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giovedì, febbraio 27, 2020

"Non cantare!"

Molto sovente durante le lezioni devo usare l'imperativo "non cantare". Sembra un controsenso, siamo qui per imparare a cantare e io dico di non cantare. Ma la maggior parte degli allievi sa a cosa mi riferisco, però è bene approfondirlo qui, ed è una cosa molto importante.
Per molte persone l'approccio al canto lirico è realizzare un sogno; il canto lirico ci porta ad un livello molto alto; i cantanti all'opera ci appaiono quasi dei superuomini, dei divi, degli artisti sommi, che mettiamo su un piedistallo. Io ricordo quando cantavo nel coro del teatro Regio di Torino, un giorno al termine di una recita tornai con un pulman di appassionati della mia città, e quando arrivammo, un signore, che non conoscevo, mi chiese se volevo un passaggio verso casa. Ebbene durante il breve viaggio percepii la forte emozione che questo signore stava provando, gli pareva un sogno portare in auto un artista del coro; e in quel periodo vissi altre situazioni analoghe. Figuriamoci per un solista! C'è anche un forte equivoco, che ci riguarda un po' tutti. Quando ero un ragazzino, ogni tanto, sentendo magari qualche cantante, anche dilettante, ci si chiedeva in famiglia: come si fa a cantare in quel modo? I miei genitori qualcosa sapevano perché avevano abitato vicino al maestro di canto del baritono Gino Bechi, quindi sapevano che bisognava studiare, fare particolari esercizi. Ma a me pareva che ci fosse qualcosa di più, di misterioso. Qualche anno dopo, quando mi appassionai fortemente, un giorno volli provare a registrarmi cantando un pezzetto di romanza. L'ascolto mi scioccò! La mia voce mi sembrava una cosa ben più che orrenda, inascoltabile! Questo mi confortò ancor più sull'idea che ci volesse qualcosa di molto particolare per poter cantare l'opera. Cominciai a leggere libri, e la confusione aumentò. Poi mi decisi a studiare, non per cantare, perché l'idea di avere una voce orrenda ormai si era radicata in me, ma per capire cosa volevano dire tutti questi critici quando imputavano difetti ai più importanti cantanti dell'epoca o anche del passato. Il mio primo insegnante in parte mi tranquillizzò, perché mi diede alcune regole molto fisiche: gonfiare la pancia, premere sulla laringe, pensare il suono sopra gli occhi, allargare la gola, alzare il velo pendolo, non aprire la bocca... Questo mi convinse che cantare significava fare tutta una serie di cose che ordinariamente non facciamo. Questi insiemi di regole fisiche, effettivamente dopo un certo tempo creano l'impressione di una voce "diversa", e questo ci rende felici e contenti, perché ci mette nella condizione di fare qualcosa di speciale, di unico, che pochi sanno. E' come uno che riesce a fare un salto mortale da fermo. Credo che tutti nella propria vita sognino di fare qualcosa di super. Ciò però crea anche molte false convinzioni, difficilissime da sradicare: l'approccio al canto lirico. Quale può essere una pesante critica a qualcuno che studia lirica? "così sembri un cantante di musica leggera". Ci sono tre livelli di critica: "così parli, non canti", "sembri un cantante di musica leggera"; "canti ingolato". Paradossalmente la peggiore, che è la terza, cioè l'ingolamento, è in realtà la più tollerata (perché la più praticata). Le altre due sono ricevute come gravi offese, per cui molti reagiscono violentemente, oppure si deprimono e magari cambiano insegnante. Più d'un allievo durante una delle prime lezioni mi ha chiesto: "ma la voce lirica...?". E quelli che ce l'hanno, disastrosamente realizzata con ingolamenti, nasaleggiamenti e altri artifici, si spaventano quando lentamente li riporto sul piano corretto, perché non sentono più il "rumore", il "timbro" internamente, sentono la voce come svuotata. La paura di parlare, e di sentirsi poi criticare perché stiamo parlando o cantando come cantanti da canzonette, è alta. Alla fine ci si convince di essere sulla strada sbagliata. Anche io un giorno, provando e riprovando, prima di iniziare a studiare, mi convinsi che forse la soluzione era ingolare, anche se in tutti i libri e sentendo parlare gli esperti, era un grave difetto. Ma meglio quello, che comunque faceva assomigliare la voce a quella dei cantanti, che banalizzare con un parlato intonato. Però facciamo qualche considerazione: moltissimi cantanti di musica leggera, citiamo Mina, Massimo Ranieri, Giorgia, Claudio Villa, tanto per dirne qualcuno, sono sempre stati elogiati come ottimi cantanti, anche se non d'opera (per la verità Claudio Villa si esibì in alcune circostanze come tenore leggero, e vi posso garantire che era bravissimo; su internet potete sentire un "duetto delle ciliegie" notevole). Dall'altra parte parlare bene non è qualcosa di negativo. Il teatro italiano ha annoverato grandi stirpi non solo di attori, ma di dicitori di livello stratosferico (molti dei quali tra l'altro sapevano anche cantare molto bene). Allora si può cantare bene mettendo in risalto la pronuncia e si può parlare bene. Poi cominci ad ascoltare qualche cantante d'opera con una dizione perfetta e ti poni la domanda: ma perché non si dovrebbe raggiungere sempre quel risultato? Qui si entra nell'ambito dell'imbarazzo. Io ponevo queste domande, ma le risposte mi risultavano sempre oscure (la cosa inquietante è che le risposte comunque le davano e le danno; peccato che sono inconcludenti, se non false o fumose). Allora, per tornare al titolo, il problema per la maggior parte di quanti si avvicinano al canto è che devono provare a far qualcosa, quindi non possono accontentarsi di applicare la melodia alla parola, nel modo più semplice, persino banale, ma devo aggiungerci qualcosa. Il qualcosa può essere timbro (di gola o naso), leziosità, modalità (usare un registro particolare). Il timbro ingolato attiene più sovente gli uomini, specie ai tenori, perché ingolando la voce si avvicina più facilmente a quella dei tenori (moltissimi dei quali hanno effettivamente una buona percentuale di gola). Nelle donne il problema più serio riguarda l'uso del falsetto (ed ecco la "modalità"). Siccome oggi come oggi sono piuttosto rare le donne che parlano abitualmente di falsetto, questo è automaticamente individuato come "la voce lirica". Solenne stupidaggine. Per cui molte dicono: "ora parlo con l'impostazione lirica". Cioè semplicemente usano il falsetto. Poi giudicate voi il paradosso di un numero enorme di insegnanti e cantanti che vietano o indicano come pericoloso l'uso del registro di petto, quando tutti, uomini e donne, parlano normalmente di petto e migliaia di cantanti, non lirici, cantano tutta la vita solo di petto. Potrebbe essere discutibile a livello stilistico, ma dove può stare il "pericolo"? Poi naturalmente c'è anche (ancora) l'ignoranza di chi associa petto e falsetto alle due parti anatomiche, che fu l'idea originale quando non si sapeva nulla di anatomia e fisiologia, ma oggigiorno pensare ancora che la voce di petto sia "bassa" e quella di testa "alta", e che quindi bisogna cantare tutto di testa per tenere il suono alto (ovvero "in maschera", per far risuonare gli spazi sopraglottici), è prendere atto di un mondo sprofondato in una abissale ignoranza che può solo dare i frutti che dà. Allora la domanda è: si può parlare di falsetto? Certo che sì; anche se diventa sempre più raro, ma ci sono donne che parlano, magari non continuativamente, di falsetto, senza particolari problemi (mia mamma, per esempio). E' un approccio fondamentale che per chi vuol affrontare il canto lirico è indispensabile. Invece la maggior parte degli insegnanti si limita a far vocalizzare, dimenticando che questo è il passo iniziale. L'uomo impara a parlare, poi eventualmente a cantare, non viceversa (beh, poi ci sono quelli che pensano che i vagiti dei bambini siano canto e bisogna imparare da questi, senza aver nessuna cognizione in merito). Allora, se si vuole veramente fare dell'arte vocale, quindi giungere a un vero canto artistico, che possa permettere di cantare con omogeneità, sincerità, musicalità, espressione, ecc. ecc., l'unica e vera strada è quella che parte e si sviluppa dal parlato (meglio: evolve). Bisogna abbandonare ogni atteggiamento illusorio, artificioso (o artificiale), fisico, costruito, atteggiante. Disinteressarsi di eventuali critiche (ovvero autocritiche), e cambiare radicalmente approccio: la voce "vuota" è buona, ma non è realmente vuota, è LIBERA! il timbro e la cosiddetta voce lirica, verranno! senza nessun dubbio. Chi ha mai imputato a Schipa e a Toti dal Monte di essere cantanti di canzonette? Eppure erano in grado di cantare anche romanzette e canzoni con grande successo, cosa che oggi ben pochi sanno fare (salvo "liricizzare" le canzoni, cosa che è già successo per le melodie napoletane). Abbandonare le velleità "liricoidi" per una verità artistica che null'altro è che una esponenzializzazione del parlato. Quando parliamo, senza saperlo, noi mettiamo in sintonia i tre apparati: respiratorio, produttore e amplificante-articolatorio. Diventano una cosa sola. Questo non ci crea alcun problema e ce ne consente un uso anche piuttosto prolungato. Se canticchiamo in casa mentre facciamo altro, senza pensarci, manteniamo questa unificazione. Se invece ci poniamo in un atteggiamento di voler fare chissà che, quindi cantare romanze liriche o canzoni impegnative, perdiamo questa sintonia tra gli apparati, ognuno va per sé e non trovando corrispondenze, lavorano tutti male. Quale sarebbe il senso di lavorare indipendentemente su ciascuno di essi? Nessuno. Si deve lavorare per far MANTENERE i rapporti tra gli apparati, ma non c'è nulla da inventare, nulla da costruire o trovare, perché la soluzione c'è già! Il parlato, per quanto modesto, si trova già in questa condizione, si tratta di non perderla, quindi di applicarla al mondo del canto. Si incontreranno difficoltà? sì. enormi, perché il regno del parlato è un regno limitato, che noi vogliamo ingrandire, espandere, e questo crea problemi di tolleranza, che però si possono superare agevolmente esercitandosi costantemente su questa linea, senza mai abbandonarla. Si deve sempre avere chiaro l'obiettivo, che è quello di comunicare, quindi fare un vocalizzo senza senso, non può portare a un risultato efficace, perché ciò che è fine a sé stesso è destinato a sparire. Quindi il vocalizzo astratto non può venire bene, deve essere rapportato a una vocale che abbia un senso, che dica qualcosa, quindi può essere una congiunzione o può essere una vocale interna a una parola, che noi proseguiamo senza farci suggestionare dal fatto che abbiamo spezzato la parola (ad es. maaaaaaaa...[mma]). Si deve restare attaccati all'idea che quella non è una A chiusa in sé, ma è la A di mamma (o di qualsiasi altra parola che la contiene). E' un procedimento semplicissimo, che toglie un sacco di sciocchezze dalla mente e dal corpo (pensate a tutti gli insegnanti che non fanno che ripetere: alza, premi, spingi, tira, ...), ma che richiede una pazzesca concentrazione. Perché la chiave di tutto è l'essere PRESENTI. Vuol dire che in ogni secondo noi dobbiamo sapere cosa stiamo dicendo, e non lasciare che venga ciò che vuole. Il nostro istinto ci porta a distorcere per fare qualcosa di meno impegnativo, che costi meno energia (e quindi concentrazione). Quando si comincia a salire di tessitura, cominceranno i guai, perché il fiato spingerà e ci farà storcere la bocca, salire la mandibola e la lingua... quindi noi dobbiamo osservarci (anche allo specchio) e essere presenti, non lasciare che la bocca si storca, ecc., dobbiamo concentrarci e far sì che si mantenga la naturalezza del parlato ma senza alcuna forzatura. Quando dopo alcune prove una parola o sillaba o vocale non viene bene, conviene non insistere e scendere nella tessitura. Riposarsi e riprendere da note più basse. Si può riprovare, ma conviene aspettare, sicuramente nei giorni successivi si riuscirà meglio, senza aver fatto niente di particolare. Il nostro fisico ma soprattutto la nostra mente percepiscono la nostra esigenza e ci permetteranno un avanzamento. L'importante è: non cantare, parla!

venerdì, febbraio 21, 2020

Emozionare?

Per molti cantanti, anche in erba, l'imperativo è: "emozionare". Di per sé l'obiettivo non è sbagliato, si tratta di vedere come. Ma non solo; l'idea ha molto a che vedere con l'ego. Potremmo dire che per il cantante è come se il compositore avesse scritto musica affinché IO possa mettere in luce le MIE capacità di emozionare. E' l'inconscia meta di gran parte, quasi tutti, i sedicenti INTERPRETI, che anche se fanno un gran parlare dell'autore, alla fine non fanno altro che sovrapporsi e dare la propria versione di un brano, inventandosi poi cose tipo le tradizioni, il "si è sempre fatto così" e il "ciò che non si può dire o scrivere". Anche su questo c'è un pizzico di verità, ma c'è molto spazio tra l'interpretare e il riconoscere. Riconoscere vuol dire applicare criteri per eseguire il più fedelmente possibile un brano musicale; interpretare, specie come fanno gran parte degli esecutori, vuol dire andare alla cieca, facendo conto sull'ignoranza popolare, sul carisma (vero o presunto) e quindi sulla fama acquisita... non sempre si sa come. Avere una buona e bella voce, musicalità, cosiddetto talento, è senz'altro una importante premessa per assurgere alla popolarità. Ma non basta. Purtroppo soprattutto nel regno del canto c'è (e c'è da tanto tempo) una linea di sottocultura anche musicale piuttosto marcata e preoccupante. Oggi è un po' migliorata sul piano informativo, dopo le stagioni delle rinascite rossiniane e barocche, ma è precipitata sul piano strettamente vocale. Come ho già detto molte volte, non c'è mai stata tanta pubblicistica sulla voce come oggi; escono di continuo libri sul canto, specie sulla tecnica, per non parlare di tutto l'universo internet. Eppure il livello del canto è ai minimi storici. Perché quanti scrivono e propagano, anche come formule magiche, per quanto ne so, non fanno che riciclare (anche se apparentemente in modo fantasioso e originale) le idee che serpeggiano dal dopoguerra (citando a vanvera i trattati antichi), senza alcun fondamento e alcun serio approfondimento. Anche qui tutta interpretazione per far passare le PROPRIE idee e non portarsi verso la verità.
Dunque, il cantante che si sente portatore di grandi cose da dire, ha la certezza che i propri valori, quindi le proprie emozioni, siano il motivo fondamentale per cui DEVE cantare e che non può esistere che venga nascosto al mondo un simile tesoro, anche se il modo di comunicare, cioè il canto in sé, è difettoso. Non per nulla la storia è piena di cantanti persino imbarazzanti che hanno avuto successo e una carriera importante. Crediamo che il succo sia che questo o quel cantante emoziona, indipendentemente da come, e lui è convinto che il suo successo sia dovuto al fatto che sa far emozionare. Quindi esistono due mondi che si incontrano in questo assunto, che nasconde una tragedia, cioè la superficialità, l'assenza di contenuti. Va bene così, sia chiaro, è giusto che ci sia anche questo livello comunicativo; ciò che contesto è che questo sia il più importante e oggi quasi l'unico. Quale ritengo invece dovrebbe essere l'abito mentale del cantante e del pubblico? Vogliamo togliere le emozioni? No di certo, ma il passaggio dal cantante al pubblico deve avvenire tramite un percorso ben più approfondito. Non è l'emozione del cantante a dover passare direttamente al pubblico, perché questo è un dato soggettivo e limitato. Tutto deve partire da quel messaggio spirituale che il compositore ha saputo tradurre in musica, e attraverso l'esecuzione "trasparente" passa agli spettatori che si emozionano ognuno per sé, cogliendo il messaggio originale. Se il cantante (o esecutore in genere) ci mette la propria emozione, distorce, filtra, sovrappone e quindi falsa, modifica il messaggio originale. Quindi qualcuno può chiedere: ma allora il cantante non deve inserire le proprie emozioni nel cantare? E' il modo che deve cambiare. Il pubblico piange quando sente la storia di Cio Cio San, o di Mimì, tanto per dire. Si emoziona per l'amore interrotto dalla morte, per il tradimento o quant'altro. Cioè per la storia. Se il cantante si mette nella stessa situazione, potremmo dire che interrompe il flusso tra compositore e pubblico; diventa lui il pubblico e fa da "ponte". Ma non va bene così. Egli deve fare in modo che ciò che ha prodotto genialmente il compositore passi al pubblico. Il compositore non può arrivare da solo al pubblico, perché la musica ha questa caratteristica. Nasce e muore ogni volta. Ma perché nasca occorre che si abbiano i mezzi giusti, che non sono solo i suoni. Occorre che il flusso di suoni che si sprigiona dagli strumenti e dalle voci segua un percorso musicale, che invece il più delle volte si interrompe e talvolta muore appena nato oppure diventa un susseguirsi di nascite e morti nel corso di tutta l'opera. Gli esecutori dovrebbero per primi avere coscienza che un brano, un'opera, è UNO, è come un cerchio chiuso, solo che è disteso in un susseguirsi di eventi sonori, che la nostra coscienza è in grado di unificare, ma ammesso che ce ne siano le condizioni. E le condizioni le può ricreare l'esecutore, se è conscio di ciò che fa (quindi le RICONOSCE, non le interpreta), oppure non ci sono, e sarà un flusso interrotto, incompleto, un cerchio aperto e spezzato. Perché tante persone si annoiano all'opera, aspettano solo questa o quell'altra aria o duetto? e perché tanti cantanti alla fine preferiscono dedicarsi ai concerti e difficilmente giungono al palcoscenico? Perché un'opera intera non può essere un profluvio di emozioni dall'inizio alla fine; come in tutte le cose, esiste un percorso "altalenante", che lo rende "digeribile"; non si potrebbe tollerare, ad es., un film o un racconto dove regna il terrore dall'inizio alla fine; ci vogliono dei picchi, ci vuole una strategia di alti e bassi che generi prima tranquillità per poi dare la spinta ai punti di terrore. Una sola emozione sempre alta darebbe assuefazione. Così capita che il cantante che vuole vendere le proprie emozioni come ingrediente principale, nei punti in cui le emozioni sono di modesta entità o non ci sono proprio, non ha nulla da elargire, e annoia. Non ha strumenti da utilizzare; se non si emoziona lui o lei, come farà a coinvolgere il pubblico? Beh, anche qui la fantasia non manca. Non è che non lo sappiano o non se ne accorgano che in certi punti il rischio noia e caduta sono in agguato. Non solo; molti cantanti si rendono anche conto che le proprie emozioni non sono così coinvolgenti, non riescono a colpire tutti e in modo importante ("come??, io in questa scena muoio di dolore, (o di amore, o altro) e questi restano indifferenti? hanno il cuore di sasso!" cioè la colpa è degli altri che non hanno la loro stessa sensibilità). Ed ecco che all'inizio del 900, in un mondo lirico ancora di altissimo livello, nasce il verismo vocale, cioè qualcuno (diciamo pure nome e cognome: Enrico Caruso), interpretando (e dalli) il mondo del pubblico popolare, forse anche pensando di rendere più chiaro ciò che avviene in scena, comincia ad inserire nell'esecuzione anche un corollario di artifici: pianto, singhiozzi, parole aggiunte, sospiri, gemiti, ecc. E' una lunga parentesi, anche comprensibile per qualche verso, ma che a fronte di esecuzioni vocali anche di alto livello, rende certe esecuzioni persino ridicole. Questo però ha dato il la a tutta una pletora di cantanti, non tutti di primo livello, a vendere esecuzioni più farcite di suggestioni che di musica e canto. Se oggi questo non è quasi più tollerabile in termini di aggiunte, il principio potenziale è rimasto. Intanto non ci si schioda dalla tradizione degli acuti, per cui anche nei teatri di prima grandezza si tollera di abbassare un'aria o una cabaletta per non togliere un acuto, anche inesistente nell'originale e si continuano a perpetrare tagli e aggiunte fuori luogo (ma in questo anche certe esecuzioni "filologiche" riescono a far danni), ma i cantanti continuano a interpretare a proprio modo certi passi, apparentemente corretti ma in realtà distorti, sempre per l'assunto che essere troppo aderenti alla parte scritta sia "freddo" e quindi non passino le emozioni (del cantante, ovvero del suo ego). Quindi qual è la giusta strada da intraprendere in una visione realmente artistica? E' inserirsi in un percorso di riconoscimento. In primo luogo comprendere il percorso TENSIVO che il compositore ha seguito. Dove va a "più" (cioè dove cresce la tensione) e dove va a "meno", (quindi dove la tensione cala). Come ha creato la tensione? con la melodia, con il ritmo, con l'armonia? con più cose insieme?. Come la tensione si accompagna al testo? Dove è il punto di massima tensione?
Se il canto fosse davvero considerato una cosa seria, non esisterebbero insegnanti che sottostimano la pronuncia (le "A" non si fanno, le "I" nemmeno; omogeneizziamo tutte le vocali, ecc.). Il pubblico non dovrebbe avere i sopratitoli a teatro o in tv (tranne, eventualmente, per la lingua straniera, per quanto siano eccessivamente distraenti), dovrebbe poter tranquillamente seguire ciò che i cantanti dicono; per cui il difetto sta addirittura nel manico, come suol dirsi, cioè fin dall'inizio noi abbiamo cantanti che badano ai suoni, cioè al significante, e non ai contenuti, ovvero ai significati. E su questo siamo a livelli terribilmente bassi; oggi una pronuncia men che mediocre viene spacciata per buona. Io consiglio di ascoltare le grandi voci degli attori di qualche tempo fa, per rendersi conto di cosa vuol dire: DIRE.

Il fiato morbido

Tutte le "manovre" normalmente consigliate dagli insegnanti di canto specie nei primi tempi di studio, tendono a schiacciare, strizzare (termine usato da Celletti, che Dio l'abbia in gloria), premere, stringere... il fiato. Convinti che il fiato debba essere premuto contro le c.v. per produrre più suono. Allora dagli con i libri sulla  pancia, con le pressioni in dentro o in fuori, le sollecitazioni dal basso ventre e chi più (schifezze) ne ha, più ne metta. Colpi di petto, colpi di gola, pressioni dall'alto o dal basso... tutti artifici che non fanno che peggiorare la qualità. Purtroppo possono anche provocare qualche risultato che ai poveri di spirito può apparire importante, ma, per contro, può anche provocare danni. Ma quando è così è sempre l'allievo che non è pronto, che non ha talento, che non ha capito, e via dicendo. Viceversa, la cosa più intelligente e consona, è lasciare il fiato morbidamente adagiato sul suo comodo letto, che è il diaframma, il quale è sempre molto nervoso, si agita parecchio già per i fatti suoi, e non è molto astuto andarlo a provocare con spinte di qualunque tipo. A parte questo, il fiato premuto non può svolgere convenientemente il suo lavoro, perché premendo sulle corde vocali ne provoca il sollevamento e l'impossibilità di vibrare correttamente. E questo è uno, ma il fiato teso non può neanche provocare un suono bello, ma risulterà violento, troppo veloce, quindi suoni aspri e poco eufonici. Il fiato disteso, rilassato, morbido, darà vita, invece, a bei suoni rotondi, omogenei, ampi, sonori, ricchi. Come adagiarsi su un sofà con bei cuscini, o meglio ancora, su una soffice nuvola. Al contrario sedersi su un pezzo di roccia... cosa preferite?

martedì, febbraio 11, 2020

Schiavi della mente

In fondo la questione, a ben riflettere, non è così difficile da capire...
Siamo tutti essere umani, la voce, salvo patologie e difetti congeniti, l'abbiamo tutti. Certo, con differenze, come tutto, ma realmente perché alcuni possono cantare a livelli straordinari e altri hanno difficoltà incredibili? Alla fine la soluzione è semplice: è la mente che ci condiziona. Infatti una frase che ripeto spesso è: non pensare! Sembra un paradosso, ma se ci fate caso, molto spesso cantando in modo spontaneo e con nonchalance riusciamo a fare cose migliori. Questo perché la mente in questa attività non ci è d'aiuto, ma anzi è più d'ostacolo che altro. Anche tutto il vocabolario concettuale che accompagna il canto: registri, classi, attacco, passaggi, appoggio, maschera, ecc., sono incasellamenti che non solo non sono utili, ma tendono a farci spezzettare il discorso, e quindi a non raggiungere l'unità che è invece la meta. "Pensa a questo... pensa a quest'altro"... e riteniamo che quella sia la strada per la soluzione, ma è invece la strada per la confusione. Intanto c'è il problema più grande, che è l' "oggettivizzazione" della voce, cioè darle un ruolo concreto, materiale, come fosse un oggetto (tanti anni fa scrivevo tra i primi post: "la voce non è un vaso di fiori!"). La mente non può farne a meno, non concepisce l'astratto, e questo è un enorme problema, perché mentre nel parlato noi non pensiamo a COME parliamo, ma ci affidiamo alla spontaneità, nel canto questo non lo sappiamo fare perché il canto non ci è naturale, ed ecco quindi che siamo portati a pensare, cioè a cercare di capire come fare. Se ci danno una scatola di costruzioni, o un mobile da montare, noi dobbiamo leggere le istruzioni e cercare di capirle, poi un passo alla volta agiamo. E spesso sbagliamo. Ma anche suonando uno strumento, perché noi vediamo, percepiamo con gli occhi e con il corpo ciò che dobbiamo fare. Col canto quel tipo di esperienza non è confrontabile, perché non abbiamo pezzi da mettere insieme, non abbiamo concetti e oggetti con cui confrontarci, non vediamo e percepiamo in modo indiretto. Questo porta gli insegnanti, i teorici, ad attaccarsi a due modalità: l'anatomia e/o le immagini mentali. Negli ultimi anni ha prevalso senz'altro la raffigurazione anatomica, quindi consigliare all'allievo movimenti di parti dell'apparato o posizioni della voce (cosa impossibile) in particolari zone dell'apparato. Altre scuole si rifanno a immagini meno legate all'apparato, e vanno per metafore. Quest'ultima modalità, che ha comunque i suoi lati negativi, è comunque preferibile alla prima. Come si sarà compreso, comunque, la strada ideale è quella di liberarsi dalla schiavitù mentale. Non è come dirlo!! Dobbiamo avvicinarci alla questione un po' alla volta. Rendersi conto, quindi portare a coscienza che la voce, comunque sia, non è un "prodotto" materiale, ma è fiato, cioè una impalpabile, invisibile, immateriale e dinamica proiezione del corpo. Non c'è niente di intellettuale, di razionale, di fisico in questo. Noi tendiamo a confondere la coscienza con la mente, o addirittura con la memoria. Qui non c'è da ricordare, ma di interiorizzare. La voce va come deve andare e noi dobbiamo lasciarla andare, non cercare di guidarla, di intrappolarla, di modificarla. E quindi, come al solito, ripetiamo: come il parlato. Ma sappiamo che già il passaggio dal parlato comune a un parlato intonato crea già qualche imbarazzo. Ed è per questo che occorre farlo molto, fin quando lo facciamo con scioltezza, senza pensare, appunto. Per avvicinarsi meglio al canto dei brani, è sempre bene conoscere bene il testo, perché essere legati alla melodia è di per sé anch'essa una sudditanza che non aiuta. Quindi, conoscere il testo e provare a recitarlo. Conoscere la linea musicale, in modo che quando si va a cantare non si venga colti dalle carenze dell'uno e dall'altro campo. Il testo è bene cantarlo su una "cantilena", su una scaletta, su una nota, su un arpeggio, ecc. La linea musicale è bene studiarla con sillabe e con vocali. Prima di portare il canto alla sua esecuzione definitiva, a meno che non sia particolarmente semplice e di modesta estensione, è meglio studiarlo ed eseguirlo su una tessitura leggermente più bassa. Insomma, passare attraverso tutte le fasi che consentano la minor preoccupazione, i minori problemi possibili, e proseguire con calma, con cautela.

mercoledì, febbraio 05, 2020

Motto

Non è una particolare respirazione a determinare un buon canto, ma la parola elevata a canto a sviluppare la giusta respirazione.

domenica, febbraio 02, 2020

Della concentrazione

Che cosa fa di un buon artista un grande artista? La capacità di concentrazione. Ma forse su questo punto le idee non sono tanto chiare. Facciamo un passo indietro. Cosa fa di un modesto o pessimo principiante un decoroso apprendista? Sempre la capacità di concentrazione. Ma che differenza c'è tra la concentrazione del primo e del secondo. E' la continuità. La continuità di concentrazione del grande artista è omogenea. Da qui possiamo anche fare il parallelo con la musica stessa. Far sì che un insieme di suoni possa diventare musica, richiede che la fine sia contenuta nell'inizio e ogni articolazione sia in rapporto con l'inizio, la fine e il punto di massima tensione. La concentrazione è comunque uno stato tensivo, seppur legato a una condizione di rilassamento. E qui possiamo fare il paragone con l'emissione vocale. L'ideale emissione vocale è quella ove il fisico non interagisce con il suono se non nella sua condizione di passività, cioè è l'involucro che permette il passaggio del suono, mediante una produzione sempre passiva da parte delle c.v., ammesso che le condizioni respiratorie abbiamo il sufficiente grado evolutivo per sostenere quel o quei determinati suoni. Ciò, però, che rende artistica la voce ed esemplare il canto, è la mente artistica. La mente artistica è la mente scevra dai pensieri concettuali, quindi la mente "concentrata" sull'azione. La concentrazione della maggior parte dei principianti, ai vari livelli, è la discontinuità, potremmo dire perennemente distratta. La distrazione è la divisione del cervello. L'esempio più semplice e universale è quello della lettura; quando a un certo punto leggendo un libro ci fermiamo perché ci rendiamo conto che non abbiamo realmente letto niente delle ultime righe o addirittura intere pagine e dobbiamo rileggerle. La nostra mente, in quel frangente, se n'era ita a spasso. Magari stava anche solo riflettendo su ciò che avevamo letto poco prima, però, di fatto, ci ha impedito di leggere realmente ciò che è venuto dopo. Il fenomeno è quasi inevitabile quando ciò che stiamo facendo, vuoi suonare, vuoi leggere, vuoi ascoltare, ci interessa poco, non ci piace, non lo comprendiamo. Il motivo per cui a scuola gli insegnanti insistono affinché si studi a voce alta, è anche dovuto a questo. Dovendo leggere e parlare (e ascoltare), la mente è molto più impegnata e più difficilmente si distrae, ma non si creda che sia la soluzione definitiva; anche in questo modo essa sa prendere strade parallele e quindi evitare la fatica. Già, perché la concentrazione per la mente è un lavoro molto dispendioso. Riflettiamo: qual è la cosa che noi tutti riteniamo mentalmente più difficile? credo non ci siano dubbi: non pensare! Se il pensare ordinariamente inteso fosse una cosa impegnativa, sarebbe molto facile non farlo, non avremmo particolari problemi. Invece per la mente avere questa "divagazione" continua è uno stato di rilassamento. Questo perché i nostri pensieri in realtà, per la maggior parte, sono solo passeggiate. Con questo non c'è da fare tutt'erba un fascio, ci sono pensieri che impegnano e richiedono concentrazione. Ma questi ci occupano solo per un tempo limitato, occasionalmente. Chi svolge continuativamente un'attività artistica ad alto livello, invece, si impegna e occupa molto tempo a una vera concentrazione, e può arrivare a risultati di incredibile altezza nel suo campo.
Qual è lo scopo di questo post? Cercare di dare qualche consiglio a chi inizia lo studio del canto, ma anche chi già lo pratica a un certo livello. La credenza comune è che i progressi si facciano con la pratica... e basta. No, la pratica è indispensabile, ma solo se accompagnata dal necessario stato di concentrazione. Se noi facciamo esercizi per un lungo tempo, è molto probabile che si facciano dei progressi, ma questi li dobbiamo considerare MECCANICI. Quando qualcuno dice: "ah, sì, poi questa cosa poi diventa automatica", mi suscita un certo nervosismo, perché non è e non deve essere questo l'obiettivo. Assimilare e far diventare automatico, sono due cose diverse. Quando noi facciamo regolarmente un certo percorso stradale, il giorno in cui dobbiamo andare in luogo diverso, ma che richiede una parte dello stesso percorso, rischiamo di tornare dove andiamo di solito, perché la nostra mente è distratta e agisce automaticamente. Si comprenderà che questo è un errore. Noi non dobbiamo agire meccanicamente, ma coscientemente, e ciò che ci permette di agire coscientemente è la concentrazione. Cosa significa concentrarsi per chi è agli inizi? Significa agire univocamente nei confronti di quanto dobbiamo (e vogliamo) fare. La maggior parte degli allievi quando deve fare un certo esercizio, ha la mente sdoppiata, in parte è impegnata nell'azione, in parte verifica e giudica. Nelle filosofie buddiste si ripete quasi incessantemente nelle varie pratiche il termine: "non duale". Mettiamo che debba pronunciare delle sillabe su cinque note. Per la maggior parte dei casi, dopo 3, 4, le ultime sono molto spesso "abbandonate", quindi vengono quasi sempre male. In molti casi succede che avendo controllato le prime 2 o 3, ha notato qualcosa, e già vuole dirlo, senza però interrompersi, e quindi le successive sono del tutto incoscienti. La concentrazione non vuole giudizio!
Se ogni nota che si fa si giudicasse, si toglierebbe concentrazione dal suono successivo. Concentrazione significa fare bene nel PRESENTE. altrimenti si resta nel passato. Se ci sono da fare cinque note, le si devono fare meglio che si riesce. Se si avverte un errore importante, ci si ferma, si può ricominciare o attendere la valutazione e il consiglio dell'insegnante, se non si è sicuri del tipo di errore che si è fatto. Se ci si è impegnati a far bene tutto l'esercizio, si ascolterà la valutazione e si andrà avanti o si ripeterà secondo le indicazioni dell'insegnante. Concentrarsi cosa vuol dire? Vuol dire rilassarsi ed emettere frasi, sillabe o altro previsto dall'esercizio cercando la naturalezza, evitando ogni affettazione e sforzo. La concentrazione TRANQUILLIZZA! anche se può sembrare il contrario. Essa ci dà la sicurezza di ciò che stiamo facendo; non che il risultato sia scontato, ma che è la strada, l'unica, per arrivare all'obiettivo. Allenarsi senza concentrazione significa vivere nell'incertezza, perché la mente non sa cosa stiamo facendo e dove vogliamo andare. Il giusto esercitarsi concentrato è un po' una meditazione, e la meditazione non è non pensare, ma concentrarsi su una cosa. La cosa su cui concentrarsi è, ad es., la sillaba, la frase, la vocale, che dobbiamo dire. La semplicità è la strada migliore per la concentrazione, perché ci sono soltanto uno o due parametri su cui focalizzare l'attenzione (pronuncia e intonazione, se è un esercizio cantato). Come mai la maggior parte delle volte non c'è la pronuncia? non c'è, ovvero è carente o molto carente, perché la concentrazione non è sufficiente. Questa purtroppo è la differenza tra chi ha una capacità molto elevata e chi più lieve. Però è un dato migliorabile. Non si deve pensare che si sia negati o limitati, la concentrazione si può molto migliorare. Molto spesso ogni persona ha dei campi in cui riesce a concentrarsi molto e a lungo, ma non sa farlo in altri campi. Allora si può provare a "traslare" questo stato concentrativo nell'altro campo, concentrandosi nella cosa che ci viene meglio e occupandosi subito dopo dell'altra. La concentrazione è uno stato difficile da descrivere (non concettuale) e quindi da applicare in modo spontaneo e, per l'appunto, meccanico. Ci vogliono condizioni che dipendono da diversi fattori, non tutti coscientemente riconoscibili. Quindi la strada migliore è di attivarla nel campo che ci è più congeniale e trasferirla rapidamente ad un altro.