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mercoledì, settembre 25, 2019

Il parlato si sente?

Se una persona "normale", cioè un comune cittadino che non abbia avuto in dono delle doti vocali straordinarie sale su un palco e si mette a parlare, dai palchi come dalla platea si sentirà poco o niente, salvo si tratti di un teatro altrettanto straordinario, cosa assai rara, specie nelle costruzioni moderne. Questa è la principale motivazione per cui se dite a qualcuno che intende studiare canto di "parlare", resterà alquanto meravigliato, fortemente dubbioso e probabilmente cambierà scuola. E' successo che quando un allievo è riuscito a pronunciare in modo convincente una frase intonandola su una o più note, dopo un periodo non breve di studio, risentendosi registrato abbia affermato: "se questo è corretto, non fa al caso mio". E fine. Oggi non parla NESSUNO! ho ascoltato poco fa un certo numero di cantanti impegnati nella stessa aria; ho sentito le migliori esecuzioni degli ultimi cinquant'anni. Poi ho ascoltato una cantante degli anni 20, la Zamboni... anni luce di distanza. Un vero, autentico parlato, voce avanti, omogeneità, chiarezza di significato e di emissione. Lo stile... beh, lo stile un po' datato, ma quello lo possiamo comprendere e migliorare. Ora faccio un'osservazione. In passato, e fino alla fine dell'800, molte opere prevedevano dei recitativi PARLATI. I singspiel di area austro-tedesca, l'opera comique francese, zarzuele e poi l'operetta italiana. Chissà come mai poco dopo molti di questi recitativi sono stati musicati, spesso non dagli autori originali, e oggi quando si vuole ripristinare il parlato... microfoni! Pensiamo poi alle lettere del Macbeth e della Traviata, dove i cantanti o non si sentono o si atteggiano alla Duse urlando in modo assurdo! Se chiedete a un cantante di parlare si indigna, e vi dirà che il parlato è nocivo, asciuga la gola, ecc. ecc. Poveri attori, direi, chissà come hanno fatto per secoli a recitare in modo sublime senza neanche sapere cosa fosse un microfono! Ma un cantante, che dovrebbe aver elevato la parola ad arte... niente, non riesce a farsi sentire (ma penso che anche in campo attoriale oggi le cose  non vadano tanto meglio). Dunque qui sta una delle chiavi di tutta la questione. Il canto è una evoluzione, uno sviluppo, un progresso del parlato, della parola. Se il parlato in un ambiente spazioso non corre, non lo farà nemmeno il canto, che per farsi sentire dovrà essere forzato, urlato, ridotto a suono anonimo e quindi "ululato". E' prima di tutto la parola che dovrà compiere un balzo di qualità, il che non riguarda il suono vocale, cioè non è questo direttamente l'oggetto del miglioramento, ma il fiato che presiede alle sue caratteristiche. Il suono, di per sé, non può essere "mandato" da qualche parte per ottenere un rinforzo, un'amplificazione! E' il fiato che dovrà modificare il suo funzionamento in relazione al tipo di emissione che si vuole ottenere. Ma non si agisce neanche direttamente sul fiato, perché esso presiede la funzione vitale dello scambio ossigeno-anidride, quindi non ha alcun rapporto diretto con la voce. Sarà proprio dal continuo lavoro sulla parola di qualità che otterremo, mediante questo stimolo, il relativo incremento respiratorio artistico vocale. Questo obiettivo è lontanissimo da ottenere, occorrono anni; è piuttosto normale che su tempi brevi il parlato risulti ancora piuttosto "acerbo", quindi di una chiarezza eccessiva, con passaggi da una vocale all'altra bruschi e quindi poco gradevoli. Deve essere una raffinazione continua, tesa al bello e al vero. Ma dietro tutto questo ci deve essere una determinazione alla consapevolezza e all'accettazione totali, perché se si è alla ricerca del "suono lirico", si resterà delusi, amareggiati. Non è la scuola per voi. Ma per chi persegue la strada della vera arte vocale, sarà di una gioia e un piacere estremo ascoltare la propria voce che si espande nell'ambiente con assoluta scorrevolezza, la parola bella, vera, il dominio su di essa, sulla dinamica, sulle sfumature, sulla possibilità di dare un senso compiuto al significato, semplicemente nella musica, senza effetti, senza "interpretazioni", modifiche, sovrapposizioni. Significa veramente dar voce a quel testo e quella musica aprendosi a una coscienza universale che ha reso possibile la creazione di quella pagina. Ma il male è sempre la fretta. Se fate fare un suonaccio di gola accontenterete molti più studenti che facendogli fare una serie di esercizi elementari su una nota sola e correggendoli mille volte prima di andare avanti di mezzo tono!! Ma così è. Il vero canto risiede nel donare; questo deve essere un prerequisito. Se studiate canto "per voi", cioè solo con l'idea di avere un po' (o tanto) successo, siete sul binario dell'ego, e i risultati saranno esteriori, superficiali; l'idea artistica è che cantando voi potre(s)te farvi tramite tra il pensiero spirituale che vi ha spinto a intraprendere questa attività e lo spirito di coloro che sono stati spinti ad ascoltare questa musica. Perché si canta? Perché si va ad ascoltare? E' una domanda che talvolta ho posto al pubblico e a chi suonava. Se succede è perché esiste una spinta interiore, a volte fortissima. Ma attenzione perché questa spinta può essere "intercettata" dal nostro ego, da quella voglia di competizione e di supremazia che non accetta tempi lenti e messe in discussione. Bisogna arrivare presto e facilmente, ma con argomenti sbaraglianti. Allora si genera la mediocrità, e la mediocrità chiama mediocrità, ammantata di effetti spettacolari. Oggi assistiamo sempre di più a spettacoli, a spese dell'arte. Naturalmente poi si chiamano tutti artisti, tutti maestri. Ma con quali criteri?
I "grandi maestri" vogliono fornire anche una motivazione tecnica al fatto che il parlato non è confacente al canto lirico. Il parlato in avanti secondo costoro inibisce lo spazio interno. Da anni è invalsa l'idea che il canto lirico necessiti del massimo spazio oro-faringeo. A questo, di conseguenza, si è associata anche l'idea del "suono scuro" (maggior spazio, colore più scuro). Tutti concetti privi di qualsivoglia fondamento belcantistico. Il colore vocale è un fattore personale. Si può dare una sfumatura di colore per conferire una particolare espressività a una frase, a un'intera parte, ma non può essere una "spalmatura" scriteriata. Maria Callas utilizzava due colori estremi per passare dalla Gioconda alla Fiorilla del Turco in Italia. Questo ebbe un prezzo nella tenuta della sua organizzazione vocale, che non fu mai propriamente esemplare, ma sempre posta al servizio di un'idea teatrale. L'uso scriteriato dei colori può avere un prezzo. Utilizzare costantemente lo scuro può avere dei vantaggi per un certo tempo, perché esso genera maggior pressione sul diaframma, inibendo la sua ascesa, e quindi fornendo un suono più "appoggiato", quindi più sonoro e ricco. Ma se a questo non corrisponde un'educazione esemplare del respiro, questa maggior pressione genererà maggior provocazione; fin quando le risorse fisiche, quindi la gioventù, riusciranno ad aver ragione delle reazioni, tutto procederà accettabilmente, ma a un certo punto (in base alla resistenza soggettiva, ma anche al grado di incoscienza) l'istinto comincerà a riprendersi ciò che ritiene essere stato "estorto". Se si utilizza prevalentemente il colore oscuro, ma poi si passerà al chiaro o addirittura chiarissimo, sempre senza una vera coscienza vocale, dapprima sembrerà tutto piacevole e facile, e si cadrà anche nella trappola di affrontare con troppa disinvoltura tessiture acute e acutissime. Ma l'istinto ballerà la mazurka! L'aver tolto quel peso dal diaframma darà modo, finalmente, di potersi rialzare. Questo non provocherà immediate conseguenze, o perlomeno non sempre, ma in tempi neanche tanti lunghi, inizierà l'oscillazione. Ormai le voci "ballanti" non si contano più, persino in giovane e giovanissima età. Alcune tecniche, come l'affondo, non possono nemmeno concepire lontanamente uno schiarimento, perché si perderebbe all'istante ogni "impostazione", la voce risulterebbe subito spoggiata, vuota e priva di squillo e anche di estensione. Questo è l'estremo, che ci deve far riflettere. Non è del tutto fuori luogo ritenere che la voce artistica richieda spazio interno, lo sbaglio è pensare che noi dobbiamo volontariamente creare questo spazio. Così come tutte le azioni dirette sui nostri apparati, anche questa è una mancanza di umiltà e di disciplina che non può sposarsi con un obiettivo artistico. E' il fiato stesso a determinare lo spazio e mille altri parametri degli organi da esso investiti in base alle esigenze, ed esso è l'unico elemento in grado di determinarli e formarli, una volta educato. Quindi, per terminare, una saggia evoluzione respiratoria sarà in grado di far udire perfettamente il parlato, in quanto è esso stesso la base di un canto esemplare.

Della tradizione

Il direttore Sergiu Celibidache, a proposito della tradizione in musica, diceva: "la tradizione è il brutto ricordo dell'ultima cattiva esecuzione". A parte quelle popolari, le tradizioni sono in realtà il frutto della pigrizia umana. L'istinto ci porta alla pigrizia per "risparmiare". Ascoltare cose nuove, richiede attenzione, quindi impegno, mentre ascoltare "il solito", è più riposante, chiede meno fatica mentale, meno pensiero. Le esecuzioni operistiche dei grandi autori del Novecento risentono in pieno della tradizione, il che vuol dire di "interpretazioni" che spesso hanno arbitrariamente manomesso la scrittura originale, con variazioni, aggiunte, il più delle volte prive di musicalità, di senso. Il che non significa che la musica vada eseguita pedissequamente come è stata scritta. La partitura è un grande canovaccio, una stenografia, dove il compositore ha rivestito un testo di una sontuosa base musicale con il compito di esaltarlo, di illuminarne il contenuto. Il compositore diventa come un grande attore che recita quel testo con le giuste inflessioni, gli  accenti, le espressioni più sensibili del suo repertorio sonoro. I cantanti non hanno che da seguire quella linea, senza tradirla, ma sapendo riconoscere il "non scritto", che non significa "interpretare"!. La partitura comporta molte limitazioni, come la scrittura. E' basata su pochi simboli, che necessariamente vengono ripetuti continuamente, pur non riflettendo sempre uno stesso principio. Le durate dei simboli vengono assimilate a tempi meccanicamente identici, ma nella realtà così non è, anche per una questione di semplificazione, altrimenti tutto diventerebbe estremamente complesso. Questo comporta stereotipie e dunque il rischio continuo di annoiare, cosa che puntualmente avviene, non per colpa del compositore, o non sempre, ma dell'esecutore che non riesce a rivivere lo stato di coscienza del compositore, dunque si rifugia nella replica fisica, meccanica, della scrittura, senza riconoscere la verità che nasconde. Noi dunque siamo inondati da esecuzioni il più delle volte uguali perché qualche cantante ha trovato un escamotage per dare interesse a una certa aria, a un certo momento, non sapendo o non potendo restituire la verità, la sincerità della scrittura e del senso, del significato che vi è contenuto. Effetti, spesso dozzinali, appariscenti, rozzi, per non rischiare la noia o quella che si ritiene la mera ripetizione. La ripetizione in musica non esiste, nel senso che il compositore non la può aver utilizzata banalmente; in essa egli ha vissuto anche la tensione del momento, acuita o rilassata, per cui ci ha sentito anche un inasprimento o un decadimento dinamico per sostenerla o contrastarla. Il compositore ha dentro di sé il fuoco che ne ha seguito il processo compositivo, e non riesce a sentire con la stessa partecipazione dello spettatore ciò che avviene esternamente, dunque non si trova nello stesso stato che vive più oggettivamente il pubblico, ed ecco perché è un errore pensare (come diceva Stravinsky) che l'autore è il migliore interprete di sé stesso. Se ascoltate l'intermezzo della Cavalleria Rusticana diretta dall'autore, Pietro Mascagni, e seguite la partitura, rimarrete più che meravigliati, attoniti, di fronte a un'esecuzione che ne stravolge totalmente la scrittura. Lui, da direttore, si arrogava il diritto di sconvolgere tempi, dinamiche, agogiche in chiave "interpretativa". Aveva sbagliato a scrivere o a dirigere? Egli non si è accontentato di quanto aveva scritto e in fase esecutiva voleva destare maggiore interesse esasperando il "tira e molla". Se si segue la tradizione o addirittura l'idea che il compositore è anche il migliore interprete di sé stesso, oggi dovremmo sempre eseguire quell'intermezzo sulla base della sua esecuzione. Fortunatamente non è così. Invece nel canto il più delle volte si ricorre alla mera ripetizione di quanto ci hanno lasciato esecuzioni del passato, in termini di note cambiate, aggiunte, tagli, cadenze. Esiste anche una raccolta, compilata da Luigi Ricci, di una miriade di modifiche riguardanti arie di gran parte delle opere dell'Ottocento. Qualche direttore, negli ultimi decenni, sulla scorta delle esecuzioni "filologiche", ha voluto ripristinare i tagli ed eliminare aggiunte e modifiche. Bene ha fatto, ma ha compiuto un lavoro parziale e talvolta controproducente. Perché? Come ho spiegato, seguire pedestremente la scrittura può rivelarsi limitante e impoverente, se non si sa valorizzare il "non scritto". Le variazioni, come dicevo, sono nate spesso proprio per colmare la percezione della vuota ripetitività senza sapere come fare. Anche qui ci soccorre la Storia. Per molto tempo, dopo la nascita dell'opera, i cantanti sapevano variare con gusto e opportunamente, cioè in base al contesto, le ripetizioni. Erano maestri dell'improvvisazione. L'improvvisazione era una delle arti legate alla musica, ed era sempre presente nei concorsi e nelle prove. Col tempo però i cantanti misero il proprio ego davanti al fatto musicale, e cominciarono a infiorettare le arie solo per far sentire le proprie capacità virtuosistiche senza che questo apportasse arricchimento all'opera. Questo avvenne anche in campo strumentale, infatti esiste tutta una sterminata letteratura di variazioni per tutti gli strumenti (il più delle volte basate proprio su arie d'opera) da parte, spesso, di compositori del tutto sconosciuti - ma ottimi conoscitori delle proprietà tecniche degli strumenti - che risultano il più delle volte di una noia mortale, proprio perché fini a sé stesse, prive di reali qualità musicali. Ecco dunque che alcuni compositori ritennero di voler "ripulire il campo", vietando ai cantanti di aggiungere virtuosismi, e scrivendoli essi stessi direttamente in partitura (in tempi recenti alcuni sedicenti musicologi hanno voluto scrivere variazioni per i cantanti nelle arie, il più delle volte con esiti disastrosi). L'altro motivo per cui i direttori "filologi" hanno compiuto un lavoro parziale, è che non sentono e non si accorgono delle tradizioni più sottili, cioè il ricorso a modi di cantare, uso, o meglio abuso, nell'utilizzo dei registri vocali, e nel ricorso a rallentamenti e corone. Sono queste tradizioni che il più delle volte rendono davvero obsolete le letture operistiche, e questa è una delle motivazioni, insieme alla paurosa decadenza dell'arte vocale, a far sì che sia emersa, per evitare la monotonia, la necessità (direte che non sentite la necessità, ma a pensarci bene è così) di regie e scenografie assurde. Se il piano vocale, che dovrebbe essere fondamentale, risulta sempre meno interessante, il teatro qualcosa deve fare per salvaguardare la teatralità. E' una scelta che si basa sulla provocazione, sullo scandalo, roba proprio da indignare, che dalla fine del Secolo scorso, è stata proposta con questa occulta motivazione. Scelte che possiamo definire scellerate, scorrette anche sul piano etico e artistico, ma che trovano giustificazione nel rischio di chiudere i teatri d'opera. Si dirà che se queste regie sono così negative, dovrebbero dissuadere la gente dal frequentare, ma non è così, il pubblico è attratto anche dall'horror o dalla sadica motivazione di andare a contestare!!! E intanto la gente continua a esaltare cantanti, anche i più miserrimi, perché le personalità, anche solo estrose, comunque attraggono e molti spettatori non possono fare a meno di tifare per qualcuno, e le orecchie sono sempre meno sensibili e delicate.

venerdì, settembre 13, 2019

Della coscienza

Un vero maestro rappresenta una coscienza pura. Chi si sottopone agli insegnamenti di un autentico maestro, può contare su questa coscienza, che per un lungo tempo rappresenterà anche la sua. Chi inizia lo studio di un'arte, infatti, non ne possiede una legata a quell'arte. Può avere una disposizione, può avere doti anche elevate, ma non possiede la coscienza di ciò che fa. Riuscire a cantare anche molto bene in virtù di una particolare predisposizione e doti fisiche innate, non è fare arte. Purtroppo questo non molti sono in grado di comprenderlo e valutarlo, per cui sedicenti artisti, dotati di voci ragguardevoli, buona musicalità, passione, disinvoltura, ma senza alcuna coscienza del proprio operato, possono assurgere a fama, denari, successo su larga scala. Ci si chiederà come mai succede questo, è un fatto "naturale"?
Sono molti gli aspetti da considerare. In primo luogo dobbiamo considerare che l'arte è un mondo "nascosto", misterioso, inconoscibile se non da chi l'ha raggiunta. In teoria quasi nessuno è in grado di apprezzare realmente e sinceramente una qualsiasi arte. I cosiddetti intenditori, i critici, i giornalisti specializzati, spesso e volentieri, quasi sempre, sono i meno idonei! La loro cultura è basata su letture, sentito dire, impressioni soggettive, personali; tutto questo è "condito" da una sicuramente elevata capacità di descrizione, di scrittura, di "affabulazione". Ricordo quanto lessi Doktor Faust di Mann; le sue descrizioni di brani inesistenti mi prese tantissimo, avevo una pazza voglia di ascoltarli. Eppure erano sue fantasie. Se un critico di razza vuole esaltare un brano, un quadro, uno strumentista o un cantante, lo può fare, stuzzicando la curiosità e l"'appetito" di quanti vedranno o sentiranno. Avendo posti di potere, di privilegio (radio, tv, giornali, riviste...) la loro parola può avere ed ha un peso determinante. Ma appunto per questo, spesso la loro parola non è solo il frutto della loro personalità, ma dietro, sempre più nel tempo, ci stanno altri poteri. Le agenzie, ormai da qualche decennio, stanno imponendo le scelte ai teatri e gestendole a livello comunicativo, di immagine, di critica. Non sto qui a presumere l'uso di mezzi scorretti o addirittura illegali, ognuno la pensi come vuole, fatto sta che ciò che assurge al successo è il frutto di scelte operate da pochi, che si sentono sempre più detentori del potere e quindi della vita di alcune persone che ritengono il successo indispensabile alla propria esistenza, ma anche gli "orientatori" del gusto del pubblico. Persone anche con elevata cultura, affermano che tizio e caio sono grandi artisti, credendo di aver compiuto scelte personali e oculate, quando invece non fanno che seguire ciò che hanno letto e sentito. E questo anche perché di molte persone, magari autentici artisti, non sanno nulla perché il "sistema" li ha tenuti fuori, o al margine. Mi capita sovente di ascoltare su youtube delle esecuzioni in teatri o sale di serie b cantanti di valore, migliori dei big pagati a peso d'oro nei teatri più blasonati.
La coscienza è "pericolosa". Avere il cosiddetto talento, termine che io tendo a non usare e che reputo mal utilizzato, alimenta l'ego, che diventa padrone e ipervalutatore delle capacità del portatore (sostenuto, come s'è detto, da stampa e agenzie). E' spaventoso pensare a una persona che ha avuto un grande successo e che un brutto giorno comincia a sviluppare coscienza. Quando questo accade in età già avanzata può essere un colpo ferale, da suicidio. Ma anche i giovani spesso messi di fronte al fatto che una scuola sviluppa coscienza, si spaventano, anche molto, e rinunciano. Mi è successo diverse volte che persone giovani, già con qualche anno di studi del canto, approdando alla mia scuola, messe di fronte ai problemi esistenti, ma anche di fronte al percorso da intraprendere, hanno deciso, magari con dispiacere e dubbi, di rinunciare. Significa anche rinunciare a sé stessi, perché se non si segue la vera disciplina che porta all'arte vuol dire non poter sviluppare alcuna potenzialità, ma solo riprodurre con artifici tecnici un effetto superficiale, il cosiddetto "timbro lirico", il mito della voce, del canto, senza saper realmente nulla di tutto ciò e senza poter dare realmente niente di sé, se non effetti esteriori, banali, scontati e non di rado ridicoli. Ma è per pochi. Rinunciare all'ego è una delle più impegnative e dure prove per un essere umano, specie in questo tempo in cui è così facile l'accesso alla comunicazione persino a livello internazionale. Nessuno può giudicare negativamente chi sceglie la strada del successo, dell'avere e dell'apparire, è comprensibile. L'unico che lo può fare è il possessore della coscienza, sperando che resti sempre silente.

giovedì, settembre 12, 2019

Cosa si intende per voce artistica

Forse è un punto che non ho mai trattato in modo diretto. Avevo già scritto in passato sul mito della "voce lirica", cioè l'illusione per tantissimi, soprattutto giovani, che esista un "suono lirico" o "impostato" completamente diverso dalla voce parlata. Percorrere quella direzione non porta a risultati artistici. Quello che forse non è ben chiaro è che la voce può essere frutto di molti processi, alcuni corretti altri meno, altri per niente. Quando uno strumentista suona, ad es. un violino, noi possiamo apprezzare la purezza del suono, ma in alcuni momenti potremmo anche apprezzare suoni "ruvidi", poco melodiosi, legati, magari, al carattere di un particolare brano. Ma qualche strumentista meno raffinato o poco istruito può suonare regolarmente con una timbrica "sporca". Dopo poco la maggior parte degli ascoltatori probabilmente si renderà conto della pochezza di quell'esecutore, e gli tributerà ben poco plauso. Nel canto non solo questo non succede, ma addirittura capita il contrario, cioè che il suono puro, pulito, raffinato, espressivo, modulato, sia assai meno apprezzato rispetto a suoni duri, aspri, ingolati, monotimbrici. La spiegazione, che già descrissi tempo addietro, è semplice: il suono puro, realmente artistico, è il frutto di una corrente d'aria di modesta pressione, che metta in vibrazione dolcemente le corde vocali e si arricchisca di armonici e risonanze negli spazi sovrastanti, si articoli in vocali e consonanti concludendo il suo ciclo nello spazio antistante la bocca per poi essere espanso in tutto l'ambiente circostante. Ciò che invece capita nella stragrande maggioranza dei casi, è che la pressione aerea sia esagerata per cui la forza esercitata sotto la laringe impedisce alle corde vocali di vibrare "dolcemente", bensì in modo rude, violento; non solo, a vibrare non sono solo le corde, ma anche parte dei tessuti glottici, i quali producono "rumore". Questo rumore, per molte persone è il "timbro lirico". Cioè l'esatto opposto di una voce artistica. Quando noi parliamo spontaneamente in condizioni di serenità, di rilassatezza, ci troviamo solitamente in una condizione ottimale, non spingiamo e il nostro corpo non ci crea particolari opposizioni, essendo il parlato una condizione legata alle necessità comunicative, relazionali e di vita sociale dell'uomo. Naturalmente questa condizione ottimale è limitata al parlato. Se già si alza troppo la voce, si parla in modo alterato o si cerca di cantare in tessiture improprie, si va incontro a problemi, più o meno rapidi a presentarsi. Se si vuole parlare già a un livello di maggior qualità occorre fare qualche corso; se si vuole usare una voce molto più dominabile, ad es. per recitare, ci vogliono studi lunghi e impegnativi. Se si vuole accedere al regno della voce cantata artistica, siamo ad un livello di studio esponenzialmente superiore. La cosa che appare paradossale, è che lo studio, quello vero, porta la voce cantata allo stesso livello di quella parlata, cioè rende tutta la gamma facile e duttile come quella parlata, senza camuffamenti, senza artifici, senza distorsioni e trucchi. Già solo pensare che per cantare si debbano modificare le vocali (le cosiddette "intervocali") è un andare contro la ricchezza del nostro patrimonio. La parola, con tutte le sue sfumature, non può essere triturata, frullata, omogeneizzata in modo incolore, insapore... ma valorizzata proprio in tutte le sue possibilità espressive, cromatiche, dinamiche, musicali, ecc. Ed è con la parola che va educato il fiato, unico artefice di tutte le possibilità suddette. La corrente d'aria che può "suonare" le corde in purezza, è un fiato "evoluto", un fiato che in natura non esiste perché ignoto al nostro corpo perché non necessario alla nostra esistenza, alle nostre esigenze, ai nostri bisogni primari (e quindi osteggiato). La laringe, se sottoposta a un lavoro improprio si comporta come una "valvola glottica", che si chiude, che si oppone, così come si oppone il diaframma, e di conseguenza il fiato, che invece di "suonare" la corde, le percuoterà con brutalità. Gli "effetti", per chi avrà raggiunto il dominio respiratorio e quindi vocale, saranno sempre possibili; realizzare momenti di angoscia, di cattiveria, di rabbia, di dolore... non costituirà un problema, entro certi limiti. Molto più difficile, per chi brutalizza il proprio organo vocale in continuazione, evocare dolcezza, passione, affetti, sentimenti... Tutte le infinite e assurde "tecniche" basate su pensieri e fatti che coinvolgono direttamente l'organo vocale-respiratorio: alzare il velopendolo, abbassare la laringe, muovere la lingua, pensare di mandare il suono in "maschera", intesa come occhi, fronte, naso, zigomi..., farlo "girare" in gola, in bocca, in nuca, ancora in "maschera", affondare, schiacciare, spingere, alzare, abbassare, tirare, appoggiare sull'inguine, sui reni, sulla schiena, sulla pancia, sul petto, respirare addominalmente, e mille altre di queste sciocchezze illusorie, non porteranno a niente di artistico. Per molti è sufficiente che la voce "rumoreggi"; lo si può fare in poco tempo, spesso senza neanche tante ripercussioni, e con buone possibilità, specie oggigiorno, di buoni e anche grandi successi. E' da comprendere che chi vuole cantare aspiri al successo e ai "danè", più che a far arte, ma è una spinta interiore quella che guida, e se il proprio spirito spinge verso l'arte, l'unico modo per riuscirci è abbattere l'ego, non c'è alternativa. Bisogna tacitare tutte le "vocine" che spingono verso altre direzioni. La voce parlata per molti è banale, volgare, modesta, "ignorante", non consona a un'arte. E' vero, superficialmente, ma proprio per questo esiste un percorso che la può valorizzare, che non vuol dire affatto modificarla, artefarla o in ogni e qualsiasi modo cercare di cambiarla. Cantare non significa questo, ma far sì che si èlevi, e questo succede perché con gli opportuni esercizi il fiato che la origina può evolversi in senso artistico, cioè può andare oltre le esigenze di specie per assecondare le inclinazioni spirituali, quindi artistiche, dell'individuo. Cioè si costituisce un fiato "valorizzatore" E' cosa non da tutti. Spesso e volentieri le difficoltà che si incontrano vengono attribuite a fatti esterni, ad altri. Tutte scuse inutili. Ciascuno di noi è sempre artefice del proprio successo, dei progressi o degli insuccessi e dei rallentamenti. Siamo di fronte a uno specchio "acustico"; le nostre orecchie si evolvono insieme alla nostra voce. Dobbiamo usarle! Ascoltiamoci e ascoltiamo. Nessuno, in natura, possiede le competenze per valutare le qualità di una voce. Tutti credono di "avere" le orecchie, ma si illudono, perché pensano che nessuno possa controllare qual è il nostro livello di percezione, ma i modi ci sono. Spesso rabbrividisco dai giudizi che sento stilare nei confronti dei cantanti che vengono uditi. Ci sono passato anche io quando ero molto giovane, ma ho imparato anche presto a tacere. Celibidache diceva "parla presto chi non sa". Ma anche di fronte ai giudizi affrettati, tipo "beh, il risultato c'è", scoppiava in crisi d'ira: "in base a quali criteri dici che c'è il risultato? quanti criteri conosci? e quanti credi che ce ne siano?". Ecco. di umiltà non se ne ha mai abbastanza. Ascoltare è la cosa più difficile a questo mondo. Meditare, fare con saggezza; non fare tanto per fare, non allenarsi, non c'è meccanicità, noi dobbiamo far emergere dal nostro corpo ciò che già sa. Non dobbiamo insegnargli niente, dobbiamo solo permettergli di realizzarlo non facendo violenza, non imponendogli cure drastiche e ripetitive, ma ascoltandolo e convincendolo che stiamo percorrendo una via di valorizzazione delle sue più recondite potenzialità, quelle che possiamo definire divine, quelle aperture luminose, ampie, infinite che ci guidano e ci mostrano l'eterno.

lunedì, settembre 02, 2019

Aprite!

Nelle odierne scuole di canto (diciamo almeno degli ultimi 30 anni), due sono le cose che "spaventano": i suoni di petto e i suoni "aperti". Per i primi si ricorre al "giramento", nel secondo caso alla "copertura". Quando sento questi discorsi, a me "girano" parecchio, sono frasi che ormai mi nauseano profondamente. Chi non conosce questa scuola e leggesse per la prima volta queste frasi, potrà rimanere meravigliato, persino indignato, visto che ormai è la consuetudine didattica imperante, ma purtroppo la verità è molto distante da queste sciocchezze che portano al degrado della vocalità.
Già ai tempi di Gigli, quando il problema dei suoni aperti era molto meno sentito, lui stesso in un'intervista cosa dice? Che non insegnava perché avrebbe indotto a fare suoni aperti, che sono "pericolosi". Pensate un po' che contraddizione! Uno dei più grandi cantanti del '900, e lo sapeva, che si rendeva conto di fare suoni aperti, riteneva che non andasse bene farli...! Quindi si considerava un po' un'eccezione, uno che riusciva a non farsi del male commettendo un abuso o una scorrettezza. In un certo senso aveva anche ragione.
Cerchiamo di capire meglio tutta la questione. Comincio però dalla prima questione, anche se non è il tema di questo post: i suoni di petto. Ho dedicato tantissimi post ai registri, quindi rimando ad essi per approfondire l'argomento, però potrei non aver mai dedicato qualche riga al termine "girare" nel caso specifico. Se devo essere sincero, non riesco a cogliere alcun senso di dire "gira" quando si vorrebbe un passaggio dal petto al falsetto. Le mie percezioni quando si dice questo sono di spoggiare il suono, cioè di fare un movimento semicircolare dal basso in avanti, che suggerisce solo di alzare la base del suono e farla girare internamente. Sono immagini pessime, più che inutili, dannose! Il fiato, portatore di suono, deve scorrere, fluire in modo dolce e costante secondo la linea naturale della colonna d'aria, dai polmoni verso la parte elevata del cavo orale fin contro i denti superiori e fuori della bocca. Niente giramenti!
Passiamo invece all'argomento clou. Cos'è il suono aperto, e cosa si intende? Ci possono essere due aspetti da considerare. Intanto preferisco definire meglio, invece di suono aperto, vocalità aperta. A noi del suono interessa poco e niente. A noi interessa la voce articolata, cioè il canto con tutte le vocali e le consonanti definite. La voce aperta è una voce particolarmente ben comprensibile, possiamo dire chiara, sia nel senso del colore, ma soprattutto della nitidezza articolatoria. Ma i "tecnici" perché mettono in guardia da questo tipo di vocalità? E lo stesso Gigli, cosa temeva? Ecco qui (e ci allacciamo anche al tema precedente): la voce ben comprensibile è tipica della voce di petto, perché esso è anche il registro specifico della voce parlata. Chi inizia a cantare e non ha doti speciali (come la maggior parte delle persone), superato un certo limite se prova a procedere cercando di mantenere la buona pronuncia, ha buone probabilità di proseguire in registro di petto laddove diventa inopportuno, anche se possibile e non necessariamente dannoso, almeno per un po'.
Dunque questo è il problema e la soluzione, secondo "loro" è: niente suoni aperti (e magari anche poco pronunciati, così si evita che il suono vada avanti e crei lo "scalino") e "girare", cioè consentire il passaggio, ma in questo modo anche spoggiando! Noi invece sappiamo che il motivo per cui a un certo punto il parlato chiaro diventa difficoltoso è dovuto alla carenza respiratoria, cioè la mancanza di un fiato educato a sostenere quel tipo di vocalità. La soluzione più semplice e intelligente, sta nel disciplinare il fiato a evolversi verso questa opportunità, cioè semitono per semitono, parlando sempre in modo esemplare, creare un'esigenza respiratoria relativa. Assecondare i registri così come sono a livello istintivo, significa rinunciare al canto artistico! Le corde e il fiato sono relative a un uomo che non ha bisogno di due o più ottave di voce omogenea, ma può accontentarsi di avere un tratto di voce per parlare e di un tratto di voce per gridare per necessità. Tutta la porzione di voce tra questi due poli non è previsto che abbia una alimentazione respiratoria adeguata, e quindi quando ci si avventura in questa zona, la voce risulta gridata, gracchiante e persino impossibile. Ma con una sana, intelligente, sensata disciplina, il risultato sarà di avere una voce scolpita su tutta la gamma, senza pericoli, quindi "aperta". Schipa docet. Il grande tenore leccese fu educato a questa vocalità, e il suo canto non risulta mai sgradevole, anche se è aperto su tutta la gamma. La diversità con Gigli è che quest'ultimo, pur magnifico, non arrivò al magistero del primo, quindi su alcune note forzava leggermente e si percepisce il carattere un po' gridato, quindi "aperto", ma in modo improprio. Schipa mai.
Obiezione: ma allora si canta tutto di petto? Alcuni vecchi cantanti e trattatisti, cadevano nella trappola, e spesso dicevano o scrivevano che i cantanti maschi cantavano tutto di petto, il che è errato, specie sapendo quanto molti di essi fossero vocalisti di grande qualità. La verità, molto semplice, è che anche il registro di falsetto/testa permette un canto ben articolato, almeno fino alle ultime note standard della donna, ma non solo: la postura delle corde vocali quando il fiato sarà ben educato, consentirà di utilizzare sia la posizione detta di petto che quella di falsetto-testa per quasi tutta la tessitura, con gradualità, e questo può dare l'impressione di cantare tutto di petto, ma non è vero. Questo invece permetterà quella omogeneità timbrica e di carattere propria di un vero artista del canto, che potrà, poi, utilizzare all'occorrenza un maggior carico della timbrica di petto quando avrà necessità di un carattere maggiormente maschile, o di quella di falsetto-testa per un carattere maggiormente femminile per altri contesti (questo, ovviamente, sia per uomini che per donne). Quindi avere una vocalità aperta è indice di una ottima vocalità, a patto che il cantante abbia disciplinato il proprio fiato in modo esemplare, artistico, in modo da poter mantenere sana la propria voce per tutta la vita.

domenica, settembre 01, 2019

Stonato!! 2

Un fatto recente mi porta a fare un'aggiunta al post precedente.
In un ambito musicale ma non vocale, alcune persone dovevano intonare degli intervalli. Una di queste persone viene invitata a intonare un intervallo di quinta rispetto un suono fondamentale dato. Lo fa, ma il suono risulta piuttosto calante. Poco dopo deve nuovamente intonare degli intervalli, e nuovamente la quinta risulta calante. Al termine della prova, questa persona, sapendo della mia cultura vocale, mi si avvicina chiedendo conferma dell'intonazione calante, e confermo, e si dice preoccupata. Gli chiedo allora a rifare nuovamente un intervallo di quinta su un suono che gli intono io, e devo riconfermare che è calante. Allora lo invito a rifare l'intervallo ma dapprima lo esorto a dire bene "O", quindi, vedendo la sua postura orale, gli "aggiusto" la bocca, decisamente errata, prima nell'ampiezza verticale quindi in quella orizzontale. Pochi secondi... e voilà. Prova 4 o 5 volte a intonare vari intervalli, tra cui quinte e ottave... tutte intonate!
Quello che non ho precisato nello scorso post, anche se è contenuto nelle premesse, è che per pronunciare bene occorre una giusta postura della bocca, intesa come mandibola, labbra, lingua... E a questo punto qualcuno potrebbe chiedere: come si deve atteggiare la bocca? Certo, in passato ho anche realizzato alcune foto di atteggiamenti giusti e sbagliati della bocca, ma la questione è che la nostra mente sa già perfettamente come stanno le cose, solo che quando andiamo a cantare, da un lato essa non mette in relazione quella vocale intonata con il parlato, dall'altro ci sono forze che si oppongono al raggiungimento di questo obiettivo. Nel caso dell'esempio su riportato, lui aveva la mandibola "inchiodata", quindi la bocca semichiusa, e il fiato bloccato, compresso sotto laringe e mandibola stessa, e lui che spingeva per cercare di superare l'ostacolo, peggiorando la situazione. Quindi facendogli aprire meglio la mandibola e facendogli focalizzare l'attenzione alla pronuncia sulla labbra, il fiato si è liberato permettendogli una migliore intonazione. Quindi, ciò che è bene ricordare, è che la perfetta pronuncia nel canto non dipende soltanto da una buona intenzione, che già di per sé non è cosa da poco, ma dal raggiungimento di una libertà degli apparati che a sua volta è legata al dominio della respirazione artistica; quella che tutti coloro che cantano e/o insegnano a cantare millantano, ma non hanno mai, e in quasi tutti i casi non sanno nemmeno cos'è e come si raggiunge.