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Visualizzazione post con etichetta musica ed esecuzione. Mostra tutti i post
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venerdì, dicembre 17, 2021

La tensione della frase

 Come in musica, ogni frase che pronunciamo sottostà a un processo tensivo, che è fondamentale per la vita della frase stessa, ovvero della sua energia comunicativa. Quando voi ascoltate qualcuno che parla, indipendentemente da quanto sia competente nella materia e quanto volonteroso di argomentare, se non è in grado di instillare tensione, che è poi energia, nel suo discorso, ci annoieremo, ci addormenteremo, non seguiremo i suoi ragionamenti. Nella disciplina di apprendimento del canto, noi abbiamo una doppia necessità, cioè quella di infondere tensione sia dal punto di vista musicale che testuale. E' fondamentale perché ogni qualvolta abbandoniamo la frase al proprio destino, l'energia decadrà e risulteranno carenze e difetti. Per es. se noi abbiamo "Ricordi ancora il dì che c'incontrammo", ci sono dei punti, come la I finale di "ricordi", e quella di "il", che essendo punti deboli, si tende a saltarli. Ma ci sono frasi dove gli "angoli bui" sono ancora più nascosti e dove gli aspiranti cantanti tendono a saltare le vocali. Per es. "me lo ha detto", si tende a spianare in "me l'ha detto", oppure quando si incontrano vocali, ad es. "quello è un", si tende a dire: "quell'e un", cioè si evita di rimarcare l'accento del verbo, sopprimendo anche la prima "o". Ma c'è di peggio. Nell'aria "vaga luna" di Bellini, l'esecuzione più corrente è: "Vaga lu-nàà che inaarge--- ènti", vale a dire che si spezza la frase e anche le parole. Intanto è frequente sopprimere il punto di valore di "va-ga", poi non si mette in luce sufficientemente che l'accento tonico di "Luna" va sulla "U", quindi "na" deve essere àtono, senza accento e quindi a diminuire, infine che le "e" di "inargeeenti", dove cade l'accento tonico, devono restare legate e sonore allo stesso livello, mentre in quel punto ne succedono di tutti i colori. Sto facendo esempi a caso, ma il problema di fondo è far sì che ogni frase mantenga la sua vitalità per tutta la sua durata. Per questo è utile prendere le frasi dei brani che si intendono cantare e ridurli a esercizio su una, tre note in terza e in quinta, su arpeggio di quinta e di ottava o su cinque note contigue, affinché le si impari a pronunciare in modo non solo esemplare, ma tensivamente corrette. Poi c'è la questione musicale. In cosa consiste la tensione musicale? Nel testo può essere più semplice perché conoscendo il significato delle singole parole e della frase nel suo insieme, abbiamo più facilità a trovare i punti forti e quelli deboli, ma nella musica non è sempre così facile. Il compositore come riesce a gestire la tensione? con i contrasti. Ci sono contrasti ritmici, melodici, armonici... Un intervallo estraneo all'armonia, un'appoggiatura, un intervallo difficile o meno usuale, un movimento cromatico, un accordo "lontano" dall'armonia di fondo, un cambio di ritmo, ecc., sono tutti accorgimenti per dare il giusto equilibrio tensivo. La tensione infatti non deve sempre e solo crescere, tutt'altro, è un "gioco" di togliere e mettere in un disegno complessivo, che chi studia musica dovrebbe (!!) conoscere e applicare ai brani. Molto spesso infatti capita che i brani apparentemente semplici vengano bollati di faciloneria e noia, il che è vero, ma solo quando sono male eseguiti, come appunto "vaga luna". Lo stesso capita per alcune arie di Tosti e persino in brani di Mozart. Imparare e meditare su dove vanno gli accenti, dove il brano va "a più" e dove "a meno", come vanno orientate le ripetizioni, anche di piccoli gruppi di note.. C'è un mondo da studiare, e un mondo di gioia da vivere quando queste cose le si fanno, le si sanno proporre e si "rianima" il brano. 

mercoledì, dicembre 08, 2021

La scala immobile

 Per vari motivi, anche psicologici, quando si esegue una scala ascendente si tende pressoché sempre a incrementare l'intensità. Questa pulsione si sposa quasi sempre, nel caso di suoni legati, a "cucchiaiare", ovvero immaginare di prenderli dal basso e dal retro e ruotarli nella cavità faringea per spedirli da qualche parte, a volte verso la bocca, a volte verso la parte alta del volto, per l'idea della maschera, come scritto nel post precedente. Ovviamente questo è tristemente e gravemente erroneo. E' dovuto principalmente a un grosso equivoco, e cioè assimilare i suoni alle vocali. I suoni si formano interiormente e lì restano; le parole, quindi anche gli elementi costituenti, se fatti con piena intenzione significativa, si formano compiutamente all'esterno. Fanno eccezione le consonanti, ma col tempo si noterà che anche il suono derivante dalla consonante, che è sempre legato alla vocale che segue, potrà nascere e svilupparsi fuori. E' molto evidente il fatto che se eseguiamo una scala con una vocale staccando ogni singola nota, avremo un risultato diverso dall'esecuzione con suoni legati, perlomeno nella maggior parte dei casi. Questo perché legando si ha la tentazione di cucchiaiare, cioè di muovere, ruotare, il suono internamente, soprattutto dal basso verso l'alto e dal posteriore verso l'anteriore. Ma il focus, il termine assoluto di attenzione per l'educazione vocale e il canto deve essere la parola pura e sincera, cioè ricca del suo significato comunicativo. Quando questa condizione si manifesta non si potrà fare a meno di notare che è esterna, autonoma, slegata da ogni muscolo e ogni apparato, che ci sembrerà vuoto, non più coinvolto attivamente nella produzione. E anche noi saremo sempre più distanti, ridotti ad ascoltatori, spettatori di quanto avviene, come se non fossimo noi a cantare. 

Allora riduciamo, come è sempre giusto fare, l'esercizio a pochi elementi semplici. Due note contigue, con la stessa vocale. Facendo le due note staccate tra di loro e pronunciando correttamente, senza schiacciare, spingere, ecc., noi otterremo facilmente due vocali uguali; se le leghiamo ci sono molte probabilità che la seconda venga più forte e diversa dalla prima, per quanto detto prima. Il primo tentativo di correzione consisterà nel fare qualche volta le due note staccate e poi cercare di farle uguali nel legato. Ma spesso il giochino non funziona, perché pronunciare perfettamente mentre si legano i suoni sembrerà quasi impossibile. Allora si passa al rilassamento. Prima di cambiare nota, è bene rilassare tutti i muscoli e diminuire un po' l'intensità del primo, dopodiché pronunciare nuovamente sulla seconda nota (facendola anche più piano della prima). Dovrebbe essere migliorata la situazione. Ci si dovrebbe accorgere, a quel punto, che non si agisce più fisicamente, ma si è come costruito un ponte tra l'interno e l'esterno puramente aereo, senza materia, senza sostanza. E' l'alimentazione della parola, che sta fuori. Da questo e analoghi esercizi, si addiviene a comprendere che non esiste più quel legame psicologico tra altezza tonale e altezza interna dei suoni, per cui al salire delle note sale anche "qualcosa" dentro di noi, e viceversa. La cosa meravigliosa consisterà, a un certo punto, che si perde in gran parte la nozione di nota acuta e nota bassa, tutto si svolgerà solo in una dimensione immobile davanti a noi, come se creassimo una sfera vibrante ma impalpabile, che si dilaterà o si contrarrà in base all'altezza tonale e all'intensità, ma resterà immobile nella sua posizione verticale. L'idea di "gonfiare" e ridurre le dimensioni, il raggio, di questa sfera, è l'unico cambiamento da immaginare. 

domenica, giugno 06, 2021

La Musica

 Volete sapere cosa intendo con "la Musica"? Ve lo mostro. Per un caso fortuito il maestro Raffaele Napoli, giurato in un concorso internazionale, ha scoperto questo ragazzo Kazako, Zhanas Bekmyrza, del 2006, (in questo video è nel 2018). Non importa che sia un ragazzino e non importa ciò che suona. Il fatto è che già alla seconda nota si comprende subito di fronte a cosa siamo. A una coscienza purissima, alla Musica incarnata. Una capacità strabiliante di dosare ogni nota in base alle necessità del flusso tensivo; ogni frase è orientata dinamicamente, ogni ripetizione o imitazione va... dove deve andare, cioè fino al punto massimo. Ovviamente non sarà solo frutto della sensibilità (comunque eccezionale) di questo ragazzo, sarebbe veramente qualcosa di miracoloso; al momento sappiamo chi è la sua insegnante, ma non sappiamo niente di lei, con chi ha studiato, dove... ma procuriamo presto di saperlo. Al momento però scopriamo un vero fenomeno "fenomenologico". E' un soggetto davvero raro. Ascoltatelo più volte e cercate di trarre tutto il massimo che potete dalle sue esecuzioni, perché qui c'è veramente tutto da imparare.
Tutti i soloni che criticano e polemizzano sulla fenomenologia e sui criteri, si chiedano come mai appare un pianista che li osserva tutti. Esiste l'Arte, e soggiace a parametri umani, che, molto raramente, trovano realizzazione in un soggetto, certamente non comune. Quando questo avviene, la libertà si manifesta, la verità, la scintilla divina che è in ciascuno di noi. La perseveranza, la curiosità, la concentrazione, la serietà d'intenti, la voglia di vincere la tendenza alla pigrizia e alla caducità.
C'è un altro video di lui attuale, quello appunto del concorso 2021, dove è già più grandicello, ma sempre impeccabile. L'augurio, per lui e per noi, è che possa diventare un grande e importante pianista e che sia felice. Perché dico questo? Nel 2018, relativo al video qui sotto, giunse terzo al concorso, e il vincitore del primo premio non potrebbe neanche lustrargli le scarpe, ma questo è il mondo in cui viviamo, dove regna sovrana l'ignoranza anche dove sembra governare la cultura e l'istruzione. Certi argomenti "pungono" e possono anche spaventare, per cui chi ha più potere tende a tenere discorsi e soggetti lontani da sé. Non si sa mai che qualcuno gli chieda merito.


Oggi, 11 giugno, il m° Napoli, a conforto di quanti poco sanno di fenomenologia, ovvero di criteri atti a produrre oggettivamente Musica, ha pubblicato lo stesso filmato ma inserendo anche lo spartito del brano con l'indicazione puntuale di tutto ciò che il ragazzo è in grado di produrre. Inserisco tutto il suo commento e il filmato; al momento c'è solo la prima parte, aggiungerò successivamente la seconda.

QUI... UN BRUSHSTROKE DI INFINITÀ...
žanas bekmyrza / Janàs Bekmirzà, un ragazzo di Kazakistàn, una rivelazione assoluta, la più straordinaria sintesi musicale, la materializzazione di tutti i criteri che Celibidache con la sua fenomenologia ha cercato di far ′′ vivere ′′ tutti i suoi studenti e il pubblico. Ho scoperto questo talento assoluto sabato 5 giugno 2021, come partecipante ad un concorso di giovani promesse. Qui Janàs 3 anni fa, nel 2018 a soli 12 anni, esegue il primo movimento della Sonata Op. 49 n. 1 di L. V. Beethoven. Ecco a voi l'ESPOSIZIONE (seguirà un video con Sviluppo e Ricapitolazione). Il mio scopo è essenzialmente informativo e didattico. Parlo sempre dei CRITERI che dovrebbero servire a sostenere un'esperienza musicale che invece spesso, purtroppo, va a cercare o ′′ immagini ′′ dal sapore soggettivo arbitrario, o dettagli descrittivi di tipo tecnico-compositivo. Ecco, invece, propongo criteri tratti dalla fenomenologia musicale, quella disciplina che vuole arrivare ad un approccio più obiettivo, che cerca di rendere consapevole il percorso che rende possibile la trasformazione del suono in musica. Non so... eppure quanto Janàs sia consapevole di ciò che fa, se sia il risultato di ′′ talento ", ′′ scuola ′′ o di uno straordinario mix di entrambi. La cosa sorprendente, e questo è ciò che cerco di rendere conto facendolo ′′ vedere ", è come tutto si capisce e come ogni nota non sia casuale, ma è finalmente la conseguenza di chi precede e la premessa per chi che segue. Il primo criterio è l'ORIENTAZIONE DELLE REPETIZIONI (Janàs è inesorabile) il secondo è l'APERTURA e la CHIUSURA delle FRASI, (... ormai abbiamo capito che Janàs ′′ è dentro ", non molla mai), il terzo è il SENSO di PROPOSTA e RISPOSTA, il quarto è la DIFFERENZIAZIONE DINAMICA delle IMITAZIONI.
Ma non contento di questo, Janàs ci stupisce con altri ′′ indizi di alta consapevolezza ", ad esempio non è la RIPETIZIONE dell'ESPOSIZIONE (casualità o senso assoluto dello svelamento della tensione, vissuta inevitabile per chi si arrangia con la libertà di vivere? - Non lo so ancora ma... cerco informazioni... ehehehehehe) .. Nel prossimo video, ci sarà da ′′ verificare ′′ qual è il... CLIMAX, un'altra grande sfida fenomenologica... Propongo questo video per offrire un esempio di come la conoscenza dei CRITERI da soli non sia sufficiente se poi non contribuiscono al loro essere tenuti costantemente presenti, a formare l'′′ UNO ", garantendo l'assoluta identità, la contemporaneità di ′′ LA FINE CONTENUTA NELL ' INIZIO ′′ ultima tappa, obiettivo di consapevolezza e ′′ vissuto ′′ musicale ".


domenica, maggio 23, 2021

Mille e una sfumature di suono

 Per molti, siano essi fruitori, esecutori o produttori di musica, essa è sostanzialmente suono. Sarebbe come dire che la corrente elettrica è un cavo metallico! Naturalmente esso è indispensabile, ma la corrente è un flusso di elettroni, quindi interno al cavo, che necessita di un mezzo per scorrere. Anche la musica necessita di un mezzo, e questo è il suono, ma la musica è un'altra cosa. Se si parte, esplicitamente o meno, con il considerare musica il suono, si cadrà nel diffuso malinteso di manipolarlo infinitamente senza avere alcun criterio e alcun obiettivo oggettivo da perseguire. Ecco dunque che molte realizzazioni musicali si concluderanno con l'esibizione di mille e una sfumatura di suono, come dico nel titolo, ma senza che nessuna di esse possa portare a significativi movimenti della coscienza; nel migliore dei casi, in forza di straordinari contenuti dei brani musicali, a episodiche "emozioni", spesso più autosuggestive che reali. In fondo anche tutta la "moda" baroccheggiante, senza voler sminuire le importanti ricerche e i rilevanti risultati ottenuti sul piano del colore, della prassi e del recupero strumentale, si è basata molto spesso quasi unicamente su aspetti superficiali e cromatici, più che su approfondimenti che tenessero in alta considerazione l'impatto degli intervalli sulla coscienza umana. Uno dei pochi elementi, se non l'unico, di valore nella notevole diffusione della musica rinascimentale e barocca, ricaduto con una certa frequenza anche nell'esecuzione di musiche di epoche successive, è stato il valore dell'accentazione verbale. Fin dai primi decenni del 900 si è cominciato, con gradualità, a recuperare il meraviglioso repertorio madrigalistico, sacro e profano, andandosi a curare in modo sempre più attento, il legame tra suono e parola. Alcuni studiosi, in particolare, anche sulla scorta dei trattati o scritti vari da parte di artisti rinascimentali, hanno insistito sulla necessità di seguire scrupolosamente gli accenti tonici delle parole, oltreché gli accenti e gli andamenti delle frasi. Per la verità questo studio era già presente tra i frequentatori del canto liturgico detto "gregoriano", ma la sua scarsa conoscenza su ampia scala ne ha limitato la diffusione. Se nelle esecuzioni anche di maestri celebratissimi in tutto il passato, escluso Celibidache, di oratori, messe, ma anche dell'opera stessa, notiamo la pressoché totale cecità riguardo gli accenti tonici ( i "glorià", "dies irèèè" ecc.), con ricadute anche nel repertorio strumentale (le frasi chiuse con accenti, mancanza di accenti fraseologici), oggi da parte di molti direttori e strumentisti notiamo una maggiore sensibilità almeno su questo aspetto. Il che non toglie che si continui a giocare sul suono in modo del tutto arbitrario, come ad esempio quel "tira e molla" insopportabile, specie nella musica barocca o immediatamente successiva, per dare l'impressione di essere espressivi e di tener conto di prassi esecutive, cosa il più delle volte inventata o mal compresa, laddove la miopia musicale impedisce di notare che viene massacrato uno dei precetti fondamentali della musica, cioè la continuità. E' ovvio e sacrosanto che vi sia, anche minuziosamente apprezzata, un costante uso della dinamica, ma fare di continuo crescendi e decrescendi, forti e piani sulla scorta di bizzarre idee dell'esecutore, giusto per non essere "uguale agli altri", è un metodo infecondo, oltre che eticamente discutibile. Lo stesso può essere detto riguardo l'uso indiscriminato di strumenti aggiunti negli organici orchestrali nei brani e nelle opere anche fino al primo Ottocento, che può essere tollerato fin quando essi non diventino protagonisti invasivi. Ormai liuti, arciliuti, chitarroni, cornetti, serpentoni e chi più ne ha più ne metta, sono perennemente in primo piano e non di rado coprono, sempre per motivi di amplificazioni innaturali, anche il resto dell'orchestra con i loro arpeggiare, che se può essere fascinoso e piacevole in alcuni attacchi e soprattutto nei recitativi, tende immancabilmente a generare noia e anche fastidio se perpetuato nelle arie e per l'intera opera. Però anche questa moda, senza nulla togliere ai bravissimi esecutori, non di rado anche raffinati improvvisatori, ha potuto contare su una produzione discografica di grande successo, per cui è evidente che il denaro comanda e quindi con una relativamente semplice soluzione si è potuto aprire il mercato musicale per un lungo periodo a molte esecuzioni, alla nascita di nuove orchestre e gruppi strumentali. Encomiabile sul piano del lavoro, visto che il mercato discografico, soprattutto del repertorio inflazionato del periodo romantico, stava cominciando a sgonfiarsi. Un po' meno sul piano della verità musicale, che è invece andato ancor più disperdendosi, sia per il rapporto stesso tra musica e registrazione, sia per la maggior distanza degli operatori da valori e criteri unificanti.  Se infatti, come si diceva, nelle più vetuste registrazioni si può notare una costante mancanza di attenzione alla presenza dei giusti accenti e quindi di fraseggi efficaci, peraltro può essere rimarcabile la ricerca di unitarietà del brano, ricercata senza "bussola", quindi con evidenti errori e mancanza di idonei strumenti espressivi, ma non di rado con risultati degni di nota. Oggi il grosso rischio è di dare al "prodotto musicale", da mettere in vetrina e vendere, una veste sontuosa sul piano di mille sonorità, un caleidoscopio di colori, esaltato dal fascino del falsissimo mondo della stereofonia digitale, senza anima, senza un "capo e una coda" in relazione tra loro, un susseguirsi di attimi emozionanti, quindi un corpo disarticolato, dove gambe, braccia, testa e busto vanno ognuno per conto proprio non essendo legati a un progetto unitario, tenuto conto che non si conoscono gli argomenti fondamentali per far sì che l'unitarietà si possa raggiungere. 

Per contro, nell'ambito dell'opera o del canto classico in genere, la situazione è un po' diversa. Non che non ci siano stati, fin dall'inizio, esperimenti di esecuzioni "filologiche" di opere liriche, iniziando ovviamente da quelle di epoca barocca, con l'uso di strumenti d'epoca, il ricorso a diapason di diversa altezza rispetto ai consueti 440 Hz, e il ricorso a edizioni critiche, ma sul piano del canto la situazione non è stata propriamente della stessa portata, volendone comunque parlare positivamente. Intanto la vocalità per molto tempo è rimasta, sul piano espressivo, quella romantica, se non addirittura verista, e se è andata migliorando sul versante stilistico (e su questo si dovrebbe aprire un altro capitolo), sicuramente non lo è stato sul piano prettamente del fraseggio e dell'emissione, per quanto la critica non faccia che sottolineare che oggi si canta meglio di un tempo. Se vogliamo dire che oggi si segua maggiormente il segno scritto, possiamo essere d'accordo, ma anche su questo piano la questione non solo è discutibile, ma anche poco coerente. Se infatti alcuni direttori e cantanti vogliono rimarcare che fanno "ciò che è scritto", un semplice ascolto farà risultare che anche questo semplice dato non è vero. Si continuano a tagliare brani, si continuano a non osservare le indicazioni dinamiche e agogiche, mettendone e togliendone, si continua a cavalcare la tradizione pur in edizioni dichiarate "filologiche". In compenso si fa un gran parlare dei diapason dei compositori, stravolgendo la logica dell'esecuzione, non avendo evidentemente compreso il ruolo del diapason (purtroppo a partire dai compositori stessi). Ma a parte questi aspetti che turban gli ozi ai musicologi, veri o presunti, ciò che infastidisce su un piano più elementare e pratico, è il fatto che ai cantanti non venga insegnata (come del resto ormai a tutti) veramente la musica, per cui, anche quando il testo si abbia la fortuna di sentirlo detto comprensibilmente, si continuino a sentire accenti fuori posto, mancanza di varietà nelle ripetizioni, ovvero assurdità d'ogni genere nel nome della variazione. Anche nel canto alberga più che altro il ricorso al suono, e purtroppo, contrariamente a quanto avviene in campo strumentale, non mille e una sfumatura, ma un suono e basta, un colore e, se si dà retta a qualche insegnante, un'unica vocale. Quella che andando "in testa" ha ottenebrato il senso profondo del canto e della musica. 

mercoledì, aprile 07, 2021

L'omologazione

 Non voglio addentrarmi in contorti ragionamenti di natura sociale e politica, mi accontento di constatare come la situazione in cui viviamo porti, quasi fosse un corridoio dove le pareti convergono, a una sostanziale omologazione un po' di tutto, compresa la musica e compreso il canto. Non sto nemmeno a farmi la domanda se questo è dovuto a "poteri forti", a lobby di questa o quella forza, bancaria anziché farmaceutica, ecc. Può anche darsi che sia semplicemente l'uomo, nel benessere e nella condizione di vita occidentale, che tende naturalmente a questa situazione, perché non impegna la mente, o va a sapere cos'altro. Ciò che dispiace non è tanto questa tendenza, quanto il fatto che si crea una situazione di blocco, di censura e di opposizione, anche molto forte, verso tutto ciò che esce dai canoni del modello omologante. E, ancora peggio, l'opposizione non è tanto quella di chi comanda o di chi comunque tiene un certo potere comunicativo, ma proviene dalla gente, da persone non coinvolte, che non hanno nulla da guadagnare in questo assurdo processo. Che le agenzie e le case discografiche abbiano l'interesse a promuovere questo o quel cantante, anche se non possiede tutte le qualità che si richiederebbero in un ambito artistico, è comprensibile, ma che un vasto pubblico si allinei e diventi corresponsabile di queste scelte, innescando anche processi di rimozione verso il bello, il vero, che si trova maggiormente nei cantanti dei decenni scorsi, è piuttosto amareggiante. Per non parlare poi del mondo della didattica vocale, che ha ormai imposto, anche brutalmente, un sistema tecnicistico, meccanicistico, anatomo-fisiologico, andando a rimuovere, realmente, le grandi scuole del passato, pur facendo credere di tenerle in alta considerazione, imponendone lo studio negli istituti di "alta formazione musicale", che sarebbero poi i Conservatori. Cioè, studia la Storia e poi fai tutto il contrario. E' difficile poter credere di poter avere ragione di questa situazione... ma che dico? semplicemente di poter anche solo interloquire, dialogare e poter avere un angolino, uno spazietto riservato, una nicchia. Mah, può darsi, però la vedo molto molto grigia, e non è diverso un po' in tutto il campo musicale, dove si chiacchiera a sazietà ma dove l'arte resta sballottata tra l' "interpretazione", cioè l'arbitrio ammantato di filologia, e il meccanicismo più asettico. Non ci si chiede perché, tra i tanti miti che nascono ogni giorno, e ogni giorno spariscono, non sorgano più i veri e grandi artisti che entrano nella Storia, se non nella leggenda? Anche prendendo ad esempio cantanti che hanno sicuramente molti "debiti" in chiave di imposto e anche di esecuzione musicale, ma perché non viene più fuori un Di Stefano o un Gobbi, ad esempio? Mancano i "talenti", le "voci"? Io dico proprio di no. Può darsi che non ci siano i calibri vocali di un Corelli o di un Siepi, ma io sento che voci importanti ce ne sono. Dunque non è la materia prima che manca, ma le condizioni dalla scuola al percorso teatrale che è fortemente inquinato e impedisce alle doti di esprimersi secondo determinati canoni, diciamo "non più di moda", o di modificarli in chiave attuale. Detto ciò, buon divertimento a tutti con i cantanti che ci ritroviamo ad ascoltare, e il consiglio di evitare di andare a riascoltare, senza pregiudizi, quelli compresi tra il 1900 e il 1970, onde evitare sconfortanti confronti. 

domenica, gennaio 10, 2021

Analisi di "di quella pira"

 La celebre cabaletta "di quella pira" da "il trovatore" di G. Verdi" è uno dei brani operistici più popolari, direi soprattutto per il famoso "do" (detto anche impropriamente 'di petto'), che poi spesso e volentieri è un si! La cabaletta è un brano che segue l'aria (in questo caso "ah sì ben mio") ed ha un carattere estroverso e molto animato, al contrario dell'aria, che ha un carattere introverso e di andamento più lento e melodioso.

Tra l'aria e la cabaletta c'è una sorta di recitativo molto animato tra i personaggi e ha lo scopo di uscire dall'aria e preparare il clima acceso della cabaletta. Non starò qui a ripercorrere la trama dell'opera essendo molto conosciuta. Dirò solo che il protagonista, Manrico - tenore - un trovatore, dopo molte peripezie, mentre si appresta a sposare l'amata Leonora, viene interrotto dal messaggio che gli armigeri del suo avversario, il Conte di Luna, hanno catturato e si apprestano a giustiziare sul rogo la (presunta) madre, Azucena. Al che si muove a capitanare i suoi fidi nella disperata impresa di salvarla. 

La cabaletta è in Do maggiore (non Si o Si bemolle!!) col tempo di tre quarti e l'indicazione Allegro. Una sola battuta d'introduzione, con un acceso ritmo, quindi parte il canto. La scrittura verdiana è alquanto interessante, in quanto apparentemente contraddittoria. Egli infatti usa contemporaneamente legature e segni opposti, quali accenti e staccati. Questo è relativo al momento e alla situazione. Teoricamente le prime sillabe dell'aria, "Di quel-la pi-ra"sono cinque Mi naturali, sull'armonia di tonica (Do). Verdi però fa una cosa tra il madrigalistico e il belcantista, cioè muove di un semitono (fa) il quarto e quinto Mi in una sorta di trillo, che indica l'animo indignato di Manrico, pronto all'azione, considerando anche la giovanissima età. Ripeterà il modello alle frasi successive. Altra cosa da notare è l'accento su "ra", cioè sull'ultima sillaba. E' una cosa contraria alla corretta semantica, ma Verdi ritiene evidentemente che in un momento simile se si seguisse pedissequamente la grammatica, il clima risulterebbe troppo "molle", si toglierebbe quel fuoco, quella grinta necessaria. Ripeterà la prassi in diverse frasi successive! "L'orrendo foco" è una risposta musicale su cinque do (sempre col "trillone"), posta armonicamente sulla tonalità di Fa minore; torna repentinamente a Do sulla frase successiva "tutte le fibre", su tre sol e due fa (qui non mette l'accento sull'ultima sillaba per consentire un miglior legame con la frase successiva "m'arse, avvampò). Sono in tutto otto battute (più quella d'introduzione). A questo punto tutto ricomincia: "Empi spegnetela, ond'io fra poco" sono esattamente identiche alle prime quattro. Però a questo punto compie, per concludere la frase, una variazione. Dopo due Sol, "col sangue", sale per due semitoni, fino al La (in armonia di Sol maggiore, Dominante) "trillone" discendente e ancora dopo tre note discendenti (Fa, Mi e Re) "la spegnerò", torna alla tonalità principale di Do. A questo punto, come capita spesso in arie ma anche cabalette, c'è una sorta di B, cioè una sorta di pausa, in cui il protagonista dopo l'eccitazione iniziale, fa una riflessione: "Era già figlio, prima d'amarti, non può frenarmi il tuo martir". Sono sempre otto battute, ed è costruito esattamente come le seconde otto, ma nella tonalità di Do minore, per dare un tono patetico alla riflessione. La sequenza è anche da eseguire "piano", come da indicazione. Al termine, con una rapida scaletta in Sol, in crescendo, si torna al Do per riprendere il tono concitato dell'inizio. "Madre infelice, corro a salvarti, o teco almen corro a morir". Musicalmente ricalca le seconde otto battute. Di seguito inizia una parentesi (Più vivo) dove, al ripetere delle ultime parole di Manrico, fa eco Leonora, che... non ne può più! ("non reggo a colpi tanto funesti, oh quanto meglio saria morir!), in Do e Fa minore. Praticamente la cabaletta potremmo dire che finisca qui, perché con poche battute, riprende da capo. Dopodiché inizia una fase che possiamo definire "Coda", dove entra il coro. Prima però faccio un'osservazione. La prassi tradizionale, nella prima o nella seconda esecuzione della prima parte (spesso viene omessa la ripetizione) sulla parole "o teco", la scrittura viene variata per interpolare un Do acuto (salvo i soliti indicenti abbassamenti di mezzo tono che riguardano l'intera cabaletta). Dunque, sappiamo che da lungo tempo esiste una prassi, (che sarebbe stata interrotta da Rossini, ma in realtà non è così, perché anche nelle opere di Rossini si è sempre continuato, anche oggi, a variare oltre la scrittura) per cui in alcuni punti delle arie o delle cabalette si eseguono "cadenze", cioè virtuosismi del solista, che naturalmente devono essere in accordo con il momento drammatico del brano e non sono scritte dal compositore, o al massimo viene indicata con delle "notine" una semplicistica soluzione da lui proposta. Nel punto in cui si esegue il Do, non è prevista alcuna cadenza. Il punto più corretto per fare una variazione è all'inizio di quella sorta di parentesi,  subito prima dell'intervento di Leonora, dove, dopo un La acuto, all'inizio di una rapida risoluzione, Verdi indica per Manrico un "a piacere" che termina con una corona. Questo è sempre stato il segnale che il cantante ha un momento di libertà, può variare, con gusto e buon senso. Che a me risulti, non è mai stato fatto. Questo è l'indice della pigrizia e della scarsissima fantasia e capacità esecutiva di direttori (in primo luogo) e cantanti. Il "grande" Riccardo Muti, che si erge sempre a paladino della correttezza esecutiva, e vieta l'esecuzione del Do, cosa che può essere anche giusta, ma perché non ha mai pensato a far variare dove Verdi lo aveva concesso?

Inizia la coda (Poco più vivo), sempre in Do maggiore, il coro ripete le parole guerresche di Manrico, "all'armi, all'armi", anche su una ritmica che distrugge la semantica (all'armì, viene la terza ripetizione, cadendo l'ultima sillaba in battere). Ma è previsto che anche Manrico continui a ripetere in tono declamatorio, acceso (e qui Verdi toglie le legature, lascia solo gli accenti), le sue perorazioni ("madre infelice, ecc."); sedici battute ripetute. Al termine tenore e coro ripetono più volte "all'armi". In fondo Verdi prescrive che sull'ultima A egli si mantenga per due battute e mezzo sul Sol, mentre il coro e l'orchestra passano rapidamente da Sol a Do. Anche qui una cieca e assurda tradizione vuole che il tenore invece salga nuovamente al Do. Se è discutibile quanto si esegue sull' "O teco", questo è decisamente erroneo, perché il Do confligge con i Si e i Re che vengono eseguiti dal coro e dall'orchestra ogni volta che passano all'armonia di Sol. Perché questo fatto non è additato dai tanti musicologi che infestano riviste e libri, nonché radio e tv? Perché queste battute sono così rapide che le dissonanze non si ha tempo di notarle, e così... va tutto bene, i loggionisti sono contenti, i cantanti pure (essendo ormai passata in giudicato anche la trasposizione a Si maggiore dell'intera cabaletta). Quattro battute alquanto concitate chiudono il brano. 

domenica, giugno 07, 2020

Percepire - Vivere

C'è una profonda, straordinaria, differenza tra il percepire e vivere un evento artistico. Ma è difficile anche da spiegare questa differenza, perché molti leggeranno il "vivere" come un partecipare con entusiasmo e passione, muoversi, entusiasmarsi, ma questa è solo la superficie. Certamente può esserci un modo passivo di percepire un concerto o una rappresentazione, ma qui non saremmo neanche nell'anticamera della questione e non basta, per contro, una modalità "attiva", cioè: che significa?. Per altri invece può essere il conoscere (e/o il ricordare) il contenuto. Ad es.: vado ad ascoltare l' "eroica" di Beethoven, che conosco a memoria, oppure, di cui conosco attentamente la partitura, che ho ascoltato in decine di registrazioni e concerti, oppure che non ho mai ascoltato. Le prime esperienze ci possono far credere che queste persone vivranno il concerto e l'ultimo no? No, non è proprio questo, anzi, per certi versi potrebbe essere proprio il contrario. Chi ha ascoltato molte volte un brano, sarà portato a confrontare e a giudicare l'esecuzione ovvero l' "interpretazione", cioè ciò che esula dalla musica. Chi non ha mai ascoltato e si appresta a farlo con atteggiamento curioso, interessato, aperto, avrà buone (e quindi migliori) probabilità di vivere il processo musicale, ovvero essere coinvolto in prima persona. Se io seguo un brano sentendo come viene eseguito pensando: "ora viene questo, ora viene quest'altro, bello qui, qui magnifico, ...." sta semplicemente giustapponendo i pezzi della propria memoria e di ciò che piace, non sta affatto vivendo sinceramente il brano, ovvero fa uno sfoggio di sé (canticchia o gesticola mentre l'esecuzione è in corso) e giudica l'esecuzione ma non perché lui conosce realmente ciò che non va, ma semplicemente confronta con le esecuzioni che conosce, ma che non ha valutato oggettivamente ma soggettivamente, senza criteri. L'abbiamo fatto sicuramente tutti. C'è in tutto questo un colpevole, la registrazione. Se noi potessimo tornare in quell'epoca in cui c'erano solo esecuzioni dal vivo, professionali o meno, noi avremmo molte più possibilità di vivere realmente la musica. Intanto non dovremmo sorbirci orrendi appiattimenti, o effetti stereofonici tanto magniloquenti quanto fastidiosi a volumi eccessivi. E' molto più interessante ascoltare un brano sinfonico eseguito dal vivo da un buon pianista o da una banda o altra formazione anche amatoriale, che da un disco che ripete stancamente sempre la stessa esecuzione, specie se realizzata con mille artifici, che tolgono qualunque spontaneità. Che bello sentire un errore! Gli immacolati cd dove l'errore non ha residenza, sono quanto di meno vivo possa esserci. Ma questo ha fatto sì che nel tempo diventasse l'imperativo: non sbagliare! Già si divinizzava Benedetti Michelangeli perché i suoi errori erano perle rarissime, ma oggi sentire un pianista che sbaglia è veramente quasi miracoloso! Ma in cambio di che? Puro esibizionismo, spettacolarità che non sembra porsi il problema del fare musica. Poi senti pianisti e critici che elogiano Alfred Cortot "che aveva una visione unitaria", ma prendeva anche una sequela di stecche da record, pure nei dischi registrati in studio. Allora cosa conta? l'unitarietà o la precisione? Tutt'e due, si risponderà, però la domanda vera è un'altra: mentre eliminare gli errori di digitazione può essere un'impresa abbordabile, dare l'unitarietà forse non lo è altrettanto, o meglio... come si fa? E mentre il primo obiettivo sembra raggiunto dalla stragrande maggioranza dei pianisti professionisti, dal secondo sembra ci si allontani, o forse non si tenta realmente di avvicinarci. In ogni caso, tornando al titolo, ormai chi si interessa di musica si relaziona per il 90% con mezzi di riproduzione e, ben che vada, al 10% con esecuzioni dal vivo. Il documento registrato di fatto ci porta istantaneamente nel passato. Ciò che ascoltiamo è immutabile, appartiene a qualcosa che ormai non c'è più, per l'appunto, come diceva Celibidache, è una fotografia, con gli stessi problemi, cioè non possiamo relazionarci e non può ricreare lo spazio. Alcuni pensano che l'effetto stereo ricrei lo spazio originale, ma è un'illusione. E in ogni modo come può darci una immagine verosimile un segnale mille volte filtrato e su cui possiamo agire in vari modi, a cominciare dal volume? E come interagisce questa immagine con l'ambiente in cui ascoltiamo? Ma lasciamo perdere anche questo discorso; ciò che conta ed è inconfutabile, è che ciò che è registrato è ormai defunto. Un esecutore modula la sua esecuzione in funzione dell'ambiente e delle condizioni presenti al momento; queste condizioni sono irripetibili, quindi in qualunque altro momento l'esecuzione sarebbe stata diversa. Se io sono presente, posso avere delle probabilità di vivere l'esecuzione nel suo svolgersi, cioè, posso condizionare l'esecuzione. Ciò sembrerà fantascientifico, ma è così. Ciò che noi proviamo si diffonde e può influenzare chi esegue. Eseguire qualsiasi cosa da soli, certi di non essere ascoltati o in presenza di altri, o sapendo che qualcuno ci ascolta, è diverso. Di solito si ritiene che una presenza "ci emozioni", il che è vero, ma cosa significa? Che noi percepiamo delle reazioni alla nostra attività e ci regoliamo di conseguenza. Cosa significa, alla fine, vivere un'esecuzione? Vuol dire seguire il percorso tensivo dall'inizio alla fine secondo il procedimento provato dall'autore. Se questi è riuscito a trasferire sullo spartito il messaggio nella sua unitarietà, diversificato nelle varie articolazioni indispensabili affinché fosse comprensibile (digeribile) da qualunque persona, ed è stato correttamente captato e quindi restituito dall'esecutore, anche lo spettatore potrà rivivere quello stesso stato e quindi relazionarsi con quella realtà spirituale. Se uno dei due, e più probabilmente l'esecutore, non è "entrato" nel messaggio, la mia coscienza ricostruirà ciò che potrà, ma l'unitarietà resterà un sogno, il che è ciò che avviene quasi sempre, però nel rapporto con il suono vivo, questa probabilità c'è, in altre forme comunicative no. 
Ma veniamo al canto dal lato esecutore. Cominciamo a dire che se si inizia a falsificare già dall'inizio, ogni obiettivo artistico sarà pressoché irraggiungibile. Un bravo esecutore potrà farci vivere delle emozioni superficiali, che è quello che la gente cerca, perlopiù (si è meno coinvolti), ma manca il passo al gradino più elevato e di più impegnativa conquista. Quindi per un cantante non solo far comprendere le parole del testo, ma dispensarle con quell'eloquio, quella recitazione che possa portare il significato di ogni singola parola e frase, atto a ricostruire il tutto in uno. Il nostro obiettivo dovrà essere quello di far vivere a chi ci ascolta la situazione descritta dal testo, ma questo è solo l'inizio! (e rendiamoci conto che molto spesso è già questo un dato disatteso). Insieme a questo c'è la musica. L'autore ha sicuramente cercato di dare significato al testo mediante un determinato disegno musicale. L'obiettivo è impossibile nel piccolo, ma può avere buoni risultati in uno spazio più ampio, cioè in un contesto. Noi dobbiamo entrare in questo contesto e cercare di (ri)viverlo, scoprire il percorso dell'autore e quindi realizzarlo vocalmente, insieme al contesto strumentale. E' veramente una meta di straordinaria complessità e difficoltà, ma non ci dobbiamo far intimorire. L'uomo ha creato affinché gli altri uomini comprendessero e rivivessero quell'esperienza. Il lavoro realmente difficile l'ha svolto lui; per l'esecutore il compito è meno gravoso, a patto però di affrontarlo con serenità e assenza di pregiudizio. Ma siccome ormai le esecuzioni sono per oltre il 95% di repertorio, cioè di musica già nota, eliminare il pregiudizio è quasi impossibile. Celibidache l'ha detto più volte: "quando prendo in mano una partitura, qualunque essa sia, la guardo come se fosse la prima volta, e mi lascio incantare da ogni scoperta, come un fanciullo che vede per la prima volta il mare" (ho messo il virgolettato, ma le parole le ho riportate a senso). Allora come fa un cantante a eseguire, tanto per dire, "che gelida manina" o "casta diva" o "il balen del suo sorriso" o "ella giammai m'amò" o "condotta ell'era in ceppi" senza lasciarsi influenzare da questo o quel cantante o dai tanti che le hanno cantate e registrate, rifacendo quelle stesse variazioni, quelle dinamiche, quegli accenti, ecc. ecc.? Bisogna ripulire la mente, tornare fanciulli, e soprattutto non pensare che poi la gente ci giudicherà in base a ciò che abbiamo o non abbiamo fatto. Se la nostra è una pulsione onesta, sincera e dettata da autentico spirito artistico, e non quindi fare il diverso per apparire, saremo vincenti nel tempo, come è sempre accaduto. La tradizione in musica è uno dei peggiori vizi dell'uomo, è la manifestazione della pigrizia mentale e delle facili soddisfazioni. Che bello leggere un'aria su uno spartito e accorgersi che quel rallentando che tutti fanno non esiste e che provando a eseguire come scritto è molto meglio, si rende molto più chiaramente l'idea di quella frase. Oggi molti direttori d'orchestra vanno a riprendere le edizioni originali delle opere, credendo di fare opera "filologica" e di rispetto per l'autore, e invece assai spesso fanno un danno! Riprendono frasi e note cancellate dall'autore stesso che ne aveva colto l'inopportunità, mentre non colgono che spesso nelle loro realizzazioni non si capisce niente perché magari hanno adottato tempi del tutto fuori luogo o perché i cantanti non riescono nemmeno a far comprendere le parole. O come la storia del metronomo! Abbiamo direttori che hanno registrato l'intero ciclo sinfonico beethoveniano con "i diapason di Beethoven". E' la storia più assurda possibile! Come si fa a decidere un tempo di esecuzione a casa propria (magari anche essendo sordi !!!!!), quindi basandoci su una esecuzione al pianoforte o, peggio, nella propria testa!? Cosa può sapere di cosa avverrà con una (o un'altra) orchestra in una determinata (o altra) sala? Come si possono mettere in relazione gli eventi sonori se non ho scelto un tempo che solo in quel posto in quel momento può permettere di raggiungere quell'obiettivo? Se non ci sono le condizioni acustiche sufficienti per relazionare gli eventi (cioè melodie, armonie, dinamiche, fraseggi...), vivere l'evento è impossibile, sarà una pura mostra di note, pressoché senza senso. 

martedì, maggio 26, 2020

L'elenco telefonico

E' d'uso, specie nel mondo teatrale, usare la metafora: "non stai recitando l'elenco telefonico" per dire che c'è monotonia, mancanza di colore, e di senso. Si potrebbe anche dire: non stai recitando la tabellina del cinque! In effetti una gran parte dei cantanti, anche importanti, celebri, e persino tra quelli storici, la recitazione quasi non conta, si limitano a cantare le note e le parole. Quando si dice pronuncia bene, sembra che il compito sia finito. A parte che per moltissimi pronunciare è dire le parole, che, grossomodo, si comprendano, spesso dovendo anche fare dei compromessi con la "tecnica". C'è un'aria che a me è sempre piaciuta molto: "infelice e tuo credevi", cantata dal basso, Silva, nell'Ernani di Verdi. Un giorno ascoltai un basso, che mi lasciò di stucco. Una vocetta fissa e incolore. Sentii anche dei commentatori radiofonici dileggiarlo. Va bene, forse la vocalità poteva essere migliore, però c'era un fatto capitale: in quell'esposizione si sentiva Silva! cioè un vecchio fragile, se pur nobile e pieno d'orgoglio, a cui era appena cascato il mondo sotto i piedi; credeva di poter amare una fanciulla giovane e illibata, ma improvvisamente si accorge che non ha speranze e torna a contarsi gli anni e dover vivere solo col suo orgoglio e poi con la sua sete di vendetta. Quale basso può cantare con la stessa sincerità questo testo, con la musica sublime di Verdi? Tutti presi a far sentire un vocione, la "cavata"... Sicuramente ci prova Christoff e Chialiapin ci va anche un po' più vicino, Pinza è molto bravo, ma nessuno rinuncia a mettere una bella massa di suono e di colore. Non fanno male Lawrence Tibbett e Marcel Journet, ma in ogni modo siamo ancora piuttosto lontani dal vero. Cantare un'aria come questa vuol dire davvero avere un'umiltà infinita e aver messo del tutto a tacere la voce dell'ego. Impresa quasi impossibile. Chi canta opera in primo luogo pensa alla voce, a far sentire la voce, a far sentire quanta ne ha, poi come sa ben cantare, che begli acuti ha, che bei bassi ha. Poi, magari, anche che sa pronunciare e magari che sa fare piani e forti. Per molti cantare bene quest'aria significa al massimo cantarla un po' piano, ma quanta intenzione c'è nelle parole. Poca, anche pochissima. Qualcuno per cantar piano arrotonda tutto fino a far diventare "unfuluce, e tuu crodovu". Comunque, non volevo soffermarmi su quest'aria, ma solo a prenderla ad esempio di un problema gigantesco, che coinvolge vocalità e spiritualità. Noi possiamo cantare benissimo ma se davanti a tutto ci siamo noi, non si arriverà mai alla musica, al teatro, e alla verità. Verdi voleva la parola scenica. Ecco qua. Povero Verdi, illuso utopista. Non sapeva con chi aveva a che fare, e fu ancora fortunato da avere alcuni cantanti realmente meravigliosi, figuriamoci se avesse sentito ancora i cantanti successivi... beh, probabilmente avrebbe fatto come Rossini, si sarebbe fermato a metà e avrebbe continuato a gestire il podere di Sant'Agata.

venerdì, aprile 24, 2020

Il vero "forte"

Come dovrebbe sapere ogni musicista, la migliore sonorità è quella che scatena la più ampia ricchezza, ovvero che produce e diffonde la più alta percentuale di armonici. Come si ottengono gli armonici? facendo sì che il mezzo che produce il suono (corde, aria in tubi, pelli...) sia libero, una volta che ha prodotto il suono fondamentale, di dividersi e dar vita quindi agli armonici. Cosa succede se chi suona non sa graduare la forza e preme più del dovuto (ad es. "pesta" sul pianoforte; schiaccia l'arco sulle corde di violino, viola, violoncello, contrabbasso; soffia troppo forte nello strumento a fiato, tira mazzate sul timpano)? che si avrà qualcosa di molto forte, ma sgradevole e molto accentrato, cioè la forza si esaurirà in uno spazio limitato. Per motivi acustici, gli armonici hanno la capacità di viaggiare velocemente e di diffondersi in ampi spazi, questo soprattutto perché hanno frequenze elevate. Quindi se il musicista imprime eccessiva forza, il risultato sarà sì un suono forte, ma molto povero di armonici, per cui il suono si diffonderà poco, e quindi a una certa distanza non darà più l'impressione di un suono veramente molto forte, ma in compenso quell'eccesso di pressione o percussione darà luogo a dei rumori concomitanti che renderanno tanto più sgradevoli i suoni quanto maggiore sarà la violenza indotta. Possiamo dire che nella scala dinamica c'è la possibilità di una crescita costante fino a un certo limite, dopodiché si entra in una sorta di "intercapedine" in cui aumenta la forza ma diminuiscono gli armonici e aumenta il "rumore" di fondo, per cui non possiamo più definire il risultato un vero forte, ma un suono sguaiato, fastidioso, amusicale. La situazione nel canto è sostanzialmente la stessa, persino un po' più sensibile. Se il fiato, nell'uscire, preme troppo sulle corde vocali, oltre a non consentire l'emissione di tutti gli armonici potenzialmente possibili, creerà interferenze sonore da parte degli altri componenti la laringe e l'apparato in genere; inoltre, come è noto a chi segue questa scuola e/o questo blog, susciterà reazioni proporzionate da parte del diaframma (istinto) che, sollevandosi o perlomeno esercitando pressione verso l'alto, aumenterà ulteriormente la forza sulla laringe oltre a quella già immessa volontariamente dal cantante. Il risultato sarà una voce gridata (anche nei suoni centrali), monotona, sgradevole o che potrà risultare gradevole a chi si lascia suggestionare dai suoni fini a sé stessi, pletorici e limitati nell'espansione ambientale (dato questo che risulta annullato nelle registrazioni o con l'amplificazione elettronica). Questo aspetto è poco o nulla controllabile se l'emissione resta in gran parte all'interno degli apparati, mentre risulterà meglio risolvibile con un'emissione veramente esterna, dove può trovare sfogo. Però la soluzione nasce dal riuscire a governare il fiato, cioè non spingere e ridurre la reazione diaframmatica/istintiva (che vuol dire in primo luogo "non spingere"!), quindi imparare a cantare piano e pianissimo, cioè lasciare che sia unicamente il fiato a produrre il suono, aggiungendo la pronuncia, esterna, come sulla punta del fiato.
Devo però dire qualcosa anche sul piano. Perché alcuni cantanti riescono a fare filature, piani e pianissimi di grande suggestione, che si sentono benissimo anche in grandi teatri? Ricordo molto bene un finale di Otello da parte di Renata Scotto con alcune note emesse pianissimo di grande sonorità, davvero entusiasmanti. Il problema è sempre lo stesso ma capovolto, cioè lo strumentista, o il cantante, dovranno poter apportare un'energia al mezzo di produzione affinché possa emettere ancora molti armonici (che "corrono") e non rischi di diventare un suono "fisso", inconsistente, poco sonoro. Per il cantante si tratta di FIDARSI del proprio fiato (leggevo che il bravo tenore Cesare Valletti parlava proprio di questo in un'intervista, purtroppo in inglese). Se la produzione avviene in purezza, cioè senza apportare pressioni e spinte fisiche, il minimo suono potrà essere ancora bello e sonoro. Come sanno un po' tutti gli strumentisti, il pianissimo sonoro è "appoggiato", cioè prodotto mediante un peso gravitazionale, rilassato, e non aiutato da spinte e pressioni indebite. In fondo è un po' la stessa cosa per tutti, anche se lo strumentista ha un po' meno preoccupazioni inerenti le reazioni istintive. Nell'uomo, relativamente al canto, l'appoggio è naturale (il fiato o meglio, i polmoni, per semplice forza di gravità poggiano sul diaframma). Produrre ulteriore pressione con l'idea di appoggiare di più, è un grave errore, perché invece di migliorare la situazione, la si compromette sviluppando più reazione, e quindi il cantante passa più tempo a cercare di risolvere i problemi causati proprio da questo (ma ignorandolo) che a raffinare la propria voce e migliorare l'apporto musicale. Nel piano e soprattutto pianissimo il cantante esemplare riesce, anche nei suoni centrali e persino in alcuni centro-gravi, a utilizzare in alta percentuale, la corda sottile, che produce armonici elevati ma una voce più chiara e meno rimbombante (avendo meno risonanze toraciche), ideale quindi per questo tipo di dinamica, ed ecco anche perché per le donne è congeniale, cantando in questa modalità per gran parte della propria gamma, ma, come disse genialmente Antonio Cotogni, anche per gli uomini questa possibilità esiste ed è fondamentale poterla e saperla dominare.

domenica, aprile 19, 2020

"Non sembrava recitasse"

Mi ha colpito questa frase pronunciata da un'attrice nei confronti di un importante collega: "non sembrava recitasse". Ho amato il teatro fin da bambino; negli anni 60 la televisione trasmetteva spesso commedie e drammi con importanti attori, e io, nonostante la tenera età, me li guardavo tutti con grande interesse. Ho quindi maturato una certa capacità di riconoscere gli attori davvero straordinari da quelli bravi, ma magari non proprio perfetti. Sono quelli che potremmo dire che recitano in modo "impostato". Qual è la finalità fondamentale di un attore? Portarci dentro la storia, farci vivere come se fossimo anche noi coinvolti, farci divertire o piangere, ecc. ecc. Rispetto a un melodramma, un'opera in prosa ha la caratteristica di avere solo il testo, per cui attori e registi devono sondarlo a fondo per poi farlo rivivere in scena per il pubblico. L'opera ha un dato in più, cioè il compositore si è interposto tra l'autore del testo e l'esecutore, dando una sua visione drammaturgica dell'azione. Ci sarebbe anche un altro elemento, cioè il libretto, che è una riduzione, rispetto al testo originale, ed è in forma "ritmica", cioè poetica. Questi sono elementi in parte rafforzanti e in parte smorzanti il prodotto originale. Certamente una storia interessante ma magari non particolarmente pregevole sul piano letterario, può diventare un'opera di molto maggior valore (infatti è improbabile che drammi come "il trovatore" o "la forza del destino", tanto per fare due esempi a caso, sarebbero noti, se non ci fossero state le opere?. Ben diversa la questione su testi importanti quali le opere di Shakespeare o Dumas, anche qui facendo esempi casuali. Questo per introdurre l'argomento, cioè così come un attore geniale, di straordinaria bravura, riesce a recitare, quindi a impersonare, i più differenti personaggi del teatro di prosa, passando anche da ruoli umoristici ad altri seri, drammatici, cosa dovrà fare il cantante-attore esemplare? Cominciamo col dire che è e deve essere anch'egli attore; se guardate le recensioni degli spettacoli operistici nel primo Ottocento, vedrete che frequentemente i cantanti vengono definiti attori, ingenerando persino qualche dubbio al primo sguardo, se stiamo leggendo il resoconto di un'opera lirica o di una commedia. Questo sarà più evidente naturalmente durante la rappresentazione teatrale dal vivo, perché l'attore (cantante o meno) dovrà mettere in forte relazione l'azione mimica con quella testuale; il cantante dovrà tener conto, in aggiunta, dell'apporto musicale. Ora, la differenza sostanziale tra l'attore e il cantante è ovviamente il fatto che l'attore, per "non sembrar recitare", si comporterà come una persona che si trovasse in quella situazione, cioè c'è una forte naturalezza nel suo atteggiamento e nel modo di esternare e di muoversi. Il cantante non è propriamente nella stessa situazione, perché nessuno canta in quelle situazioni (erano o sono le banali critiche che si facevano all'opera), quindi un fondo di "innaturalità" c'è per forza. Qual è la condizione che può portare lo spettatore o il critico o il collega a rimanere stupefatto da una mirabile prestazione? Tantissimi anni fa io sentii cantare un baritono, Piero Francia, che mi lasciava un po' dubbioso ma molto interessato. Quando cantava mi pareva che non facesse "le note", cioè sentivo il testo ma pareva che non cantasse veramente, pur realmente seguendo la musica. Mi lasciava molto perplesso ma allo stesso tempo ammirato. Scoprii poi (purtroppo è mancato prematuramente) che era stato compagno di studi in una scuola di canto con il mio maestro, e questo mi confortò. Evidentemente negli anni della Guerra e dell'immediato dopoguerra esistevano alcune scuole che riuscivano a portare i cantanti a recitar cantando. Ecco qua... c'è un'indagine storica secondo la quale il teatro antico era sempre cantato; solo in tempi più recenti, diciamo da quando nacque il melodramma, si è operata una scissione tra il teatro d'opera e quello di prosa puramente recitato. Come sappiamo nel tardo Rinascimento con l'Umanesimo si è tentata la strada dell'unificazione delle Arti, mettendo insieme testo, musica, recitazione scenica, pittura e scultura scenografica nonché, indirettamente, filosofia. Erano attori i primi cantanti d'opera, poi la complessità della scrittura necessitò di studi più approfonditi per cui le carriere si divisero. Quel primo modo di cantare si chiamò "recitar cantando"; non v'è alcuna ragione per cui quell'immagine non debba essere più valida oggi. Il dato fondamentale, comunque, resta quello di un' "impostazione" che risulta artificiosa, sovrapposta, esibita, caricata. Oggi credo sia pressoché impossibile ascoltare dal vivo un cantante davvero "naturale", cioè che riesce a far vivere il testo e la musica in modo "trasparente", non facendo pesare la propria intermediazione, Questo anche per colpa di un pubblico impreparato, per cui non conta che il cantante faccia sentire la musica del compositore e il testo e la storia, basta che faccia, magari anche in modo sfacciato, iperesibito, sentire la "voce", bella e/o potente, l'acuto, non importa se scritto o meno, non importa se di corretta altezza o abbassato, se con le giuste dinamiche, i corretti accenti, legature, ecc. A tutti piace esclamare a gran voce: amo Verdi, amo Puccini, mi piace da morire Rossini o Bellini... ma non solo accettano tagli e aggiunte, ma si lamentano pure se quel cantante non fa quell'acuto "di tradizione" o fa un pianissimo scritto che però toglie la suggestione dell'acuto stentoreo. Il grande cantante è quello che ti fa dire: "Ah, senti qui come il compositore è riuscito a far vivere questo momento". In quell'istante non sai più chi canta, chi dirige, chi ha fatto la regia, le scene e i costumi, ti senti dentro la storia e vivi la situazione dei protagonisti; non ti interessa più se fanno o non faranno quella determinata nota; se tutto è correlato, coerente, unificato, si vive la magia del teatro, la verità dell'azione. C'è un termine per raggiungere questa sintesi? Sì: semplicità ("cara semplicità, quanto mi piaci", dice don Alfonso nel Così fan tutte). I cantanti oggigiorno si preoccupano della tecnica, cioè dell'impostazione, che già di per sé è un'immagine fuorviante, e di "interpretare", che spesso vuol dire sovrapporre, esagerare. Mi sovviene un aneddoto di Tito Schipa, in una delle prime recite in cui affrontava il ruolo di Werther, che come è noto diventò la sua opera prediletta, in cui lo stesso Gigli riconobbe non avere rivali. Ebbene quando stava per affrontare una pagina clou, e voleva portarsi al proscenio e cantarla come si faceva un tempo, in modo molto esibito, rimase con la manica del costume attaccato a un chiodo, e non poté muoversi per tutta la durata del brano. Alla fine venne giù il teatro, e gli amici lo riempirono di elogi per quella recitazione così semplice, che dava molto di più il senso del momento. E per lui fu una grande lezione. Come ripeto sempre: TOGLIERE! occorre semplificare, scremare tutto ciò che il nostro ego ci suggerisce per dare importanza a un'aria, una parte, un'opera. Partire dalla massima economia di mezzi; successivamente si sarà sempre a tempo a aggiungere qualcosa; viceversa risulterà sempre molto più difficile intervenire dopo a eliminare, perché ci parrà troppo riduttivo. Se invece partiamo dal poco, ci renderemo meglio conto che ogni granello che aggiungiamo potrà già essere di troppo. E' come mettere il sale nella minestra!

mercoledì, aprile 08, 2020

Il respiro musicale

Esiste, ed è importante, anche un altro respiro, oltre a quello fisiologico e quello artistico-vocale, e possiamo definirlo musicale, e riguarda chiunque voglia far musica; intendo dire che non è sempre necessario utilizzare il fiato per suonare o cantare, come può essere un pianista. Ma anche chi lo utilizza, e quindi con una difficoltà in più, deve saperlo utilizzare e tenerne conto. A cosa fa riferimento questo respiro? Potremmo dire, sommariamente, al fraseggio. Quindi per chi canta c'è da considerare la necessità inspiratoria da mettere in relazione con il fraseggio musicale. In genere i compositori, soprattutto d'opera, ne hanno tenuto conto scrivendo, ma non sempre e non sempre opportunamente. Ci sono ruoli notoriamente "stroncanti" per chi non ha capacità polmonari notevoli. Però assistiamo troppo frequentemente a modi di cantare del tutto incuranti dei fiati musicali. E' invece molto importante farsi, nel corso dello studio, una mappa dei respiri, innanzitutto testuali, quindi basati sulla scansione del testo. In linea di massima la regola è che si respira quando ci sono segni di punteggiatura, ma questo a volte non è un criterio sufficiente. Al secondo livello si osserva il fraseggio musicale, quindi come il compositore ha sistemato le legature e le eventuali ripetizioni. Il discorso tensivo cui ho accennato nel post precedente riguarda anche il testo. Se il compositore è particolarmente attento, riesce a combinare efficacemente i due "fili", per cui all'innalzarsi o abbassarsi della tensione testuale corrisponderà l'analogo movimento nella musica. Il compositore, poi, utilizzerà anche ripetizioni o reiterazioni di parole o frasi proprio per giocare più opportunamente con la tensione. Capita che, onde evitare prese di fiato fuori luogo il compositore indichi con una sorta di virgola il punto in cui respirare, ma non è detto che i cantanti ne tengano conto. Molto spesso le prese di fiato, invece di essere tranquille e silenziose, vengono rese rapide e rumorose a scopo espressivo. Il caso più emblematico riguarda "Vissi d'arte" dalla Tosca, dove Puccini indica con molto scrupolo i fraseggi e i fiati, e regolarmente vengono disattesi! Come si può vedere dal ritaglio, dopo il primo "perché", Puccini indica un primo respiro, sempre rispettato, dopodiché con un segno di legatura, indica che "perché - Si-gnor" venga cantato su un unico fiato, al termine del quale c'è un secondo fiato, prima di "ah". Tra l'altro faccio notare che la sillaba "Si-" di Signor cadrebbe sul fa, e, a maggior sostegno della usa idea, aggiunge una seconda legatura tra il fa e il re, prima del si bemolle acuto. Cosa si fa invece di solito? Dopo il primo "perché", e il primo respiro, si allunga la "é" del secondo "perché" fino sul fa (su cui si dovrebbe invece già dire "Si-", dopodiché si spezzano ben due legature, si prende un secondo fiato, non previsto, si mette il "Si-" sul re e si lancia il Sib acuto, ma, avendo già preso un fiato supplementare, si omette anche la seconda indicazione di Puccini del fiato prima di "ah" (giustificato dalla virgola), e si legano "-gnor" e "ah"; tra l'altro l'"ha" viene quasi sempre fatto piano o pianissimo (se la cantante è in grado), quando invece lo spartito non prevede questo, ma solo un diminuendo in orchestra. Questa ormai è una prassi tradizionale che maggiormente viene seguita. Bisogna riconoscere che alla Scala, visto che si è voluta riportare la Tosca alla sua edizione più che originale (inserendo anche tagli operati dallo stesso Puccini), la Netrebko ha eseguito l'aria come è scritta. Su questo tema si potrebbero fare milioni di esempi nel bene e nel male, in ogni modo invito gli ascoltatori, anche digiuni di musica, a valutare durante un ascolto se il cantante prende i fiati in modo corretto, cioè evitando di spezzare parole e frasi, e silenziosamente, che è anche un importante criterio vocale.

venerdì, aprile 03, 2020

Un passo avanti

Abbiamo visto che gli strumenti più utilizzati dai compositori sono la ripetizione e l'imitazione. Come questo ci deve interessare in quanto esecutori e ascoltatori? Partiamo però dal perché il compositore li usa. Tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, i compositori si resero conto che praticamente la musica per diversi secoli si era basata su determinati criteri, uno dei quali era la ripetizione. Si volle dare un colpo di spugna a tutto ciò cercando di instaurare un nuovo linguaggio della musica. Ora, questo modo di procedere, fin dal Medioevo, se non prima, era stato "inventato" da qualcuno? No, la musica nasceva in base a ciò che suscitava, quasi sempre legata a un testo, soprattutto sacro. Dall'esecuzione si traevano anche delle conclusioni su ciò che "funzionava" e ciò che si poteva cambiare. Così nacque il sistema detto "tonale", prima soprattutto nei monasteri, chiese e conventi, poi nelle corti. Quindi scoperte e intuizioni. Pensare di fare tabula rasa di un sistema millenario solo per cambiare, senza avere un sistema alternativo che fosse nato dall'uomo stesso, ma imposto intellettualmente, è stato un vero fallimento. Come ho spiegato nei post precedenti, il tema è un modo per riconoscersi, e la ripetizione, o anche l'imitazione, è un modo per confrontarsi con sé stessi e con gli altri. Togliere questi elementi vuol dire snaturare la musica, svuotarla e renderla incomprensibile. Ma questo è un discorso a parte che non è il caso che svisceri in questa sede.
Qual è il compito del compositore? Ideare un discorso di senso compiuto che abbia un inizio, una fine, un punto massimo. Per invogliare i fruitori, dopo l'inizio, ad ascoltare tutto ciò che segue fino al fondo, egli deve utilizzare determinati mezzi, ma cosa deve seguire per capire se sta seguendo la pista giusta? Si dirà il suo estro, l'ispirazione... Certo, le sue capacità creative sono importanti, ma di fatto dovrà seguire in ogni caso un filo che colleghi ogni punto del brano all'inizio, alla fine e al punto massimo. Questo filo, come già detto, si chiama TENSIONE. E' come avere un termometro che misura il calore, quindi la vita, del brano (anche il calore è una vibrazione). Se il calore è troppo basso, il brano muore, se è troppo alto per troppo tempo lo uccide. E' quindi un tenere sotto controllo questo dato in modo che sia adeguato a ogni fruitore (ed è anche il "filo" che dovrebbero seguire gli esecutori). Se il brano ha dimensioni molto ampie, sarà molto più difficile da dosare, mentre su brani brevi e brevissimi sarà più semplice. Per la verità nessuno ci pensa; la nostra coscienza riesce a rilevare ciò che serve da un brano brevissimo, non avrà il tempo di annoiarsi, però, per esemplificare, vi indico il tragitto in un brano superbreve, cui già avevo fatto cenno all'inizio di questo piccolo trattato: "tanti auguri a te".
Questo microbrano, inizia con un temino, "tan-ti_au-gu-ri", che definiamo "impatto", e una risoluzione "a te"; siccome non finisce subito, e bisogna accorgersene, questa prima risoluzione resta sospesa, non è concludente, è instabile. Infatti c'è una seconda proposta (chiamiamolo anche secondo tentativo), che inizia in modo identico al primo, quindi RIPETE: "tan-ti_au-gu-ri", altro impatto, e seconda risoluzione, sempre "a te", su due note più alte, quindi più ATTIVE, in quanto più le note sono alte più vibrano, hanno un maggior numero di vibrazioni (Herz). Questa seconda risoluzione non resta sospesa, però non ha nemmeno un carattere conclusivo, lascia comprendere che manca ancora qualcosa, mantiene un carattere debolmente instabile. E il qualcosa è il punto massimo. Terza proposta, o tentativo, questa volta riuscito, ancora ripetizione della cellula iniziale "tan-ti_au-" che però non termina come nelle prime due, ma compie subito uno spettacolare salto di ottava [cioè è la stessa nota di "tan-ti_au" ma con il doppio delle vibrazioni], che introduce l'elemento fondamentale del brano, cioè nominare la persona a cui sono rivolti gli auguri. Ovviamente qui sta il punto massimo, e ciò che segue, ripetendo ancora "tan-ti_au-gu-ri" con una imitazione solo più del ritmo, è una cadenza conclusiva, che possiamo definire una "catarsi" della tensione e una ritrovata stabilità. Ora, il brano è scritto talmente bene, che l'esecuzione non ha quasi nessuna necessità di essere compresa tensivamente, perché gli elementi proseguono parallelamente. Dopo l'inizio, che è basato su due note ravvicinate, c'è un piccolo salto, che già imprime un po' di tensione, e il fatto che cada su una nota "sospensiva", crea attesa sulla prosecuzione; a voler essere pignoli, la seconda ripetizione dovrebbe eseguita (proprio perché ripete pedestremente) con una dinamica leggermente più accentuata [la dinamica riguarda le intensità, quindi... piano e forte]. Ma qui veniamo tolti d'impaccio dal salto successivo che è più alto del primo, quindi c'è automaticamente più tensione e più dinamica, stessa condizione riguarda la terza cellula, che non è poi ripetuta in modo calligrafico, ma è un po' accorciata per arrivare al clou. Al salto d'ottava, come è giusto che sia, si succedono sul nome del festeggiato, diversi intervalli discendenti (la tensione si sta già abbassando), ma per non concludere troppo rapidamente, c'è l'ultima definitiva risoluzione che prende ancora un po' di tensione dal piccolo salto in alto ("tan-ti_au-gu-ri") per poi nuovamente discendere, piccolo accento ("a") e conclusione sulla nota fondamentale sul "te". Per una spiegazione più completa dovrei anche parlare dell'armonia, ma non voglio essere ridondante.
Ora pensate a tanti brani che iniziano con una serie di ripetizioni: la sinfonia 40 di Mozart, moltissime composizioni di Vivaldi, come il Gloria... la Quinta di Beethoven, ma l'elenco è infinito... Come si deve comportare l'esecutore? Il problema sta nel fatto che molti esecutori non si pongono minimamente il problema, le fanno tutte uguali! Uccidendo di fatto il brano stesso. Altri si pongono il problema ma lo risolvono in modo meccanico, specie nella musica più antica: una forte, una piano! (giustificando che la seconda è una eco) (questo si trova anche sugli spartiti "revisionati"). Anche questo è un modo per uccidere la musica, perché un procedimento meccanico è, per l'appunto, non umano, quindi porta al disinteresse. Se non si comprende che ciò che fa vivere il brano è la tensione, la soluzione non arriva. Qual è il rapporto tra tensione e dinamica? Anche per questo non c'è una formuletta risolutiva, ma ci si può arrivare. In una ripetizione testuale, la tensione sale o scende? ovviamente scende, perché non c'è alcun contrasto, quindi per compensare la minor tensione, è necessario aumentare l'intensità. Quando ci avviciniamo al punto massimo (che, ripeto per consolidare il concetto, è il punto di MASSIMA TENSIONE), in linea di massima tensione e dinamica andranno di pari passo, cioè aumenteranno, tranne che in alcuni casi in cui il compositore ha voluto esasperare a tal punto la tensione da minimizzare l'intensità, cioè fare un "pianissimo" (succede nel "Laudate Dominum" di Mozart), o addirittura azzerare la musica, con una pausa, che ha un grandissimo effetto, come succede nel "Valse triste" di Sibelius o nella Prima Sinfonia di Brahms, quarto movimento. Però occorre precisare che queste decisioni, vanno prese durante le prove, le decisioni a tavolino possono essere sempre erronee. La musica va vissuta! E l'ascoltatore? Ovviamente ora sa che deve tenere sotto controllo le ripetizioni, sia minimali che di più ampio respiro, e deve sentire cosa fa l'esecutore, strumentista o direttore o cantante che sia, per far vivere la corretta tensione del brano, quindi le varia? e se sì, come? Vedete che adesso vi potete avvicinare a un ascolto un po' più consapevole.

giovedì, aprile 02, 2020

La ripetizione

In tutta la Storia della musica, i compositori si sono avvalsi, nelle loro composizioni, di ripetizioni e imitazioni. Sono fondamentali nel processo compositivo, perché chi ascolta ha la possibilità, molto semplice, di riconoscere continuativamente, più o meno coscientemente, gli elementi costitutivi, diciamo i mattoni, della composizione. Non è così facile come può sembrare, perché la ripetizione di per sé annoia, per cui l'autore deve trovare molti escamotage per utilizzarle senza far scemare l'interesse, la continuità. Questi procedimenti fanno parte dell'arte del comporre. Pensiamo alla celeberrima Quinta Sinfonia di L. v. Beethoven, dove il famoso tema "del destino", che conoscono anche i bambini, nel corso del primo movimento viene ripetuto centinaia di volte, eppure credo che nessuno si sia mai annoiato all'ascolto. Ma non solo! Lo stesso tema, con qualche minima variazione si ritrova anche nel secondo e terzo movimento (e, con piccole variazioni, anche da Gustav Mahler nella sua quinta sinfonia). La pratica dell'imitazione, che è una ripetizione ma non sulle stesse note, era già presente anticamente. La "fuga", ad es., è una forma musicale dove un tema viene proposto da diverse voci ad altezze diverse, ma ancor più attinente è il "canone" (pensate a Fra Martino) dove un intero brano viene ripetuto, mentre procede la prima esposizione, dopo un certo tempo da un'altra voce, a volte anche da due o tre... Queste forme, semplici ma non facili da elaborare, sono alla base anche di composizioni molto importanti e complesse. Verdi nell'ultima parte della sua vita scoprì l'importanza delle forme antiche, e le studiò e applicò con molta meticolosità, utilizzandole poi in alcuni suoi lavori importanti: nel Requiem, ad es., ma persino nel Falstaff. Anton Bruckner, uno degli ultimi grandi sinfonisti, era un cultore e grande conoscitore degli stili e delle forme antiche, e le applicò sempre ai suoi lavori, nonostante sia considerato un grande innovatore, per le arditezze della sua scrittura.
Ma veniamo all'opera. Facciamo un esempio di utilizzo di ripetizioni e imitazioni, e come questo ci possa interessare. Prendiamo ad es. la celebre "pira" del Trovatore. L'aria inizia con tre note ripetute (di-quel-la) seguite da una sorta di tremolo (pi-i-i-i-ra), sempre che il cantante sia in grado di farlo; moltissimi lo evitano, senza che questo abbia mai scatenato il doveroso scandalo, anzi... basta che abbia fatto un discreto acuto (magari neanche quello previsto). Il compositore utilizza questo espediente per trasmettere la rabbia, l'indignazione di Manrico per ciò che sta accadendo alla madre. Subito dopo, questa frase viene ripetuta alcune note più in basso (l'or-ren-do--fo-o-o-o-co), non finisce qui, perché c'è una terza ripetizione-initazione, questa volta più in alto (tut-te-le--fi-i-i-i-bre), e poi per chiudere Verdi compie una variazione, non ripetendo banalmente le tre note, ma "trillandole" (m'a-a-a-ar-se_av-) e chiudendo (vam-pò). Quest'ultima frase è quasi speculare, infatti mentre nelle prime tre fa tre note fisse e poi una specie di tremolo, qui inverte, fa prima il tremolo e poi le note ferme (ma che non può tenere uguali perché necessita di risolvere armonicamente). Cosa succede a questo punto? Ci si potrebbe non credere, ma Verdi ripete tutto da capo!! "Empi spegnetela, o ch'io tra poco", modificando solo parzialmente la seconda parte "col sangue vostro" per dare un tono più acceso all'invettiva, e poi nuovamente chiudere "la spegnerò". Quindi abbiamo visto già quante ripetizioni o imitazioni sono state utilizzate. Si può pensare che abbia finito? Niente affatto! Siccome il testo entra in una fase più intimistica, dopo lo sdegno iniziale, "era già figlio, prima d'amarti", Verdi semplicemente utilizza lo stesso tema ma in una modalità "minore" [non posso spiegare tecnicamente cosa significhi, ma basta ascoltarlo per capirlo facilmente] dopodiché, per fare un collegamento con la frase successiva, compie ancora una piccola variazione, cioè utilizza il tema, ma invece di tenere fisse le tre prime note, le muove in una scaletta discendente ("non può frenarmi il tuo martir"), ma mantenendo sempre il tremolo nella seconda parte. Che dite, sarà ora di cambiare? Manco per niente! Con una brusca impennata dell'orchestra ritorniamo da capo! "Madre infelice, corro a salvarti, o teco almeno corro a morir". Nella seconda frase ("o teco almeno") c'è ancora una piccola variazione, la terza nota sale e le note tremolate vengono eseguite più in alto, dopodiché solita chiusura, che però dà il "la" a un movimento cadenzato dove viene ripetuta l'ultima frase, sempre con tono irato, e si introduce l'intervento del coro con le frasi spezzate di Manrico che ripete quasi come un singhiozzo le sue invettive. Non si creda però che tutto sia cambiato: le frasi pronunciate dal tenore, sono sempre le tre note fisse ("madre infelice", "corro a sal-", "corro a mo-"), e il tutto viene ripetuto due volte. Ma mica è finita!!! Secondo la scrittura originale, a questo punto l'intera aria deve essere ripetuta da capo. Per uso non tanto di tradizione, quanto di buon senso musicale, nella seconda esecuzione è corretto che il protagonista esegua qualche variazione, proprio perché il ripetere pedestremente può essere noioso e mortificante, ma le variazioni dovrebbero essere studiate e prodotte con criteri musicali e teatrali; questo succedeva nel 600 da parte dei bravissimi cantori castrati, un po' meno nel 700, quando le variazioni in mano soprattutto alle prime donne, diventavano mere palestre di virtuosismi fini a sé stessi, per cui fu d'obbligo una prima riforma (Gluck) e poi la decisione di Rossini di scriverle lui. Nonostante ciò si è continuato a lungo a modificare anche profondamente gli spartiti con abbellimenti non sempre adeguati. In ogni modo, la piccola variazione che viene fatta nella ripetizione della Pira, è il famoso "do" dell' "o teco", che sempre più spesso è un Si, se non addirittura un Si bemolle. Il fatto che non sia scritto, è una sciocchezza; come ripeto, però occorre precisare: ha senso se l'aria viene ripetuta, se, come spesso avviene, questa cabaletta viene eseguita solo una volta, non ha senso il do, perché non varia niente; in secondo luogo è assurdo che tutto il brano venga abbassato di mezzo tono (o addirittura un tono) per consentire al tenore "corto" di fare una nota non scritta. Si inventi una variazione diversa, se non ha il do! Ecco, quindi vi ho dato un piccolo assaggio di un'analisi musicale per far conoscere a chiunque anche che non sappia nulla di musica, uno degli strumenti del compositore. Ora potete ascoltare altri brani e provate a sentire quanto e dove il compositore utilizza le ripetizioni e le imitazioni,  in quale modo, in che quantità. La musica è scritta per tutti, non solo per i musicisti, e quindi tutti possono comprenderla, ci vuole solo un pochino di interesse e magari un po' di semplici nozioni, però ci vuole qualcuno che le dia, mentre a scuola ste cose non le dicono, manco nei conservatori (che ormai non ci sono praticamente più!). Ho omesso la cosa più importante: come, una volta riconosciute questi elementi, l'esecutore debba utilizzarle, e quindi come l'ascoltatore possa valutare l'esecuzione. Di questo, forse, scriverò in seguito.

Aggiungo a posteriori un piccolo inciso sempre relativo alla "pira"; se il do dell' "o teco" può essere giustificato come variazione, a patto che il brano sia mantenuto in Do maggiore e sia svolto nel da capo, non trova invece alcuna giustificazione il do finale sull' "all'armi", che deve essere mantenuto sul sol. Infatti il finale non si mantiene costantemente sull'accordo di Do maggiore, ma nella prima battuta cambia continuamente da Do a Sol (dominante), e nell'accordo di Sol il do non c'entra, è una dissonanza ingiustificata.

martedì, marzo 31, 2020

"Questa non è musica"

Faccio una pausa nell'infinita sequenza di post sull'arte del canto per dedicarmi a un tema più generale, ma non meno importante, cioè "la Musica".
Lasciamo stare cos'è la musica; è un argomento prettamente filosofico che non si può e non si deve provare a definire, anche se possiamo arrivare a comprenderla in modo indiretto. La questione riguarda invece le tante persone che si affannano a inveire su alcuni brani o alcuni generi, definendoli "non musica". Persino un grande direttore d'orchestra, che dovette rifugiarsi negli Stati Uniti durante la Seconda Guerra Mondiale e poi vi risiedette per tutto il resto della vita, ebbe a dire parole sprezzanti sia sulla musica contemporanea (quindi anche su molti suoi coetanei e anche colleghi) che sul Jazz, che lui non considerava musica. Ma capita normalmente che chi si occupa di un particolare genere o ne disprezzi altri, o li consideri non da lui o lei compresi. Poi ci sono i "qualunquisti" che dicono che tutta la musica è bella, oppure o è bella o è brutta. Molti altri, più accortamente, dicono "mi piace" o "non mi piace". Insomma, le persone più focose e dialettiche tendono a dare giudizi, quelle più tranquille, o magari meno coinvolte, a globalizzare. Alla radice di questa situazione c'è una diffusa ignoranza, avvalorata da un insegnamento inesistente. Anzi, molto peggio, da un insegnamento che c'è ma non risolve le lacune ma le approfondisce. Ormai insegnare musica significa il gossip storicistico oppure la morfologia, salvandosi solo un po', per chi lo fa, un po' di esecuzione, peraltro senza criteri. Ho avuto, negli anni, diverse possibilità di parlare di musica con bambini e ragazzi, e ciò che è sempre scaturito è stata una grande disponibilità, ma una totale ignoranza. Con queste premesse tutto ciò che può scaturire è il disinteresse per la musica, la discussione sterile e imperniata su opinioni personali senza strutture. La musica è UNA, i generi possono essere infiniti, ma questo non conta, è appunto una scelta personale, che però può essere almeno parzialmente superata. Se però mancano le basi per avere coscienza di cosa è o di cosa può essere considerato musica e cosa no, ogni discussione lascia il tempo che trova.
Cominciando dall'inizio, noi dobbiamo superare prima di tutto un equivoco. I suoni non sono musica.
In natura i suoni non esistono, o solo occasionalmente; in natura esistono rumori, che possono anche essere molto belli, affascinanti, interessanti. Il vento tra le foglie, il "ribollir" del mare o il fruscio di corsi d'acqua, grilli e cicale... (che peraltro a molti possono anche risultare fastidiosi). Qualche forma di vita emette suoni, per ragioni di richiamo amoroso. Qual è la differenza tra rumori e suoni? I primi sono vibrazioni IRREGOLARI, i suoni invece sono vibrazioni REGOLARI. I rumori pertanto hanno limitatissime possibilità di elaborazione. Con essi non si può fare musica. Si possono organizzare e possono anche essere di aiuto in un brano musicale (tamburi, grancasse, piatti, tam tam e decine di altri strumenti), ma non possiamo considerare musica una composizione basata esclusivamente su rumori. Come dicevo, però, neanche i suoni possono dar vita a un brano di musica se non sussistono determinati criteri. Per entrare più nello specifico, dobbiamo porci la domanda: "cos'è un brano di musica?" E' una domanda molto più semplice e abbordabile rispetto a "cos'è la musica". Un brano musicale è infatti qualcosa di più approcciabile, avendo dimensioni limitate e con spiccate caratteristiche. Un brano può essere una canzone, anche una canzoncina, un motivetto chiuso, un canto di chiesa, un inno, un movimento di sinfonia, un brano d'opera o un intero atto d'opera e persino una intera sinfonia o opera, un brano jazz, ecc. ecc. ecc. Prendiamo ad es. un motivetto ben conosciuto: "tanti auguri a te". Ebbene, nonostante le sue dimensioni minime, può essere musica. Perché dico: "può essere"? perché il brano ha una sua potenziale identità musicale, ma per poter arrivare a essere musica deve essere eseguito con i giusti criteri. La musica nasce e muore, non esiste sulla carta o nelle menti, deve essere eseguita. Quindi un brano può essere musica nelle intenzioni, ma non diventarlo perché eseguito male, o non esserlo già in premessa perché l'autore non ha saputo "coltivare" la sua idea.
Non ho usato a caso il termine "coltivare". Nella musica è necessario che ci sia un "seme". Un seme è un'idea musicale. Un seme è potenzialmente una pianta, ma perché arrivi ad esserlo ci vogliono una serie di requisiti: il clima, la fertilità, l'acqua, il sole, i parassiti, il concime, ecc. Se il seme non casca nel posto giusto, o non nasce o potrà arrivare fino a un certo punto e poi morire. Nella musica succede altrettanto. Se il compositore ha un'idea ma non sa gestire il suo seme-idea, mancheranno le ragioni esistenziali affinché il seme germogli e dia luogo alla pianta-musica.
Ma quali sono le ragioni esistenziali affinché il seme dia luogo a una musica? Il brano musicale deve poter INTERESSARE chi ascolta, cioè una persona umana. E cos'è che interessa una persona? Ritrovare sé stesso. Perché quando ascoltiamo un brano qualunque, c'è un punto, un motivo, un tema, che ci "acchiappa" di più, che ci piace, ci interessa, e ci fa piacere ascoltare anche più volte? Perché lì noi ci riconosciamo, quel tema o inciso o motivo, siamo noi. E non per niente l'autore, che potrà usare anche più temi all'interno di un brano, tornerà più volte su quel tema, anche spezzettandolo, occultandolo in parte, ecc.. Ma questo non basta assolutamente per dar vita a un brano. Una volta "affezionati" al tema, occorre che il brano abbia una VITA. Affinché noi possiamo parlare di un brano di musica, esso deve avere una vita, altrimenti sarebbe un brano "morto", per l'appunto, non avrebbe ragioni di esistere. E il brano non può essere un susseguirsi di motivi o, peggio, di note! Occorre un filo che leghi l'inizio e la fine di un brano. Ma questo filo non è solo un'astrazione, un concetto, ha un nome e deve trovare riscontro nella tessitura del brano, lo devono riconoscere l'autore e l'esecutore, nonché, seppur inconsciamente, l'ascoltatore. Questo filo si chiama TENSIONE. L'autore gioca con la tensione, come uno scrittore di un thriller o di un giallo. Si rende conto, se conosce il proprio mestiere, che ad ogni minuto che passa l'interesse può scemare, e quindi deve mettere in campo degli elementi che modifichino la tensione. Se la tensione è alta dopo un po' l'ascoltatore o ritiene che il momento sia troppo ansiogeno, e quindi smetterà di seguire, se la tensione è troppo bassa si addormenterà, se si alza e si abbassa senza un filo logico annoierà comunque. Quindi ci dovrà essere un progetto più o meno consapevole che renderà interessante tutto lo svolgimento. Come fa il compositore a gestire la tensione? Mediante il materiale che ha a disposizione: ritmo, melodia, armonia. Questi tre elementi hanno anche una storia. Possiamo dire che il ritmo è legato all'alba dell'umanità e alla sua infanzia. la melodia è "l'io", il sè, e riguarda la fascia giovanile, prepuberale, e il medioevo, l'armonia riguarda la fascia più matura dell'uomo, quella sociale e più moderna dell'umanità. Ma li ritroviamo anche negli stadi conoscitivi. Una persona che non va oltre lo "zump zump zump", sotto un certo punto di vista è un po' "preistorico"; chi coglie solo la melodia è un po' più evoluto , ma coglie più che altro l'aspetto personale, l'io (se non l'ego), e non ancora il "noi" contenuto nell'armonia. Quindi il compositore dovrà gestire la tensione agendo su questi tre parametri per innescare CONTRASTI laddove vuole aumentare la tensione (quindi ritmi disuguali, ad es., oppure salti melodici poco usuali, oppure armonie dissonanti), o diminuirla con metodi opposti. Tutto ciò ancora non basta, anzi, manca proprio il meglio! Anche così a un certo punto ci si annoierebbe e tutto verrebbe meno. Il brano musicale deve puntare a qualcosa, deve vivere per qualcosa, deve avere una direzione. Torniamo al romanzo giallo. E' possibile che la soluzione di un crimine avvenga dopo poche pagine? che senso avrebbe? Allora il giallo è un susseguirsi di "tentativi", di misteri, di indizi, prove, che porteranno il protagonista a sciogliere il mistero poco prima della fine. Quel momento è il punto di massima tensione, che poi si scaricherà nel poco tempo rimasto per la conclusione. Così capita anche nel brano musicale: ci sarà un punto di massima tensione, detto Punto Massimo, o Climax, che arriverà in un punto nella seconda parte del brano, che però sarà seguito ancora una volta da...? Il tema! cioè noi.
Attenzione, questa non è una "formuletta" con cui si può costruire un brano musicale. Se manca la coscienza e se manca la CONTINUITA', avremo comunque un brano fallimentare. La frase fondamentale è "LA FINE CONTENUTA NELL'INIZIO". Cioè fin dall'inizio, procedendo, noi dobbiamo avere cognizione che il brano ha una direzione, "punta" a un polo di attrazione, e non procede a scatti, a ondate. E questo dovrebbe essere il primo requisito richiesto a un esecutore, che dovrebbe saper riconoscere il tessuto tensivo ed essere in grado di metterlo in evidenza. Se non sa questo può condannare un brano, o renderlo comunque indigesto.
Siccome ho già scritto molto, mi fermo, e valuterò se fare altre precisazioni, eventualmente rispondendo alle osservazioni di chi avesse voglia di farne.

venerdì, febbraio 21, 2020

Emozionare?

Per molti cantanti, anche in erba, l'imperativo è: "emozionare". Di per sé l'obiettivo non è sbagliato, si tratta di vedere come. Ma non solo; l'idea ha molto a che vedere con l'ego. Potremmo dire che per il cantante è come se il compositore avesse scritto musica affinché IO possa mettere in luce le MIE capacità di emozionare. E' l'inconscia meta di gran parte, quasi tutti, i sedicenti INTERPRETI, che anche se fanno un gran parlare dell'autore, alla fine non fanno altro che sovrapporsi e dare la propria versione di un brano, inventandosi poi cose tipo le tradizioni, il "si è sempre fatto così" e il "ciò che non si può dire o scrivere". Anche su questo c'è un pizzico di verità, ma c'è molto spazio tra l'interpretare e il riconoscere. Riconoscere vuol dire applicare criteri per eseguire il più fedelmente possibile un brano musicale; interpretare, specie come fanno gran parte degli esecutori, vuol dire andare alla cieca, facendo conto sull'ignoranza popolare, sul carisma (vero o presunto) e quindi sulla fama acquisita... non sempre si sa come. Avere una buona e bella voce, musicalità, cosiddetto talento, è senz'altro una importante premessa per assurgere alla popolarità. Ma non basta. Purtroppo soprattutto nel regno del canto c'è (e c'è da tanto tempo) una linea di sottocultura anche musicale piuttosto marcata e preoccupante. Oggi è un po' migliorata sul piano informativo, dopo le stagioni delle rinascite rossiniane e barocche, ma è precipitata sul piano strettamente vocale. Come ho già detto molte volte, non c'è mai stata tanta pubblicistica sulla voce come oggi; escono di continuo libri sul canto, specie sulla tecnica, per non parlare di tutto l'universo internet. Eppure il livello del canto è ai minimi storici. Perché quanti scrivono e propagano, anche come formule magiche, per quanto ne so, non fanno che riciclare (anche se apparentemente in modo fantasioso e originale) le idee che serpeggiano dal dopoguerra (citando a vanvera i trattati antichi), senza alcun fondamento e alcun serio approfondimento. Anche qui tutta interpretazione per far passare le PROPRIE idee e non portarsi verso la verità.
Dunque, il cantante che si sente portatore di grandi cose da dire, ha la certezza che i propri valori, quindi le proprie emozioni, siano il motivo fondamentale per cui DEVE cantare e che non può esistere che venga nascosto al mondo un simile tesoro, anche se il modo di comunicare, cioè il canto in sé, è difettoso. Non per nulla la storia è piena di cantanti persino imbarazzanti che hanno avuto successo e una carriera importante. Crediamo che il succo sia che questo o quel cantante emoziona, indipendentemente da come, e lui è convinto che il suo successo sia dovuto al fatto che sa far emozionare. Quindi esistono due mondi che si incontrano in questo assunto, che nasconde una tragedia, cioè la superficialità, l'assenza di contenuti. Va bene così, sia chiaro, è giusto che ci sia anche questo livello comunicativo; ciò che contesto è che questo sia il più importante e oggi quasi l'unico. Quale ritengo invece dovrebbe essere l'abito mentale del cantante e del pubblico? Vogliamo togliere le emozioni? No di certo, ma il passaggio dal cantante al pubblico deve avvenire tramite un percorso ben più approfondito. Non è l'emozione del cantante a dover passare direttamente al pubblico, perché questo è un dato soggettivo e limitato. Tutto deve partire da quel messaggio spirituale che il compositore ha saputo tradurre in musica, e attraverso l'esecuzione "trasparente" passa agli spettatori che si emozionano ognuno per sé, cogliendo il messaggio originale. Se il cantante (o esecutore in genere) ci mette la propria emozione, distorce, filtra, sovrappone e quindi falsa, modifica il messaggio originale. Quindi qualcuno può chiedere: ma allora il cantante non deve inserire le proprie emozioni nel cantare? E' il modo che deve cambiare. Il pubblico piange quando sente la storia di Cio Cio San, o di Mimì, tanto per dire. Si emoziona per l'amore interrotto dalla morte, per il tradimento o quant'altro. Cioè per la storia. Se il cantante si mette nella stessa situazione, potremmo dire che interrompe il flusso tra compositore e pubblico; diventa lui il pubblico e fa da "ponte". Ma non va bene così. Egli deve fare in modo che ciò che ha prodotto genialmente il compositore passi al pubblico. Il compositore non può arrivare da solo al pubblico, perché la musica ha questa caratteristica. Nasce e muore ogni volta. Ma perché nasca occorre che si abbiano i mezzi giusti, che non sono solo i suoni. Occorre che il flusso di suoni che si sprigiona dagli strumenti e dalle voci segua un percorso musicale, che invece il più delle volte si interrompe e talvolta muore appena nato oppure diventa un susseguirsi di nascite e morti nel corso di tutta l'opera. Gli esecutori dovrebbero per primi avere coscienza che un brano, un'opera, è UNO, è come un cerchio chiuso, solo che è disteso in un susseguirsi di eventi sonori, che la nostra coscienza è in grado di unificare, ma ammesso che ce ne siano le condizioni. E le condizioni le può ricreare l'esecutore, se è conscio di ciò che fa (quindi le RICONOSCE, non le interpreta), oppure non ci sono, e sarà un flusso interrotto, incompleto, un cerchio aperto e spezzato. Perché tante persone si annoiano all'opera, aspettano solo questa o quell'altra aria o duetto? e perché tanti cantanti alla fine preferiscono dedicarsi ai concerti e difficilmente giungono al palcoscenico? Perché un'opera intera non può essere un profluvio di emozioni dall'inizio alla fine; come in tutte le cose, esiste un percorso "altalenante", che lo rende "digeribile"; non si potrebbe tollerare, ad es., un film o un racconto dove regna il terrore dall'inizio alla fine; ci vogliono dei picchi, ci vuole una strategia di alti e bassi che generi prima tranquillità per poi dare la spinta ai punti di terrore. Una sola emozione sempre alta darebbe assuefazione. Così capita che il cantante che vuole vendere le proprie emozioni come ingrediente principale, nei punti in cui le emozioni sono di modesta entità o non ci sono proprio, non ha nulla da elargire, e annoia. Non ha strumenti da utilizzare; se non si emoziona lui o lei, come farà a coinvolgere il pubblico? Beh, anche qui la fantasia non manca. Non è che non lo sappiano o non se ne accorgano che in certi punti il rischio noia e caduta sono in agguato. Non solo; molti cantanti si rendono anche conto che le proprie emozioni non sono così coinvolgenti, non riescono a colpire tutti e in modo importante ("come??, io in questa scena muoio di dolore, (o di amore, o altro) e questi restano indifferenti? hanno il cuore di sasso!" cioè la colpa è degli altri che non hanno la loro stessa sensibilità). Ed ecco che all'inizio del 900, in un mondo lirico ancora di altissimo livello, nasce il verismo vocale, cioè qualcuno (diciamo pure nome e cognome: Enrico Caruso), interpretando (e dalli) il mondo del pubblico popolare, forse anche pensando di rendere più chiaro ciò che avviene in scena, comincia ad inserire nell'esecuzione anche un corollario di artifici: pianto, singhiozzi, parole aggiunte, sospiri, gemiti, ecc. E' una lunga parentesi, anche comprensibile per qualche verso, ma che a fronte di esecuzioni vocali anche di alto livello, rende certe esecuzioni persino ridicole. Questo però ha dato il la a tutta una pletora di cantanti, non tutti di primo livello, a vendere esecuzioni più farcite di suggestioni che di musica e canto. Se oggi questo non è quasi più tollerabile in termini di aggiunte, il principio potenziale è rimasto. Intanto non ci si schioda dalla tradizione degli acuti, per cui anche nei teatri di prima grandezza si tollera di abbassare un'aria o una cabaletta per non togliere un acuto, anche inesistente nell'originale e si continuano a perpetrare tagli e aggiunte fuori luogo (ma in questo anche certe esecuzioni "filologiche" riescono a far danni), ma i cantanti continuano a interpretare a proprio modo certi passi, apparentemente corretti ma in realtà distorti, sempre per l'assunto che essere troppo aderenti alla parte scritta sia "freddo" e quindi non passino le emozioni (del cantante, ovvero del suo ego). Quindi qual è la giusta strada da intraprendere in una visione realmente artistica? E' inserirsi in un percorso di riconoscimento. In primo luogo comprendere il percorso TENSIVO che il compositore ha seguito. Dove va a "più" (cioè dove cresce la tensione) e dove va a "meno", (quindi dove la tensione cala). Come ha creato la tensione? con la melodia, con il ritmo, con l'armonia? con più cose insieme?. Come la tensione si accompagna al testo? Dove è il punto di massima tensione?
Se il canto fosse davvero considerato una cosa seria, non esisterebbero insegnanti che sottostimano la pronuncia (le "A" non si fanno, le "I" nemmeno; omogeneizziamo tutte le vocali, ecc.). Il pubblico non dovrebbe avere i sopratitoli a teatro o in tv (tranne, eventualmente, per la lingua straniera, per quanto siano eccessivamente distraenti), dovrebbe poter tranquillamente seguire ciò che i cantanti dicono; per cui il difetto sta addirittura nel manico, come suol dirsi, cioè fin dall'inizio noi abbiamo cantanti che badano ai suoni, cioè al significante, e non ai contenuti, ovvero ai significati. E su questo siamo a livelli terribilmente bassi; oggi una pronuncia men che mediocre viene spacciata per buona. Io consiglio di ascoltare le grandi voci degli attori di qualche tempo fa, per rendersi conto di cosa vuol dire: DIRE.

martedì, febbraio 11, 2020

Schiavi della mente

In fondo la questione, a ben riflettere, non è così difficile da capire...
Siamo tutti essere umani, la voce, salvo patologie e difetti congeniti, l'abbiamo tutti. Certo, con differenze, come tutto, ma realmente perché alcuni possono cantare a livelli straordinari e altri hanno difficoltà incredibili? Alla fine la soluzione è semplice: è la mente che ci condiziona. Infatti una frase che ripeto spesso è: non pensare! Sembra un paradosso, ma se ci fate caso, molto spesso cantando in modo spontaneo e con nonchalance riusciamo a fare cose migliori. Questo perché la mente in questa attività non ci è d'aiuto, ma anzi è più d'ostacolo che altro. Anche tutto il vocabolario concettuale che accompagna il canto: registri, classi, attacco, passaggi, appoggio, maschera, ecc., sono incasellamenti che non solo non sono utili, ma tendono a farci spezzettare il discorso, e quindi a non raggiungere l'unità che è invece la meta. "Pensa a questo... pensa a quest'altro"... e riteniamo che quella sia la strada per la soluzione, ma è invece la strada per la confusione. Intanto c'è il problema più grande, che è l' "oggettivizzazione" della voce, cioè darle un ruolo concreto, materiale, come fosse un oggetto (tanti anni fa scrivevo tra i primi post: "la voce non è un vaso di fiori!"). La mente non può farne a meno, non concepisce l'astratto, e questo è un enorme problema, perché mentre nel parlato noi non pensiamo a COME parliamo, ma ci affidiamo alla spontaneità, nel canto questo non lo sappiamo fare perché il canto non ci è naturale, ed ecco quindi che siamo portati a pensare, cioè a cercare di capire come fare. Se ci danno una scatola di costruzioni, o un mobile da montare, noi dobbiamo leggere le istruzioni e cercare di capirle, poi un passo alla volta agiamo. E spesso sbagliamo. Ma anche suonando uno strumento, perché noi vediamo, percepiamo con gli occhi e con il corpo ciò che dobbiamo fare. Col canto quel tipo di esperienza non è confrontabile, perché non abbiamo pezzi da mettere insieme, non abbiamo concetti e oggetti con cui confrontarci, non vediamo e percepiamo in modo indiretto. Questo porta gli insegnanti, i teorici, ad attaccarsi a due modalità: l'anatomia e/o le immagini mentali. Negli ultimi anni ha prevalso senz'altro la raffigurazione anatomica, quindi consigliare all'allievo movimenti di parti dell'apparato o posizioni della voce (cosa impossibile) in particolari zone dell'apparato. Altre scuole si rifanno a immagini meno legate all'apparato, e vanno per metafore. Quest'ultima modalità, che ha comunque i suoi lati negativi, è comunque preferibile alla prima. Come si sarà compreso, comunque, la strada ideale è quella di liberarsi dalla schiavitù mentale. Non è come dirlo!! Dobbiamo avvicinarci alla questione un po' alla volta. Rendersi conto, quindi portare a coscienza che la voce, comunque sia, non è un "prodotto" materiale, ma è fiato, cioè una impalpabile, invisibile, immateriale e dinamica proiezione del corpo. Non c'è niente di intellettuale, di razionale, di fisico in questo. Noi tendiamo a confondere la coscienza con la mente, o addirittura con la memoria. Qui non c'è da ricordare, ma di interiorizzare. La voce va come deve andare e noi dobbiamo lasciarla andare, non cercare di guidarla, di intrappolarla, di modificarla. E quindi, come al solito, ripetiamo: come il parlato. Ma sappiamo che già il passaggio dal parlato comune a un parlato intonato crea già qualche imbarazzo. Ed è per questo che occorre farlo molto, fin quando lo facciamo con scioltezza, senza pensare, appunto. Per avvicinarsi meglio al canto dei brani, è sempre bene conoscere bene il testo, perché essere legati alla melodia è di per sé anch'essa una sudditanza che non aiuta. Quindi, conoscere il testo e provare a recitarlo. Conoscere la linea musicale, in modo che quando si va a cantare non si venga colti dalle carenze dell'uno e dall'altro campo. Il testo è bene cantarlo su una "cantilena", su una scaletta, su una nota, su un arpeggio, ecc. La linea musicale è bene studiarla con sillabe e con vocali. Prima di portare il canto alla sua esecuzione definitiva, a meno che non sia particolarmente semplice e di modesta estensione, è meglio studiarlo ed eseguirlo su una tessitura leggermente più bassa. Insomma, passare attraverso tutte le fasi che consentano la minor preoccupazione, i minori problemi possibili, e proseguire con calma, con cautela.