo coscienza. Dunque, prendendo una O, che è una delle vocali più utilizzate, c'è una differenza abissale tra una O emessa mediante una certa tensione labiale e una O emessa senza alcuna cura delle labbra. In primo luogo abbiamo un controllo diretto sulla pressione dell'aria, dunque anche sul diaframma. In secondo luogo, se riusciamo ad evitare di trasmettere questa tensione alle parti muscolari inferiori (gola), noi riusciremo a far sì, subito o in tempi brevi, che la O resti fuori dalle labbra. Questo non appagherà l'ego, perché il suono che si forma esternamente, avendo poca risonanza interna, risulterà per l'allievo poco sonoro e "piccolo". In realtà capita spesso che questi suoni siano subito molto piacevoli e si espandano facilmente nell'ambiente, ed è per questo che bisogna insistere affinché l'allievo impari ad ascoltarsi esternamente. Il suono così emesso risulterà di calibro "giusto", il che vuol dire più piccolo rispetto le attese (erronee) dell'allievo, ma in questo modo si creerà quel rapporto perfetto tra le cavità interne e il fiato/diaframma (cioè appoggio). A questo punto potrebbe mancare del "peso", vale a dire volume e intensità, e qui torna in auge l'ego: se per dare carattere di ampiezza dinamica noi torniamo a "gonfiare" il suono, torneremo sostanzialmente ai problemi di base, invece la difficoltà e la pazienza richiedono che il suono si sviluppi mantenendo e sorvegliando severamente che il calibro non si allarghi, non si modifichi. In questo modo noi potremo dare progressivamente più forza, andando a insistere sui polmoni e sul diaframma con una pressione che poi ci sarà restituita nella qualità del fiato. Questo il piccolo rapporto "tecnico". In realtà noi, con sapiente disciplina, andremo anche a togliere le reazioni istintive, le quali in un primo tempo sono le artefici massime dell'ingolamento e dei difetti. Migliorando le capacità di ascolto esterno, anche il nostro ego si convincerà che il suono non è così piccolo e modesto come poteva sembrare in un primo momento, per cui inizierà un processo di "elasticizzazione" di tutto l'apparato, e la voce risulterà sempre più sonora man mano che diminuiremo (sì, ho scritto ed è proprio: diminuiremo) la forza del fiato. Da molto tempo sto cercando di realizzare qualche disegno esplicativo. Cercherò di farlo e poi spero di poterlo mettere qui...

mercoledì, settembre 28, 2011

Corsa a ostacoli

La trattazione di questo argomento della pronuncia "fuori" ancora non mi soddisfa, e a costo di risultare ossessivo e grafomane, ritengo di dover fare ancora questo intervento, che può forse aprire un ulteriore spiraglio di comprensione. Questa volta parto dalle consonanti. La consonante si forma grazie ad un ostacolo, sia esso la lingua, il faringe, le labbra, ecc.Nel momento in cui andiamo a pronunciare una consonante o una parola che inizia con una consonante, si crea immediatamente una piccola apnea, cioè un piccolo serbatoio d'aria a monte di una temporanea chiusura del condotto aereo. Ad esempio se pronunciamo la P, noi avremo un accumulo d'aria dietro le labbra, che si chiudono ermeticamente per un istante, fin quando la pressione vincerà la resistenza delle labbra e ne scaturirà la consonante (è un po' lo stesso meccanismo fisiologico della voce). Con piccole differenze, tutte le consonanti funzionano così. Le vocali no, hanno un funzionamento del tutto diverso, nel senso che la loro emissione non prevede, se correttamente gestite, un accumulo d'aria, ovvero un'apnea preventiva. Infatti il grande problema delle vocali è costituito, per diverso tempo, proprio dall'attacco. Credo che possa essere già sufficientemente illuminante il criterio: LA VOCALE NON DEVE ESSERE ATTACCATA COME UNA CONSONANTE! Questo è anche uno dei motivi per cui per diverso tempo si preferisce fare frasi parlate o sillabe. La pronuncia di sillabe permette di attaccare il suono con una consonante scelta tra quelle che portano il suono il più avanti possibile. E' chiaro e logico, però, che in tempi possibilmente brevi si dovrà anche arrivare ad attaccare una vocale in modo corretto. Allora, dichiarato che non si attacca "come se ci fosse una consonante", noi dobbiamo prendere coscienza di cosa capita nel momento dell'attacco. La voglia, per tutti, è sempre quella di dare un "colpo", cioè creare un piccolo ostacolo in una qualche parte del condotto vocale, con conseguente apnea seguita da rilascio di aria-suono, che è appunto l'attacco. In questo senso è da configurare come una consonante, ed è quel consiglio, che così come è scritto dal Garcia jr è da considerare poco condivisibile, di realizzare il "colpo di glottide". Dunque se non è così, com'è? Qui nasce e deve nascere da parte di tutti coloro che studiano canto o già cantano, la riflessione sul canto "nel" fiato, cioè l'emissione di una vocale senza alcuna apnea o colpo o attacco resistente. Se si prova a emettere una A, ad esempio, volendo escludere ogni seppur minimo colpetto, noi siamo obbligati, ritengo, a fare un'emissione col fiato che già prevede la definizione della pronuncia non in bocca o in gola, ma in una proiezione avanzata davanti alla bocca. Questo consiglio, che sicuramente troverà molta difficoltà di realizzazione per diverso tempo, porterà a comprendere con maggiore coscienza cos'è la libertà di emissione e l'ampiezza oro-faringea. Le altre vocali sarebbero in realtà più semplici, perché, pur dovendo anch'esse escludere apnee e attacchi "duri", prevedono sempre un ausilio. La O, correttamente formata, almeno nei primi tempi di educazione, si forma tra le labbra, che devono essere ben tese (a forma, appunto, di O), e costituiscono un punto sensibile e percettibile entro cui attaccare il suono (che naturalmente non deve MAI partire da qualsivoglia punto retrostante le labbra stesse); idem per la U, anche se il maggior impegno dell'organo potrà portare facilmente ad attacchi interni, o anche a un attacco col fiato ma non sufficientemente esterno, e per questo si deve passare un po' di tempo ad allenare la U "piccola", cioè senza corpo, senza forza, senza timbro, volume e intensità, fin quando si sarà raggiunto un buon grado di coscienza del punto ove si forma e "suona", e allora si potrà tornare a dare intensità. La I è anch'essa molto aiutata dalla posizione labiale, anche se risulta per molti una vocale difficile in quanto carente di spazio e quindi sempre spinta. La E risulta in genere un po' più semplice della I, avendo un po' più di spazio a disposizione, mentre nuovamente un po' difficile può risultare la "è", perché il punto di attacco è indistinto, come la A, e quindi richiede nuovamente la capacità di pensarla nel e col fiato, avanti la bocca. Giocare col fiato, fiato sonoro, fiato con microgrammi di suono, è la strategia più piacevole e interessante per migliorare le proprie capacità di gestione vocale; se ascoltate i bambini che giocano, che fanno versi di ogni tipo con la voce, e risultano sempre squillantissimi, è un'osservazione e un'imitazione che consiglio. I vicini e i vostri coabitanti magari vi prenderanno per matti, ma vi garantisco che si impara molto di più così che con vocalizzi ed esercizi stereotipati. Spero con questo di aver concluso e saturato l'argomento.

martedì, settembre 27, 2011

Dove sta Zazà...

Un legame diretto tra parola detta (parlato) e canto è estremamente difficile da accettare. Alcuni lo rifiutano, altri rimangono nel dubbio per più o meno tempo. Naturalmente questa è una problematica soprattutto legata ai nostri tempi dal nostro ego, connaturato a come l'uomo è fatto, e nel corso dei secoli muta poco o niente, esso è molto sensibile agli aspetti ambientali e sociali. Da quando, tra Ottocento e Novecento, tutto il mondo musicale ha cominciato a sviluppare una progressione sempre più accesa verso sonorità forti, drammatiche, scure, complesse, si sono andati escludendo tutti quei suoni e quelle dinamiche più sottili, chiare, sfumate, ma anche piacevoli, agili, espansive che caratterizzavano i tempi precedenti. Credo sia una dinamica abbastanza scontata: il progresso, il tempo che avanza, vuole rinnegare il passato come "vecchio", superato, non adeguato. Naturalmente esiste la controforza che invece tende a "rifugiarsi" nel passato, ad esaltare i "bei vecchi tempi", gli "antichi maestri", e questo crea il fenomeno della nostalgia, dei "vedovi", ecc. Quest'ultimo fenomeno è da considerarsi non meno controproducente del primo, perché spesso e volentieri è una pura forma di pigrizia mentale, di rifugio rispetto una realtà in cui non ci si ritrova, in cui non ci si sa adattare, e questa retorica del passato finisce proprio per essere additata come esempio negativo. Nell'ambito del canto è avvenuto un fenomeno che ha creato una sorta di solco divisorio tra due epoche, che possiamo identificare nella tecnica dell'affondo. E' un fenomeno falso e sbagliato, ma non possiamo più farci niente. La cosa buffa è che esso stesso si configura come un elemento del passato, legato a stereotipi di vecchio, vecchissimo stile, del tutto slegati dalla vera tendenza di gusto contemporanea, che ama, in realtà, nuovamente sonorità non roboanti, detesta il gusto dozzinale e fraseggi quasi unicamente declamati. Eppure per la maggior parte degli "intenditori" di lirica, esiste un "avanti" e un "dopo" Melocchi, portatore (non so quanto sano) di quella tecnica che viene identificata col termine affondo. Esclusi coloro che amano e che affrontano il "bel canto", storicamente inteso, cioè tutto il periodo barocco e su su fino a Verdi, insegnanti, allievi e cantanti dicono: fino a quel repertorio può andar bene la scuola del bel canto, MA da lì in poi è stato necessario "inventare" una tecnica per affrontare un tipo di repertorio moderno diverso, meno legato al canto aereo e figurato, e più carnale, più verista, più drammatico. Quindi se ne riconosce da un lato certa limitatezza, ma compensata dalle possibilità di sviluppo sonoro, indispensabili per il teatro "moderno". Naturalmente non è vero, è una pura illusione. Le tecniche che in qualche modo fanno capo all'idea dell'affondo, cioè respirazione molto bassa, pressione verso il diaframma e verso la laringe, creano molto rumore, ... per nulla. Non che non ci sia in assoluto una realtà; è vero che premendo sul diaframma si ottengono in breve tempo dei risultati, perché si impedisce a laringe e diaframma di risalire (entro certi limiti), e quindi si ha subito uno sviluppo sonoro. Sappiamo però che questa meccanica è antivocale, quindi buono chi resiste, gli altri... carne da... affondo. Ma non voglio tornare su questa storia, troppo spesso rimarcata in questo blog. Ognuno è liberissimo di scegliere e di preferire quel che vuole, anche se la cosa migliore sarebbe quella di rimanere aperti all'evoluzione anche personale del gusto e delle opinioni. Tornando al concetto iniziale, se poniamo come raffronto una vocalità come quelle di Del Monaco o anche Corelli, per non parlare di Giacomini e poi arriviamo in una scuola come la nostra, dove per mesi si fanno sillabe e frasi parlate, e solo occasionalmente vocalizzi e sempre con esortazioni a tenere leggero, a non spingere, a non "dare", si può comprendere come qualunque persona di buon senso possa rimanere non solo dubbiosa, ma decisamente scettica sulla possibilità che da quegli esercizi si possa sviluppare una voce realmente teatrale. E' ovvio: ciò che noi otteniamo grazie ad un percorso artistico non è intuibile né immaginabile. E infatti mi capita in continuazione che gli allievi non si rendano conto immediatamente dei suoni che stanno facendo. Ma a un certo punto si dovrebbe riconoscere che, essendo l'apparato fono-respiratorio, uno, e che può funzionare solo in un modo, se esistono da parte dell'insegnante le competenze per elevarlo a vero strumento musicale, il risultato sarà e potrà essere sempre e solo il migliore possibile, il che vuol dire che la strada per ottenere una vocalità anche drammatica, forte, scura, non passa da un'altra parte, che è solo una illusoria scorciatoia, perché la vera scuola di canto consentirà OGNI tipo di canto, anche, diciamo alla Del Monaco, ma con tutti i lati positivi di una sana scuola basata su principi virtuosi, quindi senza danni, quindi musicalmente ricchissimo, quindi con repertori molto più ampi e possibilità di stili diversi. Il parlato non è un palliativo, una tecnica, un sistema per portare soltanto la voce avanti; esso è la base su cui prenderà inizio lo sviluppo di bellezza, ricchezza, volume, intensità, estensione della voce. Pensare, cioè, che il parlato è un pezzo, ma poi la voce si "costruisce" con i vocalizzi, è sbagliatissimo, è la negazione di qualunque processo realmente teso al raggiungimento di un suono puro e perfetto. Allora capiamo, ancora una volta, meglio cos'è, come si rappresenta, il parlato, e vediamo se qualcuno riesce a penetrare un po' meglio in questo "mistero". La pronuncia, la dizione, il parlato, non sono condizioni del fisico, ma sono condizioni del fiato. In uno dei video presenti sul sito, faccio chiaramente sentire che anche senza voce, giusto con un po' di fiato emesso, si percepisce una vocale anziché un'altra. Quindi il fiato attraversando i nostri condotti, assume un determinato carattere vocale anziché un altro. Siccome il pensiero di una vocale comporta modifiche degli spazi elastici, siamo sempre convinti che siano questi spazi a determinare la vocale, ma la questione è più complessa o più semplice, a seconda di come siamo disposti a recepirla. Quando noi parliamo, ovviamente non facciamo riferimento a singoli suoni, perché tutto viene già legato e scorrevole. Se non si è affetti da qualche evidente difetto, in chiunque appare evidente che il parlato si crea e si espande al di fuori della bocca. Quindi il fiato incontra sul proprio cammino determinate condizioni di spazio e determinati ostacoli, ma la sua corsa non può e non deve fermarsi, altrimenti non verrebbe fuori niente, al massimo qualche rumore inintelligibile, ma prosegue e solo quando fuoriesce dalla cavità orale darà origine alla parola parlata. Possiamo riferirci a un saltatore in alto: la corsa è certamente la premessa per un buon salto, MA NON E' IL SALTO, che è la cosa che interessa realmente, nel senso che se una telecamera inquadra il momento del salto ma non la rincorsa, poco male, ma se inquadra la corsa ma non il salto, è da uccidere! Allora è logico che ci devono essere le premesse perché il suono vocale esca corretto, ma non confondiamo il parlato, che è FUORI della bocca, con quanto avviene all'interno, che nel caso del parlato è anche più semplice e automatico, rispetto la corsa del saltatore, che richiede invece un'attività fisica eccezionale. La voce in buona parte esce da sola, sospinta dall'attività di espulsione del fiato, quindi non richiede quasi alcuna forza. Si dice che invece il canto, essendo più forte, richiede molta forza. La cosa è vera fino a un certo punto. Siccome, come ho ripetuto fino alla nausea, il nostro corpo, se non è contraddistinto da doti eccezionali, si oppone sempre istintivamente al peso del suono e al tentativo di commutazione di una funzione in un'altra (quella aerea fisiologica in artistica vocale), nei primi tempi occorrerà molto impegno per "domare" il diaframma svincolandolo dall'azione dell'istinto. In questo processo si andranno ad instaurare progressivamente gli elementi di tipo acustico vero e proprio, cioè si andranno a ottimizzare l'utilizzo passivo dei cosiddetti risuonatori che faranno sempre più aumentare le possibilità sonore della voce, permettendone volume, bellezza, ricchezza, velocità (compito svolto da fiato/diaframma, non da azioni muscolari volontarie). Quando si dice "cantare come si parla", si dice una verità assoluta, cioè si raggiungerà quella facilità e quella posizione davanti alla bocca, che se ci soffermassimo qualche volta a notare, contraddistingue la parola parlata e poi cantata, con tutto quel supporto aereo e muscolare che la disciplina ha reso "naturale" e non eccessivamente impegnativa. Contrariamente agli esempi sportivi che talvolta faccio, il canto non è da assimilare a una disciplina sportiva, se raggiunge il livello artistico, perché va oltre quella dimensione, e consente un risultato di ampia portata con un impegno minimo. Su quest'ultimo tema dovrei fare delle precisazioni, ma magari in altro momento...

domenica, settembre 25, 2011

Il suono "avanti" e la doppia cavità

Nelle discussioni viene alla ribalta il problema che cantando solo con la bocca, cioè pensando il suono "avanti", ne deriva un suono schiacciato, perché si esclude il ruolo della gola. L'indicazione della nostra scuola è quella di un suono proiettato esternamente non con la spinta, ma con la propulsione del fiato derivante dal giusto appoggio o, meglio ancora, con la sola proiezione mentale. Che le due cavità oro-faringee debbano stare in relazione è fondamentale, e non per nulla quasi ovunque noi facciamo riferimento a una indistinta cavità, entro cui, però, distinguiamo ruoli diversi. La bocca, o cavità orale, è contraddistinta da una accentuata capacità articolatoria di notevole portata, perché ognuno di noi ha la possibilità di aprire e chiudere con ampia libertà la mandibola, ma poi abbiamo la possibilità ancora di ulteriore partizione grazie alla lingua e ai movimenti di labbra e altri muscoli facciali. La cavità faringea ha molto minori possibilità di apertura e chiusura, e queste possono dipendere in parte da movimenti volontari, ma noi sappiamo che esistono, e sono fondamentali, i movimenti indotti da un lato dai movimenti della bocca, cui il faringe è in parte legato, e in parte dalla laringe nonché dalla propulsione aerea. Allora la conclusione è sempre la stessa: ciò che ci guida deve essere in primo luogo la pronuncia, la quale deve essere la risultante di un fiato correttamente emesso, o appoggiato. Questo processo, se ci sono le caratteristiche di rilassatezza e di eliminazione di reazioni istintive, porta automaticamente a un "salto" della gola, che funzionerà per quanto DEVE funzionare, quindi non deve chiudersi ma, al contrario, aprirsi PER QUANTO E' NECESSARIO, ciò che nessun cervello volontariamente può determinare, e questo automatismo di funzionamento potrà portare anche a una ampiezza che nessuno volontariamente sarà mai in grado di realizzare, senza contare gli orribili difetti che questa azione comporterebbe, mentre un "salto" degli spazi non farà altro che determinare un canto sublime, del tutto slegato da interferenze muscolari e valvolari. In questa azione, ancora una volta, devo indicare l'assoluto e ineluttabile ruolo delle labbra. Se le labbra, o meglio tutto l'insieme di muscoli che fanno capo all'orifizio orale, compresa la punta della lingua e talvolta l'intero muscolo, non svolgono il ruolo fondamentale di guida e briglia del fiato e della dizione, noi non riusciremo a creare quell' "antipolo" o polo superiore della colonna aerea, che consente lo sblocco della pressione sottoglottica e quindi la creazione del "tubo" unico, che ovviamente ha come sfogo, unico e incontrovertibile, la bocca.

La dizione "killer"

La domanda è la seguente: è possibile che Giuseppe Di Stefano, grande tenore degli anni 50, abbia accelerato la propria decadenza vocale a causa della dizione così precisa e ricercata? Chi legge questo blog da qualche tempo potrebbe pensare che io adesso scriva: "nooo! la dizione è la base del bel canto", ecc. In realtà io spiego, ogni tanto, che in questo c'è una verità; Di Stefano è stato vittima di qualcosa di giusto ma applicato senza coscienza. Ho già spiegato non molti post fa che è erroneo pensare che il Pippo nazionale non avesse "tecnica"; ascoltando le prime esecuzioni, quando aveva 20 anni o poco più, noi sentiamo una voce magica, pressoché eccellente anche dal punto di vista dell'emissione. I difetti c'erano, ma ancora molto superficiali. Di Stefano non sapeva, e non poteva sapere, che curando così maniacalmente la dizione in un canto già pieno, di oltre due ottave, metteva il proprio fiato in una condizione di impegno elevatissimo, molto più che se avesse ingolicchiato, mandato il suono indietro, "omogeneizzato" le varie vocali in suoni più o meno comprensibili. Questo impegno notevole, ha accelerato la rezione istintiva, che come sappiamo non tollera la fatica e il tentativo di trasformazione di un apparato fisiologico in altro, di carattere artistico. La strada percorsa da Di Stefano avrebbe potuto essere storica, se avesse avuto la possibilità di studiare con un grande maestro che gli avesse fatto prendere coscienza di ciò che concorre a quella emissione, disciplinando i rapporti fiato-forme in perfetto. Vista la straordinaria predisposizione, ciò si sarebbe potuto realizzare in tempi piuttosto brevi. Quindi la questione non è che la perfetta dizione sia un "killer" della voce, ci mancherebbe ancora, ma che risultando il parlato la più fluida e avanzata emissione, volendo omogeneizzare la voce su quella base, occorre una disciplina particolarmente raffinata, molto consapevole di ciò che muove a livello istintivo e di tutto ciò che concorre a ottimizzare i risultati e a minimizzare, fino ad escludere, tutte le reazioni che suscita. Del resto se così fosse, Schipa avrebbe dovuto durare la metà di Di Stefano, e invece non ebbe tramonto.

giovedì, settembre 22, 2011

Salute (grazie).

Prendendo spunto da un messaggio, pongo la seguente riflessione: quando si è malati, da chi si va? Se noi conosciamo una persona con una salute di ferro, che raramente si ammala, e anche quando capita guarisce con grande rapidità, non sarebbe la persona giusta? Non potrebbe egli passarci tutti i "segreti" della sua splendida forma. La cosa avviene di continuo con le persone che campano cent'anni. Ogni volta che si festeggia un compleanno secolare, abbiamo l'illuminato galoppino giornalista che DEVE chiedere al nonno di turno come ha fatto a raggiungere in buona salute la sua età. In sostanza, al di là di ogni consiglio di correttezza, di buone regole, ecc., cosa facciamo? riteniamo che la persona sana possa realmente aiutarci a superare le nostre malattie o ad arrivare in tarda età senza problemi? O, piuttosto, non ci potrebbe essere magari più di aiuto, parlando un po' per paradossi, la persona che invece ha tribolato tanto e che si è fatto una nutrita esperienza? Questo, infine, è il discorso che va fatto anche per l'insegnante di canto. Colui che avrà cantato sempre con facilità, con disposizione, come potrà aiutarci a superare le nostre difficoltà, se egli non ne è mai stato affetto, se non conosce l'origine e non ne conosce la cura? Quindi, il cantante "famoso", al di là delle esperienze musicali e di palcoscenico, per cui potrà anche essere prezioso, e anche per il giusto riconoscimento delle qualità, è da ritenersi poco idoneo a formare il giovane cantante. Si potrebbe, giustamente, obiettare che il canto è, o dovrebbe essere, qualcosa di parecchio diverso da una malattia! E' vero, ma proprio per ribadire quanto un'Arte sia qualcosa di lontano da una condizione di "normalità", anche se ci può apparire "naturale", dobbiamo notare che ogniqualvolta dobbiamo confrontarci con una disciplina che utilizza una qualche parte del corpo oltre le normali esigenze esistenziali, dobbiamo mettere in conto anche possibili ripercussioni: pensiamo al danzatore, che utilizza tutto il corpo, ma soprattutto i piedi, in modo da correre qualche rischio; ma quante volte abbiamo sentito di pianisti o violinisti affetti da tendiniti? E, purtroppo, quanto più spesso si ricorre al foniatra oggigiorno? E, a questo proposito, mi pare opportuna una considerazione. Sia da parte medica che professionale, si fa sempre più frequente il parlare di "prevenzione", per cui il cantante, persino allievo, va dall'otorino, o foniatra, anche più volte all'anno. A mio avviso qui c'è una stortura, e non indifferente. Se parliamo di prevenzione, ed è un discorso correttissimo e sensato di cultura sanitaria, allora TUTTI dovrebbero farsi una visita otorinolaringoiatrica ogni tanto, come si va dal dentista o dall'oculista. In teoria, chi è che dovrebbe andarci meno? Proprio il cantante, perché mentre la persona comune non ha alcuna educazione, o "igiene", come usasi dire, vocale, il cantante sì, quindi il buon uso del fiato dovrebbe metterlo al riparo da possibili danni. Questa è la ratio, mentre la logica più comune sta andando controsenso!

martedì, settembre 20, 2011

Dell'intonazione

Credo di non aver mai affrontato compiutamente il discorso dell'intonazione, e tantomeno mi risulta l'abbia fatto il M° Antonietti, se non per ribadire quanto riteniamo sottinteso, e cioè che un imposto esemplare porta con sè una perfetta intonazione. Ma cercherò di dire qualcosa di più ad uso soprattutto di quanti non frequentano questa scuola o non studiano canto, ma magari cantano amatorialmente.
Intanto bisogna dire che il discorso dell'intonazione è molto ma molto complesso, perché porta con sé problematiche di tipo fisico acustico e anatomico. Secondo molti, la questione dell'intonazione è esclusivamente di tipo culturale, cioè si impara a intonare ascoltando suoni perfettamente intonati. Questo è vero fino a un certo punto. Così come sappiamo esistere la persona con orecchio assoluto, e addirittura con l'orecchio "armonico", così dobbiamo ritenere che noi abbiamo un sistema di riferimento interno, che elabora i suoni esterni secondo un proprio codice. Questa è poi quella che definiamo "accordatura naturale". Com'è noto esistono diverse scale, basate comunque sul principio della tonalità; una scala scientificamente determinata, una scala "temperata", per citare le più importanti, e, per l'appunto, la scala naturale. Cosa significa, ancora una volta, "naturale"? Si basa sul fatto che l'uomo, nell'eseguire le diverse note di una scala, ha la tendenza naturale a intonare alcuni gradi in modo leggermente diverso dalla scala scientificamente calcolata. Il motivo di ciò risiede particolarmente nella coclea. Qui si aprirerebbe un capitolo complicato, anche se intrigante, di cui vi faccio grazia, anche se è uno, se non il fondamentale, degli argomenti fondamentali della fenomenologia musicale, che spiega perché l'uomo sente la musica.
Veniamo, piuttosto, all'argomento canto. In genere le persone non sono stonate. Chi pensa di essere stonato, o chi è stato così definito, in genere è solo disabituato. Pressoché tutti, con un po' di allenamento, specie se in giovane età, riescono a intonare correttamente. Naturalmente ci sono, come in tutte le cose, persone più predisposte, e quindi con una intonazione facile e precisa, e persone che avranno sempre qualche difficoltà, così come nella ritmica. Ora, una delle situazioni più comuni, è costituita dalle persone che hanno varie difficoltà a intonare cantando, il che può essere determinato da: orecchio insufficiente, problemi vocali, entrambe le situazioni. Lasciamo da parte la questione dell'orecchio, anche se magari in futuro potrò dare qualche consiglio anche per quel problema. Parliamo invece della stonatura cantando. Diciamo subito che nel corso del tempo di educazione della voce, ci sono periodi in cui l'allievo stona, ma l'insegnante non si sofferma troppo sulla questione, conoscendone la causa e ritenendo che si risolverà con il miglioramento generale dell'imposto. Dunque esaminiamo alcune situazioni comuni: quando la voce tende a crescere, il che è piuttosto frequente, è in genere dovuto alla spinta. Un eccesso di fiato preme sotto la laringe e provoca il suo sollevamento, questo causa anche un allungamento delle corde, ma anche un aumento delle vibrazioni, e quindi crescita di intonazione. Come sappiamo, però, non è detto che la spinta sia volontaria, ma può essere causata dalla reazione istintiva attraverso il sollevamento diaframmatico. Talvolta può anche essere causata da una eccessiva presa d'aria, che non si sa come governare. In quest'ultimo caso conviene consigliare di prendere meno fiato. Quando si arriva in zona passaggio, o anche in zona acuta, l'intonazione crescente può essere causata dallo spoggio diaframmatico che consegue il cambio di registro o l'impegno della corda tesa, che a causa dell'elevato peso può procurare una forte reazione.
I suoni calanti possono essere determinati da una moltitudine di cause. Anche un suono spinto può risultare calante, se a livello glottico c'è una forte resistenza. I suoni indietro in genere sono tutti calanti, mentre i suoni aperti, anche se corretti, possono apparire un po' crescenti, ma talvolta non è vero, ma la libertà che li contraddistingue può dare quell'impressione. Bisogna considerare che le voci molto belle spesso riescono a nascondere un certo grado di imprecisione di intonazione; Bruson per esempio non è sempre impeccabile, ma raramente ho sentito qualcuno lamentarsi, appunto perché i suoni molto "rotondi" che lui sempre ricerca, riescono a creare un alone che nasconde un po' l'intonazione, mentre una voce molto sincera e pulita rivelerà sempre implacabilmente la correttezza o meno del giusto tono. Ultima cosa, almeno per ora: il colore della voce può creare facilmente problemi di intonazione. La voce scura può tendere a calare, perché ha un peso maggiore, mentre il colore chiaro tende a crescere, come abbiamo già detto. I problemi più evidenti però nascono quando si cambiano colori, cioè si passa dall'uno all'altro, il che può avvenire, non è è un peccato mortale, checché se ne dica. Cominciamo a dire che le vocali hanno diversi colori, come sappiamo, quindi una I è molto chiara e una O o una U sono scure. Nei cori spesso si chiede di eguagliare i colori delle vocali, il che è folle; il peggio è che anche moltissimi insegnanti di canto passano un sacco di tempo a far eguagliare i colori, il che è anche peggio. E' scontato che non si può, in una medesima frase, emettere una I chiarissima e una E o una O scure, perché sarebbe ridicolo, ma la questione è che una corretta emissione non si scontra con questi problemi, perché al massimo ci può essere bisogno di rendersi conto del colore generale di un brano o di una frase, ma se la I, tanto per dire, viene di un colore particolarmente aspro, il problema è che si sbaglia l'emissione della I, non che bisogna artefare quella vocale per renderla uguale alla E o alla O, o viceversa.
A proposito dei cori e dell'intonazione, che era un po' nelle mie intenzioni iniziali, bisogna dire che lì, oltre ai grossi problemi legati all'educazione vocale, che spesso è latitante o peggiorativa, quello dell'intonazione è uno dei problemi ricorrenti, e il rimedio è peggiore del male! Infatti i maestri di coro, o d'orchestra, sensibilissimi (!!!) all'intonazione, perdono un sacco di tempo (lo confermo) a misurare che la tal sezione cala, e allora cominciano a far segni col pollice in su per invogliare a intonare meglio. Questo suggerimento, per quanto comprensibile, è molto deleterio, perché in realtà i coristi, quando gli si dice che calano, ovviamente spingono per cercare di riportarsi su, la qual cosa può anche funzionare, ma con gravi ripercussioni vocali, e spesso anche ulteriori conseguenze di intonazione, perché è una violenza che si fa alle corde. Al 90% il calamento è dovuto o a una insufficienza respiratoria o alla spinta. Se è spinta, ci si renderà conto di quanto sia paradossale utilizzare altra spinta per correggere la prima. Se è insufficienza respiratoria, una spinta produrrà facilmente spoggio e pressione sottoglottica in abbondanza, che andrà a creare mal di gola e alla lunga problemi anche più gravi. Quindi, esimi direttori di coro, imparate a realizzare migliore intonazione mediante rilassamento laringeo, migliore pronuncia e minor spinta. In ogni modo si ricordi che ciò che rende perfetta l'intonazione è la perfetta pronuncia!

Del gorgheggio

Un termine ancor oggi conosciuto, anche se pochissimo utilizzato in ambito strettamente canoro, è quello di gorgheggio, che, specificatamente, attiene al "cantar di gorgia", cioè di gola. Alcuni vociologi recenti, hanno voluto dare a questo termine una connotazione più ampia, riferendola al registro di petto, ma altri rivendicano il ruolo attivo della gola nel canto, ritenendo che il "tabù" della gola sia controproducente.
Qualche tempo fa avevo fatto un intervento in questo blog sull'argomento ("sentir la gola"), ma non mi ero addentrato troppo nella questione, e in effetti, un po' come il fiato nei primi tempi di studio, ritengo che parlar di gola, specie a chi inizia o peggio a chi proviene da una scuola particolarmente negativa, non giovi. Per molto tempo lo studio deve convergere sull'eliminazione o attenuazione delle reazioni istintive e sulla qualificazione del fiato-diaframma, nonché sul superamento dei vincoli valvolari, il che porta a un "salto" della gola. E' fatale che chi canta, soprattutto con intenti professionali operistici, cada in suoni ingolati, e ritengo che un certo "tabù" non sia del tutto sbagliato. Se noi oggi constatiamo che la quasi totalità dei cantanti, in misura più o meno accentuata, sono ingolati, c'è da rimanere molto dubbiosi sul toccare l'argomento, anche nelle fasi più avanzate dello studio, quando effettivamente l'argomento può diventare necessario. Il gorgheggio è ancor oggi inteso in senso di coloratura vivace; questo è molto illuminante, perché ci segnala, a mio modo di vedere, quella libertà e rilassatezza laringea e faringea che, proprio nell'agilità rapida, segnala la capacità della laringe di potersi muovere liberamente, senza vincoli, blocchi volontari o istintivi, e la capacità della gola di adattarsi elasticamente alle diverse altezze tonali, dinamiche e colori richiesti. Confermo che sotto quest'ottica esiste un canto che può anche essere percepito, in qualche momento, come gola, ma se il livello di coscienza è elevato, con il costante controllo di un espertissimo insegnante, il risultato potrà essere importante e perfezionante. Naturalmente, ripeto e ribadisco, tentare di comprendere da soli questo concetto e provare a cantare pensando di poter o addirittura dover sentire la gola, può portare a risultati più che disastrosi, pericolosi e negativissimi, quindi da sconsigliare assolutamente.

sabato, settembre 17, 2011

Oro o ottone...

Uno stimolo che il M° Antonietti andava spesso ripetendo agli allievi, era quello di riconoscere e scartare ciò che sembrava oro ma non lo era, come l'ottone. Il significato spero sia chiaro: quando si produce una parola o anche una semplice vocale, riconoscere, capire, sentire se è realmente QUELLA parola o vocale, o se semplicemente "sembra". La differenza è abissale. Se la parola è "d'oro", cioè esattamente quella che abbiamo in animo di produrre, il suono sarà immediatamente più libero, più bello, più spazioso, più ricco, e soprattutto sempre intonato. Potrà sembrare strano, ma quando si pronuncia esattamente, si avverte una sorta di "click", come se quel suono si incastrasse perfettamente nel proprio alloggiamento e a quel punto niente potrebbe più spostarla. E' "quel" suono, perfetto nella sua unicità. Ricordarsi, inoltre, che, affinché due o più suoni consecutivi siano perfettamente legati, il processo più corretto è sempre e solo quello di confermare o ribadire la pronuncia anche di tutti i suoni successivi al primo, e non "strascicarli" o nebulizzando la pronuncia nel timore di perdere il legato.

mercoledì, settembre 07, 2011

I passaggi "naturali"

Sullo stimolo di una frase sentita oggi, ritengo di dover precisare questo punto. I "passaggi" di registro, o presunti tali, non sono e/o non possono essere "naturali". Mi spiego meglio. Il passaggio in natura può esistere; ciò che non è da considerare come "naturale" è il punto ove esso avviene. Infatti per gli uomini, ad esempio, dove il passaggio di registro indica con una certa correttezza la classe vocale di appartenenza, non si può fare affidamento sul punto in cui la voce passa naturalmente. Perché la voce riveli inequivocabilmente il punto vero di passaggio, cioè di equilibrio tra i registri, occorre che essa sia stata messa sulla giusta base. Questa operazione può richiedere mesi, però un ottimo insegnante può essere in grado anche in una sola lezione di imbastire alcuni punti grazie ai quali può permettere alla voce di rivelarsi appieno, a meno che non sia proprio in condizioni disastrose. Un ulteriore chiarimento va posto sul punto di passaggio dall'atteggiamento di falsetto a quello di testa, nelle donne. Intanto occorre ribadire che le classi femminili non hanno punti di passaggio diversi nelle diverse classi (soprano-mezzo-contralto), nè tra petto e falsetto nè sul falsetto-testa, e queste note sono sempre il fa3 e il re4 (pur con aspetti caratteristici che abbiamo già descritto). Dal momento che osserviamo come la voce di petto non può salire oltre il do#4 senza andare incontro a seri problemi (subentra il cosiddetto "belting", cioè una spinta sottoglottica forzata), noi dobbiamo altresì prendere atto che la corda non può più vibrare con una componente, per quanto minima, di corda di petto, ma può, e deve, vibrare solo in corda tesa e sottile, cioè falsetto, che giustamente cambia nomenclatura (testa) perché è possibile aumentare la pressione senza richiamare la corda di petto; però occorre ben educare il fiato proprio sulle tre note successive al passaggio: re-re#-mi4, affinché inequivocabilmente la laringe prenda il giusto assetto e il fiato abbia, dal diaframma, la sufficiente energia alimentante. L'idea di molti insegnanti che il soprano abbia un passaggio più in alto, è sbagliatissima, prende le mosse da una assurda analogia con la voce di tenore, che non può entrarci niente, perché si riferisce a un altro tipo di passaggio, e manda la voce incontro a rischi elevatissimi sulla propria salute.