Translate

venerdì, febbraio 21, 2020

Emozionare?

Per molti cantanti, anche in erba, l'imperativo è: "emozionare". Di per sé l'obiettivo non è sbagliato, si tratta di vedere come. Ma non solo; l'idea ha molto a che vedere con l'ego. Potremmo dire che per il cantante è come se il compositore avesse scritto musica affinché IO possa mettere in luce le MIE capacità di emozionare. E' l'inconscia meta di gran parte, quasi tutti, i sedicenti INTERPRETI, che anche se fanno un gran parlare dell'autore, alla fine non fanno altro che sovrapporsi e dare la propria versione di un brano, inventandosi poi cose tipo le tradizioni, il "si è sempre fatto così" e il "ciò che non si può dire o scrivere". Anche su questo c'è un pizzico di verità, ma c'è molto spazio tra l'interpretare e il riconoscere. Riconoscere vuol dire applicare criteri per eseguire il più fedelmente possibile un brano musicale; interpretare, specie come fanno gran parte degli esecutori, vuol dire andare alla cieca, facendo conto sull'ignoranza popolare, sul carisma (vero o presunto) e quindi sulla fama acquisita... non sempre si sa come. Avere una buona e bella voce, musicalità, cosiddetto talento, è senz'altro una importante premessa per assurgere alla popolarità. Ma non basta. Purtroppo soprattutto nel regno del canto c'è (e c'è da tanto tempo) una linea di sottocultura anche musicale piuttosto marcata e preoccupante. Oggi è un po' migliorata sul piano informativo, dopo le stagioni delle rinascite rossiniane e barocche, ma è precipitata sul piano strettamente vocale. Come ho già detto molte volte, non c'è mai stata tanta pubblicistica sulla voce come oggi; escono di continuo libri sul canto, specie sulla tecnica, per non parlare di tutto l'universo internet. Eppure il livello del canto è ai minimi storici. Perché quanti scrivono e propagano, anche come formule magiche, per quanto ne so, non fanno che riciclare (anche se apparentemente in modo fantasioso e originale) le idee che serpeggiano dal dopoguerra (citando a vanvera i trattati antichi), senza alcun fondamento e alcun serio approfondimento. Anche qui tutta interpretazione per far passare le PROPRIE idee e non portarsi verso la verità.
Dunque, il cantante che si sente portatore di grandi cose da dire, ha la certezza che i propri valori, quindi le proprie emozioni, siano il motivo fondamentale per cui DEVE cantare e che non può esistere che venga nascosto al mondo un simile tesoro, anche se il modo di comunicare, cioè il canto in sé, è difettoso. Non per nulla la storia è piena di cantanti persino imbarazzanti che hanno avuto successo e una carriera importante. Crediamo che il succo sia che questo o quel cantante emoziona, indipendentemente da come, e lui è convinto che il suo successo sia dovuto al fatto che sa far emozionare. Quindi esistono due mondi che si incontrano in questo assunto, che nasconde una tragedia, cioè la superficialità, l'assenza di contenuti. Va bene così, sia chiaro, è giusto che ci sia anche questo livello comunicativo; ciò che contesto è che questo sia il più importante e oggi quasi l'unico. Quale ritengo invece dovrebbe essere l'abito mentale del cantante e del pubblico? Vogliamo togliere le emozioni? No di certo, ma il passaggio dal cantante al pubblico deve avvenire tramite un percorso ben più approfondito. Non è l'emozione del cantante a dover passare direttamente al pubblico, perché questo è un dato soggettivo e limitato. Tutto deve partire da quel messaggio spirituale che il compositore ha saputo tradurre in musica, e attraverso l'esecuzione "trasparente" passa agli spettatori che si emozionano ognuno per sé, cogliendo il messaggio originale. Se il cantante (o esecutore in genere) ci mette la propria emozione, distorce, filtra, sovrappone e quindi falsa, modifica il messaggio originale. Quindi qualcuno può chiedere: ma allora il cantante non deve inserire le proprie emozioni nel cantare? E' il modo che deve cambiare. Il pubblico piange quando sente la storia di Cio Cio San, o di Mimì, tanto per dire. Si emoziona per l'amore interrotto dalla morte, per il tradimento o quant'altro. Cioè per la storia. Se il cantante si mette nella stessa situazione, potremmo dire che interrompe il flusso tra compositore e pubblico; diventa lui il pubblico e fa da "ponte". Ma non va bene così. Egli deve fare in modo che ciò che ha prodotto genialmente il compositore passi al pubblico. Il compositore non può arrivare da solo al pubblico, perché la musica ha questa caratteristica. Nasce e muore ogni volta. Ma perché nasca occorre che si abbiano i mezzi giusti, che non sono solo i suoni. Occorre che il flusso di suoni che si sprigiona dagli strumenti e dalle voci segua un percorso musicale, che invece il più delle volte si interrompe e talvolta muore appena nato oppure diventa un susseguirsi di nascite e morti nel corso di tutta l'opera. Gli esecutori dovrebbero per primi avere coscienza che un brano, un'opera, è UNO, è come un cerchio chiuso, solo che è disteso in un susseguirsi di eventi sonori, che la nostra coscienza è in grado di unificare, ma ammesso che ce ne siano le condizioni. E le condizioni le può ricreare l'esecutore, se è conscio di ciò che fa (quindi le RICONOSCE, non le interpreta), oppure non ci sono, e sarà un flusso interrotto, incompleto, un cerchio aperto e spezzato. Perché tante persone si annoiano all'opera, aspettano solo questa o quell'altra aria o duetto? e perché tanti cantanti alla fine preferiscono dedicarsi ai concerti e difficilmente giungono al palcoscenico? Perché un'opera intera non può essere un profluvio di emozioni dall'inizio alla fine; come in tutte le cose, esiste un percorso "altalenante", che lo rende "digeribile"; non si potrebbe tollerare, ad es., un film o un racconto dove regna il terrore dall'inizio alla fine; ci vogliono dei picchi, ci vuole una strategia di alti e bassi che generi prima tranquillità per poi dare la spinta ai punti di terrore. Una sola emozione sempre alta darebbe assuefazione. Così capita che il cantante che vuole vendere le proprie emozioni come ingrediente principale, nei punti in cui le emozioni sono di modesta entità o non ci sono proprio, non ha nulla da elargire, e annoia. Non ha strumenti da utilizzare; se non si emoziona lui o lei, come farà a coinvolgere il pubblico? Beh, anche qui la fantasia non manca. Non è che non lo sappiano o non se ne accorgano che in certi punti il rischio noia e caduta sono in agguato. Non solo; molti cantanti si rendono anche conto che le proprie emozioni non sono così coinvolgenti, non riescono a colpire tutti e in modo importante ("come??, io in questa scena muoio di dolore, (o di amore, o altro) e questi restano indifferenti? hanno il cuore di sasso!" cioè la colpa è degli altri che non hanno la loro stessa sensibilità). Ed ecco che all'inizio del 900, in un mondo lirico ancora di altissimo livello, nasce il verismo vocale, cioè qualcuno (diciamo pure nome e cognome: Enrico Caruso), interpretando (e dalli) il mondo del pubblico popolare, forse anche pensando di rendere più chiaro ciò che avviene in scena, comincia ad inserire nell'esecuzione anche un corollario di artifici: pianto, singhiozzi, parole aggiunte, sospiri, gemiti, ecc. E' una lunga parentesi, anche comprensibile per qualche verso, ma che a fronte di esecuzioni vocali anche di alto livello, rende certe esecuzioni persino ridicole. Questo però ha dato il la a tutta una pletora di cantanti, non tutti di primo livello, a vendere esecuzioni più farcite di suggestioni che di musica e canto. Se oggi questo non è quasi più tollerabile in termini di aggiunte, il principio potenziale è rimasto. Intanto non ci si schioda dalla tradizione degli acuti, per cui anche nei teatri di prima grandezza si tollera di abbassare un'aria o una cabaletta per non togliere un acuto, anche inesistente nell'originale e si continuano a perpetrare tagli e aggiunte fuori luogo (ma in questo anche certe esecuzioni "filologiche" riescono a far danni), ma i cantanti continuano a interpretare a proprio modo certi passi, apparentemente corretti ma in realtà distorti, sempre per l'assunto che essere troppo aderenti alla parte scritta sia "freddo" e quindi non passino le emozioni (del cantante, ovvero del suo ego). Quindi qual è la giusta strada da intraprendere in una visione realmente artistica? E' inserirsi in un percorso di riconoscimento. In primo luogo comprendere il percorso TENSIVO che il compositore ha seguito. Dove va a "più" (cioè dove cresce la tensione) e dove va a "meno", (quindi dove la tensione cala). Come ha creato la tensione? con la melodia, con il ritmo, con l'armonia? con più cose insieme?. Come la tensione si accompagna al testo? Dove è il punto di massima tensione?
Se il canto fosse davvero considerato una cosa seria, non esisterebbero insegnanti che sottostimano la pronuncia (le "A" non si fanno, le "I" nemmeno; omogeneizziamo tutte le vocali, ecc.). Il pubblico non dovrebbe avere i sopratitoli a teatro o in tv (tranne, eventualmente, per la lingua straniera, per quanto siano eccessivamente distraenti), dovrebbe poter tranquillamente seguire ciò che i cantanti dicono; per cui il difetto sta addirittura nel manico, come suol dirsi, cioè fin dall'inizio noi abbiamo cantanti che badano ai suoni, cioè al significante, e non ai contenuti, ovvero ai significati. E su questo siamo a livelli terribilmente bassi; oggi una pronuncia men che mediocre viene spacciata per buona. Io consiglio di ascoltare le grandi voci degli attori di qualche tempo fa, per rendersi conto di cosa vuol dire: DIRE.

Nessun commento:

Posta un commento