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domenica, dicembre 11, 2022

Volere volare

 Questa scuola potremmo dire che dà le ali per volare. Sono "alucce" nei primi mesi, e crescono e si sviluppano nel tempo. Non credete a chi vi dice che il canto è fatto di "automatismi" che si acquisiscono nel tempo! L'automatismo è un concetto materialista e meccanicista; non c'è alcun meccanismo e alcuna tecnica da impare, vi consiglio di non usare questa terminologia, perché non dà giustizia della verità del canto. Lo studio di un'arte come la vocalità classica consta d'una evoluzione, che in questo caso è quella del fiato. Ciò significa che con i giusti esercizi si acquisisce man mano anche la coscienza di quest'arte, pertanto a un certo punto la voce spiccherà il volo, si espanderà e si amplierà senza che il cantante faccia alcunché, anzi, proprio il contrario, dovrà fare sempre meno, dovendo diventare un flusso mentale operante. Ma proprio qui sta uno dei problemi più seri che ci si trova ad affrontare! Gli allievi non mollano! Cioè non ritengono possibile cantare senza far niente. E' come se, potendo volare senza far niente, si continuasse a sbattere le braccia, e in quel modo non succedesse niente, perché tutto quel darsi da fare non solo non produce gli effetti sperati, ma, al contrario, inibisce quelle capacità apprese che ti permettono di elevarti senza alcuna tecnica, persino senza una volontà e un pensiero specifico. Purtroppo sto affrontando il problema di diversi allievi che non si rendono conto di poter fare ciò che non credono, senza far niente. Continuano a voler cantare facendo cose, manovrando, spingendo, ecc. La semplicità, il "non far niente", è davvero la cosa più difficile da imparare. Un vero peccato.

mercoledì, dicembre 07, 2022

Non tener su!

 Molto sinteticamente: moltissimi insegnanti insistono con i loro allievi di "tenere su" il suono, mandarlo in alto et similia. E' un consiglio pessimo! Tener su significa due cose: alzare la base del fiato dal diaframma, quindi togliere appoggio, ma soprattutto stringere i muscoli faringei, e quindi tenere il suono indietro e stretto. Tutti difetti orribili, senza contare che si andrà anche a togliere intensità e pienezza alle note basse (in particolare le donne rischiano di tenerle tutte in un falsettino debolissimo). Lasciate andare, non pensate, cantate come parlate, è il fiato che vi sosterrà, cioè l'evoluzione respiratoria che procederà se farete gli esercizi correttamente e soprattutto con coscienza. Tutto qui! Punto.

venerdì, dicembre 02, 2022

La discesa col "paracadute"

 Quante voci, soprattutto femminili, avrò sentito che commettono vere bestialità durante le note discendenti? Decine! Per ragioni che imputo soprattutto a insegnamenti gravemente erronei, molte cantanti ogni volta che fanno una scaletta o un salto verso il basso, tendono a "tenere su", e quindi a spoggiare, a sollevare il fiato dalla base, con le ripercussioni che forse non tutti si immaginano (se no non sarebbe un problema così diffuso), cioè centri sfocati, falsi, ingolati, afoni, ecc. Il dato fondamentale che questi allievi o cantanti non percepiscono, è che la gola si chiude, e quindi il suono si impoverisce (dovuto, questo, all'appoggio che si va perdendo). Ma il dato psicologico deriva da quel "pensare alto" che viene suggerito da molti insegnanti. Bisogna capire che questo consiglio E' SBAGLIATO! Il fiato si educa con la pronuncia corretta (vorrei dire: più che corretta!!), vera, reale! Per le donne vale, salendo, fare la voce infantile. L'educazione respiratoria è di per sé più che sufficiente a far sì che la voce sia sostenuta, quindi il cantante NON DEVE pensare a indirizzare la voce da nessuna parte, deve sole PARLARE con la massima schiettezza e semplicità. "Cara semplicità, quanto mi piace", dice Alfonso nel Così fan tutte. Fatevelo piacere, se volete accedere al canto artistico vero. Se siete innamorati della vostra voce interna, quel "uuuu" inarticolato, ma magari bello, seguite quella strada, e non leggete più questo blog, o non venite a lezione qui, perché non abbiamo niente da dirci. Quando fate salti verso il basso o una scaletta discendente, DOVETE SCENDERE!! Dovete lasciar andare e rilassare tutti i muscoli del collo, e non frenare, non bloccare, non cercare di "tenere su". Niente "immascheramento"! Tutte... mmm come dire? sciocchezze? ok, vada per sciocchezze. 

lunedì, novembre 28, 2022

L'arte "naturale"

 Si può dire che ci siano forme d'arte già in Natura? Certo che sì, considerando che l'Arte non è che espressione della Verità, dunque non si vede perché non dovrebbe già avere manifestazioni naturali. La questione è vedere se... serve! Purtroppo in Natura resta solo ciò che ha utilità pratica e necessaria alla vita, alla sopravvivenza, alla perpetuazione delle specie. In fondo possiamo osservare molto semplicemente che lo stesso corpo umano (ma anche di tutte le altre forme viventi) è già un oggetto d'arte, è meraviglioso e perfetto. Ciò che lo rende, eventualmente, imperfetto è l'uso, ovvero incidenti di percorso. Una domanda che mi è stata posta: possiamo dire che il parlato sia già di per sé una forma d'arte? Ebbe sì, lo possiamo dire. Come ho già scritto in passato, il parlato è qualcosa di perfetto, nel contesto del suo uso, cioè la comunicazione verbale minimale, semplice tra persone. Il fatto stesso che per arrivare a questo stadio evolutivo la Natura abbia dovuto fare uno sforzo enorme di modificazione anatomica, e ci abbia messi nella condizione di unificare tre apparati (respiratorio, produttivo, amplificante-articolatorio), ha del miracoloso, dello strepitoso, cui noi dovremmo guardare con molta attenzione, molta più di quella che usiamo normalmente, perché il fatto stesso che per cantare guardiamo altrove, è una mancanza di rispetto e di intelligenza assurda e offensiva. Possiamo definire il parlato una forma d'arte "regalata" dalla Natura, che dobbiamo solo accettare implicitamente e rispettare. Ben diverso il discorso del canto, che invece, anche nel migliore dei casi, dobbiamo coltivare e portare a coscienza, in quanto anche se in qualche raro caso ci venisse regalato, non possiamo considerarlo radicato nel nostro corpo, ma invece, purtroppo, avversato, in quanto non è compreso tra le nostre esigenze di vita, non ci serve e anzi contrasta con la nostra respirazione fisiologica, per cui richiede uno studio lungo e impegnativo. Perché il parlato diventasse una prerogativa degli uomini fissata nel DNA, c'è voluta un'evoluzione, uno "scatto" conoscitivo trascendentale. Questo non può avvenire allo stesso livello nel canto, non essendoci le condizioni ambientali per una tale modificazione, ma può avvenire in singoli soggetti, qualora manifestassero una forza spirituale elevatissima e si mettessero nelle condizioni di apprendimento adeguate. E' da ritenere qualcosa di rarissimo, quasi impossibile, ma... non del tutto. 

sabato, novembre 26, 2022

La doppia meccanica

 In tutti gli strumenti musicali inventati e suonati dall'uomo, possiamo dire esista una doppia meccanica; una interna, intrinseca, e una esterna, estrinseca. Prendiamo un pianoforte: esiste evidentemente una complessa meccanica interna, formata dal complesso che va dal tasto al martelletto e alle corde. Questa meccanica è l'oggetto fondamentale del funzionamento ed è stato al centro dell'invenzione, e coinvolge poi anche altri aspetti, dalla forma, all'uso di pedali, ai materiali, ecc. Ragionamenti analoghi valgono, pur se con molte differenze, per tutti gli altri strumenti. La meccanica esterna o estrinseca in cosa consiste? nel rapporto tra lo strumento e l'esecutore. Il pianista o il violinista o chitarrista, ecc., devono escogitare o apprendere una tecnica, quindi una meccanica, per potersi relazionare con lo strumento e poterlo far suonare ad alti livelli. Il rapporto tra queste due meccaniche, nella coscienza dell'esecutore, non è sempre la stessa. Un pianista può conoscere anche molto poco della meccanica interna, perché il suo lavoro sarà più che altro esterno, delegando ad accordatori e tecnici quello di messa a punto o riparazione dello strumento. Conoscere il funzionamento è sempre una buona base culturale e può incidere anche su un'esecuzione di alto livello, ma non è essenziale per tutti. Per certi strumenti può essere più importante, però esiste quasi sempre un rapporto differenziato tra esecutori e meccanici-riparatori. 

Veniamo alla voce. Si ritiene, per analogia, che anche la voce possieda una meccanica interna, il che è oggettivamente inconfutabile, e quindi un apporto per il suo uso sempre di tipo tecnico-meccanico, il che è assolutamente falso e improprio. Il funzionamento meccanico interno è un dato anatomico-fisiologico, tra l'altro di inusitata complessità, tutt'ora non completamente compreso nemmeno dalla scienza, il cui studio può essere interessante e moderatamente utile ai fini didattici. Viceversa non c'è e non ci dovrebbe essere alcun approccio meccanico al modo di utilizzarlo. Chi  controlla e domina la voce è la mente, e lo fa indipendentemente dalla nostra volontà. Quando noi vogliamo pronunciare una A, ad es., non sappiamo realmente quali muscoli, quali parti anatomiche si mettono in movimento e di quanto. E' un compito che sa gestire la mente del tutto indipendentemente da noi (come avviene per le gambe quando camminiamo, tanto per dire). Dunque i consigli di molti insegnanti di muovere determinati muscoli o parti degli apparati per illudere che avverrà un miglioramento, è fallace! Potrà avvenire un cambiamento, questo sì, che potrà sembrare migliorativo in una certa direzione, cioè potrà risultare più sonoro, con un certo colore, ecc., ma avrà sempre (sempre) una contropartita, cioè comporterà la nascita di una carenza o un difetto, perché interverrà artificialmente sugli apparati, impedendo il naturale e intelligente flusso respiratorio adeguato all'esigenza che abbiamo indotto. In sostanza: se noi parliamo, il nostro apparato è già predisposto per farci parlare correttamente per l'esigenza standard, cioè comunicare con le persone che ci stanno attorno. Se dobbiamo migliorare il parlato per realizzare qualcosa di professionale o addirittura artistico, quello standard è gravemente insufficiente, e quindi dobbiamo mettere in atto una disciplina che ci consentirà di evolvere il motore principale della voce, cioè il fiato. La meccanica interna E' SEMPRE LA STESSA, non muta di una virgola! la A sarà sempre una A, la nostra mente sa come farla, il problema è che noi non vogliamo più una A "standard", ma una A di elevata qualità e con caratteriste foniche, sonore e musicali elevatissime, capaci di essere apprezzate e percepite in ampi spazi senza ausili artificiali. Quindi in sintesi: 1) esigenza interiore spirituale che ci spinga a elevare la voce a oggetto artistico; 2) disciplina artistica, quindi esercizio (non allenamento) che crei un'esigenza respiratoria e di conseguenza una evoluzione del respiro ad alimentazione di vocalità pura; 3) creazione di un "senso fonico", cioè di un nuovo senso che sviluppi una potenzialità insita in noi per poter ridurre e financo eliminare le resistenze e le opposizioni dell'istinto, che percepisce il canto come un'interferenza alla respirazione fisiologica, necessitando di un tipo di respiro diverso da quello vitale. 

La disciplina per l'elevamento artistico della voce, vuoi per migliorare la voce parlata, vuoi per quella cantata, non hanno alcunché di meccanico e tecnico, e non necessita di approfonditi studi sulla meccanica interna, che, come in tutti gli strumenti, è utile conoscere culturalmente, ma non indispensabilmente, e soprattutto non si deve interferire volontariamente con essa. Ciò che si compie è una sollecitazione della mente a produrre un risultato fonico di maggiore qualità, cosa possibile se c'è, da parte del soggetto, un'esigenza interiore autentica e quella umiltà e rispettosità nei riguardi del proprio corpo e un'attenzione alla conquista artistica che non sia dettata dall'ego, dal narcisismo, ma dalla volontà di una comunicazione spirituale, dunque di donare e ricevere la bellezza e verità contenuta nelle opere d'arte che si andranno ad eseguire. Il canto non deve servire a esaltare sé stessi, ma i capolavori che si intendono affrontare, con l'obiettivo di incontrarsi in essi con chi collabora con noi e chi ci ascolta.  

domenica, novembre 20, 2022

Il flauto dolce

 Su suggerimento di un allievo-amico, posto questa riflessione. Il flauto dolce (tanto odiato da molti presunti didatti o esperti di musica), che si utilizza frequentemente nell'insegnamento della musica nelle scuole, sia primarie che medie, ha una caratteristica piuttosto interessante: se spingete il fiato non riuscirete mai a fare le note basse, e le note acute diventano fischianti e stonate. Questo è un ottimo viatico anche per il canto. Se considerate che in fondo la laringe è un po' come il bocchino del flauto dolce, ogni spinta, a volte anche minima, crea difficoltà e difetti di emissione. Proprio come in quello strumento, premendo più del lecito, le note basse possono non venire, o comunque molto difettose, e ugualmente le note acute rischiano la "stecca", la stonatura e altri difetti. Occorre saper dosare. La differenza tra i due strumenti sta nel fatto che nel corpo umano la glottide costituisce una "valvola" vera e propria, cioè tende a chiudersi quando la pressione è eccessiva, però grazie all'elasticità ha un ampio margine di possibilità, mentre nel flauto, essendo un bocchino rigido, non può modificarsi, quindi il suono viene,,, o non viene. Ecco perché l'insegnamento basato sulla parola "parlata" è così importante, il fatto di cantare, di fare suoni lunghi e di accedere in tempi brevi agli acuti, crea la tentazione di spingere. Parlare significa usare la voce "normale", senza gridare, senza spingere, ma badare solo a ciò che si dice. L'intonazione vien da sé, è un fatto che diventa inconscio. Invece si dà un'enorme importanza alle note, che non sono "la musica". La musica è dentro le parole, però bisogna avere l'umiltà di percepirla, riconoscerla e... lasciarla manifestare.

Già che ci sono faccio una riflessione sul flauto dolce. Era uno degli strumenti tipici del Rinascimento, utilizzato poi ancora per diverso tempo, almeno fino all'epoca barocca, poi sostituito gradualmente dal flauto traverso in metallo (che peraltro già esisteva in legno), più sonoro e con maggiori possibilità. Esiste tutta una famiglia di flauti dolci, dal sopranino al basso. E' da considerarsi uno strumento a tutti gli effetti, anche di alta statura espressiva. Certamente per l'utilizzo che se ne fa a livello scolastico, questi strumenti vengono costruiti in plastica, dal costo di pochi euro. Questo fa sì che il suono sia alquanto mediocre, e molti modelli siano pure stonati, il che è molto male. Peraltro non condivido affatto gli strali che vengono lanciati da molti musicisti (a suo tempo già Gazzelloni). La musica si può fare prima di tutto col canto, ma il flauto dolce può andare benissimo, se si sa cosa insegnare, senza bisogno di spendere molti denari (basta che l'insegnante indichi una marca di buon livello, che siano perlomeno intonati). 

sabato, ottobre 29, 2022

Dello sguardo

 Fin da quando iniziai a insegnare canto, mi accorsi che molti allievi durante la lezione fissavano lo sguardo e il più delle volte lo rivolgevano verso l'alto. Nonostante le mie ripetute richieste di tenerlo "normale", cioè non fisso e soprattutto rivolto in alto, non sono quasi mai riuscito a ottenere apprezzabili risultati. Però non mi ero mai soffermato sul perché e il percome. In questi giorni, riflettendo su altre questioni, ho rammentato un post di qualche tempo fa, dove segnalavo una performance direttoriale di Sir Georg Solti che dirigeva il funerale di Sigfrido, dall'omonima opera di Wagner, che segnalai per spiegare che il fatto di utilizzare varie parti del corpo per la direzione, ha come causa il fatto di non avere la piena padronanza dello strumento specifico, cioè le braccia, per cui si usa altro per sopperire a quella carenza. La questione è la medesima. Il o la cantante che si concentra con lo sguardo verso un punto immaginario, in realtà sta togliendo attenzione dal senso fondamentale, cioè l'udito! Chi canta deve concentrarsi sull'ascoltarsi, o meglio, ascoltare se sta pronunciando correttamente e se il suono è libero. Ho persino sentito dire che alcuni insegnanti suggeriscono agli allievi di sollevare le sopracciglia e guardare con attenzione. Pessimo consiglio, assolutamente da non seguire! Lo sguardo deve essere sereno, ed è necessario che la fronte, quindi anche le sopracciglia, restino tranquille e basse. 

lunedì, ottobre 17, 2022

Non imparare-insegnare

 La civiltà scientifico-razionale dell'Occidente, ha portato questa società a ritenere che tutto provenga dall'esterno, tanto il sapere quanto le malattie, fino alla stessa Verità. Se questo può già definirsi erroneo nel campo della cultura in senso lato, diventa un grave sbaglio se applicato a una qualunque arte. L'illusione di tanti è quella di recarsi da un insegnante e pensare che imparerà, nel nostro campo, a cantare. Non è e non può essere così. Altrettanto erroneo è il pensiero di quell'insegnante che si illude di insegnare, per lo meno nel senso tradizionale del termine. La Conoscenza è già in noi, però è quasi sempre bloccata, in parte dalla nostra natura animale, in parte dalle nostre illusioni, dal nostro ego, dalla nostra volontà coercitiva. Lo stesso insegnante è coercitivo, persino violento nel tentativo di indurre insegnamenti nella mente e nel cuore degli allievi. Noi dobbiamo considerare che ciò che può funzionare è il risvegliare, se non addirittura, che è la formula migliore, il rinascere. Il maestro non insegna, ma esemplifica, induce pensieri, riflessioni, può motivare e arrivare a provocare, allo scopo di attivare quel fuoco interiore, unica chiave che possa palesare quel sapere che alberga in ciascuno di noi. Molti animali per poter nascere devono distruggere quel mondo in cui si sono formati, le uova. Per noi l'uovo è il mondo che ci circonda e ci tiene ingabbiati in un reticolo di dogmi, di informazioni fasulle o superflue, impedendoci di fatto di liberarci (ecco la parola fondamentale ed essenziale). Nessuno può realmente "imparare" se non raggiunge sé stesso, se non si libera dalla schiavitù delle convenzioni e dal bombardamento cui siamo sottoposti continuativamente e che ci portano a pensare come alcuni vogliono che pensiamo. Ma non è una questione di complotti, è la nostra condizione, soprattutto occidentale, che innesca questo meccanismo perverso. Noi abbiamo la possibilità di liberarci, però il nostro guscio è durissimo, e dentro quel guscio noi ci stiamo bene, ci sentiamo al sicuro e al calduccio, mentre romperlo ci fa paura, non sappiamo cosa può esserci fuori e a quali pericoli, responsabilità e a quali fatiche può portarci. Anche nel canto, quando ci si avvicina alla libertà, avvertiamo paura, pericoli, allontanamento dalla sicurezza e dal controllo, per cui è più facile tirarsi indietro; anche se il maestro ci fa sentire come appare la voce libera, non siamo sicuri di poterci arrivare anche noi, ed ecco che il credere in sé stessi diventa il passe-partout fondamentale per aprire quella porta che ci mostra il vero universo verso cui siamo ciechi. Noi vediamo sempre un piccolo mondo, che non ci crea fobie da spazi immensi. Ma quello spazio possiamo essere noi, non è fuori di noi. In ogni modo sappiamo bene che ciascuno è arbitro del proprio destino, quindi si tratta sempre di scelte, il più delle volte dolorose e che ci prospettano decisioni più grandi di quelle che ci aspettiamo. Un conto è essere molto giovani, un po' o molto irresponsabili, percepire il futuro e l'anelito della libertà che può scaturire da un lungo tempo di elaborazione. Un conto è il non esserlo più e quindi rinunciare a mettere in gioco le sicurezze acquisite. E' comprensibile ma bisogna fare una ulteriore riflessione. Il tempo è una condizione; noi siamo perennemente legati a una percezione fisica di esso, fissiamo appuntamenti, assistiamo a giorno, sera e notte, primavera estate autunno e inverno, contiamo gli anni e così via. Questa è la dimensione materiale, fisico-meccanica dell'esistenza. Ma chi ha avuto la fortuna-sfortuna di avere una propensione artistica, deve considerare l'eternità. Il tempo nell'arte non ha confini e noi possiamo immergerci in essa annullando i nostri fastidi, il nostro passato e le preoccupazioni del futuro. Noi siamo "ora e sempre". Ma non è questione di volerlo o di saperlo. Si tratta di raggiungerlo mediante una discesa profonda in noi. E' riflessione, è meditazione, è annullamento. Non è difficile, non è complicato, ma è impegnativo per l'uomo-animale. Dobbiamo guardare a una condizione che ci accomuna, anche se pochi ci credono e pochissimi vogliono guardare, la condizione della scintilla divina che è in noi. Accendetela, se volete, o accontentatevi e non illudetevi di arrivare all'arte per altre strade. 



lunedì, settembre 12, 2022

Le carenze respiratorie e la coscienza

L'assunto fondamentale di ogni scuola di canto che si rispetti è che il canto esemplare, perfetto, non è altro che una sublimazione dell'atto respiratorio, ovvero una sua commutazione, trasformazione, da fiato fisiologico a fiato artistico. Belle parole che tali restano su libri e nella bocca di tanti insegnanti e teorici che realmente non hanno la più pallida idea di cosa significhi rendere il fiato un processo alimentante suoni vocali perfetti. Ho spiegato che per arrivare a questo risultato c'entra poco e niente fare puri esercizi respiratori, che sono relativi solo all'atto fisiologico, dunque inutili alla nostra esigenza vocale. Molti pensano che prendere tanto fiato sia necessario per la durata delle frasi, il che è vero, ma quando si arriverà a cantare un repertorio che avrà quella necessità. Ma noi dobbiamo mettere in atto una evoluzione, una rivoluzione nel sistema respiratorio al fine di consentire che l'aria non solo metta in vibrazione le corde vocali (rozzamente) ma consenta di "suonare" quel delicatissimo e raffinatissimo strumento. Come ho più volte spiegato, tutto l'apprendimento vocale è basato su un problema di fondo, e cioè vedersela con l'istinto, che non comprende e si oppone ferocemente a ogni tentativo di modificare l'azione respiratoria. Perché ciò possa avvenire, noi dobbiamo far sì che si crei un nuovo senso (il senso fonico) che è l'unica garanzia per cui l'istinto riconosca un'esigenza e una funzione utile alla vita. Purtroppo, ahimè, questa possibilità è riservata a una ristrettissima cerchia di persone. Non basta studiare, non basta allenarsi, cercare di comprendere, leggere, ascoltare... ci vuole un'esigenza talmente forte da superare ogni ostacolo. Non si tratta di volontà, ma di una forza interiore che spinga a comprendere le implicazioni gnoseologiche, a esplorare ogni più recondito angolo in cui può nascondersi la verità. Non avrei mai raggiunto la condizione attuale se un giorno non mi fosse presa la necessità interiore di risolvere anche quei minimi dubbi che ancora mi affliggevano. Fu una ricerca che mi occupava giorni e notti, che mi obbligava a leggere, scrivere, meditare a lungo, riflettere... finché ogni nodo fosse sciolto. E questo avvenne, e ogni nodo sciolto si ripercuoteva positivamente sullo stato della voce finché è risultata, come nel motto di questa scuola, un flusso mentale operante.
C'è, o ci sono, peraltro, possibili trappole nel percorso, da non sottovalutare. Se è vero che la respirazione evolve mediante gli opportuni esercizi vocali, e questo è un dato evidente e incontrovertibile, è anche vero che quando si raggiungono eccellenti risultati, se non ci sono le condizioni psico-filosofiche, cioè se non si è raggiunta una adeguata presa di coscienza di quel traguardo, l'istinto può provocare una reazione di notevole intensità. La tolleranza, che è la normale prassi delle scuola di canto "tecniche", qui non entra in gioco, e chi canta bene può improvvisamente trovarsi con un fiato scarso, depotenziato, spento. E' come se qualcuno avesse spento un interruttore! Ed è precisamente ciò che l'istinto fa ogniqualvolta ritiene che si stia spendendo più energia del necessario. Questo è un bel guaio, che va risolto persino ricominciando a fare esercizi elementari per riprendere quanto ci è stato tolto. Il problema però si risolverà realmente solo mediante la presa di coscienza di ciò che stiamo facendo. Se cantiamo in un certo modo solo perché ci si fida del maestro e si ritiene di migliorare... si rischia di non arrivare a risultati consolidati e permanenti. Coscienza ci vuole, quello è il traguardo ultimo e i dubbi sono la rovina dello studio. O sapete ciò che state facendo, in relazione al tempo di studio, o altrimenti siete in balia del vostro istinto, cioè di una forza che si opporrà sempre e vittoriosamente sui vostri progressi.

sabato, settembre 03, 2022

Doti, talenti...

 Il titolo sarebbe un po' più lungo, dovendo considerare anche la passione, la forza interiore, ...

Il punto cruciale per cui scrivo questo post è chiarire bene la questione del talento, su cui si fonda un pesante equivoco, infatti si confonde questo con le doti, i privilegi. Avere una bella voce, una facilità nel canto, musicalità, prontezza nella memorizzazione e altri di questi privilegi, non è da considerare "talento", ma fortuna, una dote che scaturisce da una forza spirituale che ha trovato terreno fertile nell'istinto di un soggetto. E non sempre aiutato da questioni ereditarie o educative particolari. Allora, si dirà, in che cosa consiste il vero talento? Beh, in fondo l'ho spiegato in diversi precedenti post. Come ho già detto più volte, il maestro non può infondere totalmente la propria conoscenza nell'allievo; c'è una percentuale, un ultimo tratto che l'allievo deve percorrere da solo, indiscutibilmente, che prova la raggiunta presa di coscienza di quest'arte, risolvere ogni più piccolo dubbio e avvertire la totale sicurezza. 

Come si riconosce il possesso di un talento? Ho avuto, in oltre 30 anni di insegnamento, molti allievi. Riferendomi solo agli allievi "lirici", devo dire che la maggior parte di essi, pur mostrando passione, a un buon approfondimento, evidenziavano di non aver mai visto un'opera in teatro (o una o due al massimo), di non conoscere più d'un'opera intera ma solo alcune arie della propria corda o della corda verso cui sono maggiormente attratti. Pur entusiasti delle prime lezioni, non rimanevano attaccati a quei primi insegnamenti, tale per cui alla lezione successiva mi avrebbero dovuto riempire di domande, fare riferimenti, osservazioni. Solo pochissimi hanno mostrato sin dall'inizio un enorme interesse non solo al canto, nel senso di poter e voler cantare, ma conoscendo una gran quantità di cantanti, di tutte le classi vocali, recenti e antiche, di aver letto libri, recensioni, di conoscere trattatisti e critici, di avere opinioni, ecc. e curiosità e forte interesse verso l'arte vocale e questa scuola, anche in riferimento ad altre. Questa non è solo passione, ma è quella forza interiore che sarà determinante al momento giusto per raggiungere la grande méta, accompagnati magari dal maestro, ma con le proprie gambe. 

E chi non ha il talento? Beh, c'è una "graduatoria" da fare; chi ha doni, doti, privilegi, è probabile che faccia successo, anzi, diciamo che oltre il 90% sono gli unici che oggi cantano; gli altri difficilmente, molto difficilmente, perché non trovano gli insegnanti che li portino fino a quell'ultimo kilometro. Questi soggetti sono spesso dei disperati, perché hanno una tale necessità di trovare un grande insegnante che sono pronti a grandi sacrifici, ma spesso non hanno fortuna. All'inizio del 900, e probabilmente ancor più precedentemente, erano più i veri talentuosi, quelli veramente "affamati" di arte, e quindi pronti a ogni sacrificio, a fare successo più che non i privilegiati. E anche i dotati, persino "superdotati", come Gigli, pur potendo cantare anche senza una grande scuola, si sottoponevano a lunghi e seri studi. Comunque, chi non ha particolari doti (e talento), pur trovando buoni insegnanti potrà raggiungere solo modesti obiettivi.

Il talento può mostrarsi tardivamente? Questo è possibile, ma ci vuole una sveglia davvero potente, una motivazione fortissima che è molto difficile potersi dare da soli. Uno stimolo esterno è più probabile che faccia effetto, unito a una maturazione personale e magari a un cambio nello stile di vita. 

 Veniamo a un altro punto dolente. Le fissità nel cercare di cantare. Cosa intendo dire? Quando ci si mette nella disposizione di voler cantare, si comincia a provare e a imitare, in qualche modo, qualche modello che si è ascoltato. Poi si arriva da un insegnante, il quale comincerà a fissare dei punti, dei metodi, degli esercizi e a fare riferimenti anatomici. Questo porterà l'allievo a concentrarsi molto soprattutto su quest'ultima cosa, perché la nostra mente è prettamente, se non unicamente, fisica. Solo poche persone contestano e trovano inappropriati questi riferimenti e lasciano presto questi insegnanti. Facilmente sono destinati a un eterno pellegrinaggio. Coloro che sostano a lungo in queste scuole, fissano, memorizzano, posizioni e movimenti anatomici molto difficili da sradicare. Coloro che ingolano, nasalizzano, affondano, solo in una scuola eccellente riusciranno a uscire da queste abitudini. Ma non è detto, perché poi ci sono i problemi di "estetica personale". Come dicevo poco fa, ognuno si fa, spesso, una propria idea del canto e della voce, e molto difficilmente uscirà da quella condizione. Concepisce il canto come una attività fuori dalla normalità, per cui sarà sempre portato a "fare qualcosa", perché il non fare niente, che predichiamo in questa scuola, sarà sempre considerata una cosa impossibile. Anche obiettivi raggiunti potranno essere rimossi perché una sorta di istinto si opporrà a quella naturalezza che è l'obiettivo vero da raggiungere. Per loro rimarrà sempre una vocalità tecnica e quindi difettosa. Ma non c'è da preoccuparsi troppo, praticamente tutti cantano con i difetti e al pubblico, ai direttori, al pubblico, va benissimo così. Perché andarsi a cercare delle grane, rompersi la testa per raggiungere un traguardo che spesso non è riconosciuto e che appaga solo pochi e magari in tempi lunghi?

sabato, agosto 27, 2022

La lingua viva

 Si dice che una lingua non più in uso costante sia "morta", e per contro quella in uso sia "viva". Bisogna però riconoscere che una lingua viva, come l'italiano, va incontro a usura e anche a un possibile decadimento. Già parecchi anni fa ci fu una sorte di allarme sulla possibile morte dell'italiano, principalmente per il poderoso inserimento e utilizzo di frasi e termini inglesi. Molti, me compreso, spesso protestano per questo indiscriminato uso, soprattutto se e quando si ha la possibilità di utilizzare termini e frasi italiane del tutto appropriate. Ma la storia è vecchia. Tempo fa scaricai da una biblioteca in rete un volume di Pietro Fanfani sul Lessico della corrotta italianità, del 1877. E' una sorta di vocabolario dove voce per voce si fa notare che un certo termine è di derivazione francese o di altra lingua, e/o è improprio, suggerendo altre forme più corrette, appropriate ed eleganti. Se si scorre tale lista si resta più che meravigliati dalla incredibile quantità di termini e locuzioni, per lo più ancora in uso, sia da considerare fuori posto e quanto sono belle, luminose e appropriate quelle proposte come più corrette. Da qui già si può comprendere quanto la lingua italiana sia effettivamente in decadenza, ma credo che un po' tutti ne siano coscienti. Purtroppo è un fatto implicito che, certamente, la scuola potrebbe e dovrebbe saper frenare, ma a mio modo di vedere non si comprende che c'è un divario (un po' come avviene anche in musica) tra l'italiano aulico che si fa studiare e l'uso corrente, troppo diverso. Se qualcuno parla o scrive come nell'800 è evidente che può suscitare ilarità e scherno, proprio perché la lingua si adatta ai cambiamenti sociali e lavorativi, alle attività ludiche e, giustamente, anche alle influenze straniere. Non c'è niente di male, basta che non sia una ingiustificata soppressione di termini corretti. Il computer e tutto il mondo che ruota attorno è giustificato che preveda maggiormente l'uso dell'inglese, perché è un ambiente che si è fortemente sviluppato nei paesi anglosassoni. Lo posso giustificare anche nel mondo dell'economia e soprattutto della finanza. Molto meno, o per niente, in quello dell'arte. Nel mondo del canto e dell'opera, stiamo risentendo molto dello sviluppo che si è originato soprattutto nel campo del musical americano. Ma questo non vale a giustificare che l'insegnante di canto ora si chiami coach, che è un termine nato in campo sportivo. La storia si fa lunga e non è questo il luogo per dilungarmi sull'argomento, anche perché non è la mia materia, mi limito a fare qualche osservazione da cittadino. Però questo post mi è stato provocato pochi minuti fa da un annuncio su facebook di un concerto dove è protagonista una "grande soprana". Posso capire che persone totalmente digiune di glossario musicale possano avere dubbi sull'uso dei termini relativi ai cantanti e si facciano tentare dall'uso di desinenze che a senso possono apparire più appropriate. Del resto qualche anno fa, con l'incredibile avallo dell'istituto della Crusca, si permise di declinare alcuni termini come Sindaco o Ministro con la A finale, come se fosse un affronto al mondo femminile. Giustamente alcuni fecero notare che per analogia non si dovrebbe più dire dentista in campo maschile, ma dentisto!!!! Si chiarisce subito la stupidità di queste argomentazioni. In italiano, rispetto al latino e a tante altre lingue, non esiste il neutro, il che è un male, perché ha un senso logico non dare a molti vocaboli un genere, riferendosi ad attività o situazioni astratte, non conferibili necessariamente a uomini o donne. Qualcuno potrà, allora, contestare l'uso di "soprano", visto che i soprani sono pressoché sempre donne, preferendo l'uso di "sopranista" nel caso dei falsettisti. A parte che soprani sono anche i bambini prima della muta, indipendentemente se maschi o femmine, la questione è che "cantante" è propriamente un termine neutro, si può utilizzare indiscriminatamente per uomini e donne, ma il tipo di voce è legato al REGISTRO. Quindi è un cantante, o una cantante (quindi è l'articolo che definisce il genere) che canta NEL REGISTRO DI SOPRANO, che è maschile, e non c'entra con la persona. Infatti non si usa solo nel canto; sono Soprani, così come tenori, baritoni, bassi, contralti, ecc. anche molti strumenti musicali, ma anche settori degli stessi; nel pianoforte, o nel violino e altri strumenti, si fa riferimento a corde (corda di tenore o di contralto, ecc.) o zone dell'estensione. Dire sopranA è un vero delitto linguistico, che poi, per estensione, come si declinerebbero gli altri termini? ContraltA? mezzosopranA? Mon Dieu...

giovedì, agosto 11, 2022

la pietra del paragone

 Per saggiare la qualità di un elemento, si fa riferimento a un campione di accertata qualità. Il campione è il massimo della purezza, quindi diciamo che vale 100. Mettendo a confronto i due elementi, si può così determinare se anche quello da esaminare sia pari a 100 o abbia impurità che ne riducono il valore. Ovviamente nessun campione può essere maggiore di quello di riferimento.  

Nel caso del canto, il campione è la voce dell'insegnante, quella è la pietra del paragone e per lui quello è l'obiettivo da raggiungere. Il mio primo insegnante più d'una volta mi disse: "tu puoi cantare anche meglio di me---". vero ma lui come può portare a un livello superiore al proprio? è impossibile, perché la propria posizione è un limite che potrebbe superare solo se incontrasse un insegnante in grado di portarlo a un livello superiore. Allora la questione è la seguente: io conto, con esempi e suggerimenti, di portare tutti al mio livello, e tutto ciò che è inferiore è carenza, è difetto. La qual cosa significa che se io sono al livello 100, cioè perfezione, non ammetto niente al di sotto del 100, ovverosia tutto ciò che è al di sotto di tale soglia per me è difetto. Quindi chi venisse con l'idea di imparare "grossomodo" a cantare, cioè ad avere una preparazione generica sul canto, si troverebbe in difficoltà, perché qui si punta alla perfezione... e basta! Ma non è una mia volontà, non posso farne a meno, perché è il mio udito/cervello che mi segnala come erroneo ogni suono che esuli dal mio 100. 

Io penso che tantissime persone non si rendano conto di cosa questo vuol dire. A parole tutti vogliono imparare il canto in modo perfetto, ma cosa questo significhi non è chiaro. E' un progetto di vita che non ammette genericità, distrazioni, approssimazioni. Significa dedicarsi al canto a 360° e al 100%. Se non è così, i progressi non solo saranno modesti, ma addirittura potranno verificarsi degli arretramenti, per questioni legate all'apprendimento stesso. Come dovrebbe essere noto a chiunque segua questa scuola o almeno questo blog, raggiungere la perfezione non è un fatto tecnico, ma significa far nascere un nuovo senso, il senso fonico, onde superare la barriera dell'istinto, il che significa avere un'esigenza talmente forte da poter vincere un sistema fortemente radicato in noi, vitale. Spero sia chiaro cosa significa questo! Non è questione di volontà, ma di una potente forza interiore, che non si può "volere", ma c'è... o non c'è! E se non c'è non la si può creare e di conseguenza manca l'esigenza per poter superare l'istinto e sviluppare un senso fonico. Ciò, a sua volta, significa che si rimane preda dell'istinto, ovvero udito e vocalità non possono compiere il salto artistico, si rimarrà a un livello "tecnico", cioè difettoso, rispetto al livello 100. 

Cosa voglio dire e cosa significa tutto ciò? Che questa scuola ha un senso e si motiva se si punta alla perfezione. Ho sempre detto: questa scuola è come una strada che ha una fine, un traguardo. Ognuno, però, può prendere un'uscita precedente quando ritiene di aver raggiunto un livello soddisfacente. Questo livello, però, sarà sempre avversato da me, che lo avverto e lo segnalo come carente. Il pericolo, quindi, è di rimanere "vita natural durante" (si fa per dire) attaccati all'insegnante che continua a segnalare errori e difetti. Ma se l'allievo non possiede quel "fuoco" quella spinta o forza interiore che lo fa agognare come esigenza vitale il raggiungere la perfezione, la questione è irrisolvibile. Quindi dovrà essere l'allievo a rendersi conto quando il proprio livello gli è sufficiente, tenendo anche conto che a un certo punto i progressi si arresteranno, perché, come ho spiegato, spero chiaramente, in un post poco tempo fa, l'ultimo passo lo deve fare lui; nessun maestro è in grado di far percorrere quell'ultimo miglio. E' una sfida personale tra il proprio io spirituale e il proprio fisico, cioè è il trascendere la fisicità del canto. Questo vuol dire diventare coscienti, ammettere la propria situazione, senza infingimenti e false speranze. Con umiltà e coraggio.

Il m° Celibidache diceva, a proposito delle prove, che sono un susseguirsi di "NO"; "no così, non quello strumento più forte dell'altro, non così debole, .... no questo, non quello... no, no...quanti "Sì"? solo uno; tutti quei no per far sì che possa emergere quell'unico SI'. Questo è lo stesso che accade in una lezione di canto, sono infiniti NO per poter apprezzare quel SI' che è la verità. Ma chi canta ed eventualmente chi assiste devono concentrarsi per capire perché il maestro dice "no", fino a che sapranno anticipare loro stessi quel no. Significherà che la loro coscienza, il loro udito e la loro voce si stanno evolvendo.

sabato, luglio 30, 2022

Vivere il canto vivo.

 Faccio sempre più fatica ad ascoltare opere e concerti di recente produzione, perché sempre più percepisco la mancanza di vita in essi. Soprattutto nel canto sento sempre più voci "morte"; i cantanti più accorti si rendono conto di questa carenza fondamentale, ma non sanno come riportarla in vita e ricorrono a mezzi artificiosi, meccanici, innaturali, come il vibrato. Il suono non è NIENTE! Produrre un suono, vuoi con uno strumento che con la voce, è solo eccitare un corpo elastico a vibrare; si possono ottenere suoni belli e anche bellissimi, e questo stimola e illude che quello sia un risultato importante, qualcosa che va oltre le nostre pure capacità di comprensione, quindi arte. Invece no, siamo ancora nel campo del puro piacere fisico, quindi l'aria vibrante che eccita i nostri timpani. Per entrare nel regno dell'arte, quindi della comunicazione spirituale, occorre qualcosa di più, dove il qualcosa, però, richiede una capacità di trascendimento di quella vibrazione fisica,. che è il vero duro lavoro di chi vuol ambire a un risultato "vero". Nel canto c'è un mezzo inequivocabile per perseguire quell'obiettivo, e cioè mettere al centro dell'attività canora la parola. La parola vera, che comunica realmente ciò per cui è scaturita all'interno di una situazione e in stretto legame con ciò che precede e ciò che segue. Ci sono cantanti che hanno l'intenzione di "parlare", cioè di recitare, di pronunciare con verità ciò che è legato alla melodia, ma la vocalità non lo consente, il suono è indietro, è disomogeneo, è impuro, ecc. Non basta volerlo, bisogna lavorarci sempre e a fondo, affinché la parola diventi l'artefice della voce intonata o cantata, non solo un elemento della voce. Iniziare e soffermarsi, come accade credo nella stragrande maggioranza delle scuole di canto, sul canto vocalizzato, per poi passare a cantare con le parole cercando di adattare quest'ultime al vocalizzo, è impedire di fatto ogni possibilità di rendere la voce vera, cioè togliere da essa il principio basilare e fondamentale, quello comunicativo. Ma il problema nasce anche da coloro che vogliono cantare, perché sono ammaliati dalla voce in quanto suono, o bel suono, "impostato", falso ma bello, strumentale, quindi parziale, imperfetto, fine a sé stesso. In tanti anni di insegnamento, ho esperienza che gli allievi si innamorano di alcuni propri suoni e non arrivano mai a "dire", si fermano alle vocali, cioè a niente, perché le vocali, per quanto belle, non dicono niente, così come i suoni. Si possono arrivare a fare gli intervalli, che muovono emozioni e sentimenti, ma noi umani possiamo fare un passo avanti importanti, cioè far evolvere la parola da puro, semplice parlato, a un parlato musicale di grande spessore, altezza, cioè unire la vera poesia, l'amore, la passione al movimento musicale, cioè al moto della coscienza. Ma chi possiede questa umile e fondamentale capacità? Si vive per l'apparenza, per il celebrare, il mostrare, ma quello non è vivere, nel migliore dei casi è sopravvivere, però lo sforzo di entrare nel mondo artistico con coscienza appare troppo grande. A parole tutti lo vogliono fare, nei fatti manca il fuoco, manca l'energia e la conoscenza interiore che spinga verso quel risultato, indipendentemente dal poterla ottenere realmente, perché le possibilità purtroppo sono comunque scarse; però il solo fatto di volerci entrare e mettere in moto tutte le strategie, il che vuol dire dedicarvici con tutta l'anima, già può condurre a un canto di qualità molto più elevata del comune sentire.

giovedì, luglio 14, 2022

L'acuto "passato"

 Ho supersintetizzato il titolo di questo post, che doveva essere: "gli acuti dei tenori col "morso" all'indietro". Oltre che lungo sarebbe stato anche incomprensibile. Capita ormai da una ventina d'anni, prima credo mai, che i tenori per emettere gli acuti facciano una sorta di "morso" all'indietro, cioè: https://youtu.be/VS1WRddhsSE?t=162

come si vede in questo video, nel momento in cui il tenore prende il salto dalla nota base all'acuto, compie una sorta di arretramento per poi lanciare l'acuto verso l'alto. Il qui presente Fabio Armiliato è stato il primo che ho visto ricorrere in modo così evidente a questa "tecnica", orribile anche solo per il risultato fonico, cioè invece di udire un normale intervallo musicale, si sente una dilatazione, una fermata e un'aspirazione del suono verso il palato posteriore. Recentemente lo sento fare da tantissimi tenori, compreso Meli. Perché viene fatto, che vantaggi può avere? 

Man mano che si procede verso la zona acuta, i suoni aumentano il loro peso, ovvero la pressione del fiato che deve vincere la resistenza delle c.v. Questo aumenta anche la reazione dell'istinto che stimola la risalita, anche molto energica, del diaframma, che può diventare incontrollata e portare alla stecca. Allora ecco che si inventano le "tecniche" per evitare la figuraccia. Una delle modalità che si sono escogitate è l'affondo, ovvero il premere fortemente la laringe verso il basso. Siccome la laringe è strettamente legata al funzionamento respiratorio, essendo la valvola dei polmoni, premere in giù la laringe costringe anche lo stesso diaframma a rimanere abbassato e questo può permettere di fare l'acuto senza il pericolo della stecca. E' una forzatura innaturale della fisiologia respiratoria e ovviamente una misura del tutto antivocale. Inoltre richiede una notevole resistenza da parte della laringe e delle stesse c.v., che devono resistere a una pressione enorme. Per questo motivo ci vuole parecchio tempo di allenamento, aspettare che la muscolatura si sviluppi (il che poi non consentirà più di lavorare su mezzevoci e piani-pianissimi) e potrà dare alcuni problemi fisici sia verso l'alto che verso il basso. L'unico dato migliore, rispetto a quello di cui sto parlando, è che l'intervallo ascendente verso l'acuto (ad es. Sol-Do) può essere pulito, cioè non non bisogna ricorrere a "sirene" (benché lo si faccia durante lo studio e qualcuno ha continuato a farlo anche nel canto vero e proprio) e strane meccaniche mandibolari e faringee. 

Nella tecnica che vediamo nel video, non possiamo parlare di un vero affondo, ma di una suddivisione della gamma vocale in due settori: il settore centro-grave, dove si canta "normalmente" (nel caso presente molto ingolato); quando si sta per lanciare un acuto, si irrigidisce la mandibola, si apre la gola verso il dietro e si lancia l'acuto verso l'alto (quindi nel palato molle). In pratica si è bloccata, anche in questo caso, la laringe, però invece di premere verso il basso, si è creato un blocco servendosi della mandibola e della muscolatura vicina. E' meno gravosa dell'affondo, ma peggiore sul piano sonoro. E' chiaro che sono tutti sistemucci pessimi per cercare di scansare i problemi istintivi, che nessuno riconosce, con artifici che danno anche orribili risultati sul piano vocale e musicale. Ma alla gente piace così, sentite che applausi...! Quindi tutto ok! Le scorciatoie danno risultati più rapidi e sicuri, e qualche inconveniente non è la fine del mondo, specie se la gente manco lo sente...

PS: chi trovasse "decenti" gli acuti del video su riportato, deve fare una cura pesante di revisione uditiva.

martedì, luglio 05, 2022

Le divergenze parallele2

 Se voi chiedete a una donna, non cantante, di parlare di falsetto, noterete che solitamente incontra difficoltà a pronunciare correttamente e si riscontrerà una voce poco gradevole e priva di mordente. Il motivo fondamentale, che ho cercato di spiegare nel precedente e in molti altri post, è che il fiato non è predisposto ad alimentare abitualmente questo registro, che serve in occasioni meno frequenti e durature. Non è predisposto significa che non ha l'energia sufficiente e soprattutto salendo creerà una pressione sul diaframma che non è disposto a sostenere e che quindi reagirà esercitando una contro-pressione verso l'alto che causerà varie difficoltà e difetti. 

Cosa succede a questo punto? Che o si cerca di continuare a parlare, ma forzando e mantenendo il registro di petto, (cosiddetta fonazione "aperta") o si rinuncia e si fa un passo indietro, cioè ci si accontenta dei suoni, passando soprattutto ai cosiddetti suoni "coperti". Questi sono interni e da un lato peseranno meno proprio perché il "tubo respiratorio" risulterà più corto e dall'altro lato risulteranno più fattibili perché il suono oscurato pesa un po' di più e quindi faciliterà il mantenimento della posizione bassa del diaframma e quindi di maggiore appoggio. Ma naturalmente si tratta di un compromesso; la voce sarà gestibile e incontrerà meno difficoltà, ma sarà, perlomeno in tutto il settore di falsetto, decisamente meno valida, incompleta, disomogenea. Qualunque voce risulterà disuguale fin quando le due linee simboliche che ho disegnato nel post precedente non si sovrapporranno, diventando una linea sola, esterna. Come si perviene a questo meraviglioso risultato, punto focale di una vocalità perfetta, realmente artistica?

Dunque: 1) il nostro fiato fisiologico non è predisposto ad alimentare nello stesso modo il petto e il falsetto-testa, perché nella nostra vita di relazione non utilizziamo le due modalità nello stesso modo, quindi non c'è motivo perché ciò accada e nell'affrontare il settore centro-acuto, questo risulterà carente. Questa carenza è legata al fatto che la nostra evoluzione umana ha riguardato il parlato, ma non il cantato su larga scala, per cui per poter raggiungere quel risultato cui ho puntato, è necessaria una integrazione evolutiva, cioè far sì che il fiato sviluppi la possibilità di alimentare il settore centro acuto della voce con l'energia adeguata a renderlo omogeno con quello centrale. Naturalmente questo è un compito arduo in quanto il settore centro acuto è in ogni modo più impegnativo e inoltre perché è un intervento che agendo sul fiato provoca la reazione dell'istinto che non può tollerare che si cerchi di modificare il funzionamento di una risorsa di primaria importanza vitale qual è il fiato respiratorio. 

2) quali mezzi abbiamo per raggiungere quell'insperabile risultato? principalmente uno, con alcuni altri stratagemmi collaterali. Parlare! Ovviamente c'è da chiarire che non basta quel parlato sciatto e impreciso che utilizziamo solitamente nella vita di relazione. Occorre lavorare di fino, come coloro che studiano dizione e recitazione. Questo è già uno stimolo per sviluppare un fiato più avanzato, come sanno appunto coloro che si sono dedicati a questo studio. Però fin dalle prime lezioni, si può cominciare a intonare, quindi unire il parlato al cantato, dove questi esercizi devono essere brevi, su una, massimo tre note, dove l'aspetto su cui puntare l'attenzione deve essere l'assoluta nitidezza e verità della parola.

Riferendoci specificatamente al mondo femminile, il parlato in zona falsetto può quasi risultare un cominciare da zero. Qui può essere d'aiuto il ricorrere a un parlato "infantile". Solitamente questo facilita il compito. Richiede molto tempo, tanta pazienza, concentrazione nell'ascoltare e nel maturare una capacità di riconoscere se ciò che si sta facendo è corretto. Il maestro ci corregge, ma piano piano bisogna capire se quel che facciamo è valido o meno e tentare di correggersi. Si chiama coscienza, ed è l'obiettivo fondamentale da raggiungere. 

Ci sarà poi un grande passo, tra la seconda e terza fase educativa (quindi parliamo di anni di studio). L'abolizione dei registri. Il che vuol dire che anche nel centro grave avremo una vocalità non esclusivamente di petto e fino al Do4 ci sarà una graduale collaborazione del petto. Non gradisco il termine "misto", che poi nei manuali è indicato come esistente nel tratto Fa3-Do4, mentre noi lo prevediamo fin dal Si2. La nostra scuola intende tutto il tratto dalle note gravi fino al Re4 come emesso da una corda unica, dove le modalità di vibrazione intrinseca-estrinseca collaborano per tutta l'estensione (ovviamente non più dopo il re4, che risulterà solo testa). Questo modifica profondamente anche la timbratura vocale; quando le cantanti raggiungono questo traguardo, quasi si spaventano, perché le note basse con l'apporto di un cospicuo falsetto non risulterà così netto come è il petto puro, e le note del tratto Fa3-Do4, non risulteranno così chiare e deboli, ma il tutto risentirà non poco della presenza del petto. La voce, a fronte di un apparente gran consumo di fiato (illusione che lentamente sparirà), risulterà molto sonora, piena, fortemente appoggiata e dotata di una perfetta intonazione e soprattutto pronuncia. Anita Cerquetti è andata molto vicino a quanto vado dicendo e dunque offre un buon esempio.

domenica, luglio 03, 2022

Le divergenze parallele

 Come ho cercato (forse inutilmente) di spiegare in tanti post, il parlato, e dunque quel settore della voce (detto "registro") preposto alla comunicazione verbale abituale, suona esteriormente alla bocca delle persone, e questo perché solo in tale condizione l'articolazione e l'espansione sonora risulteranno complete ed efficaci. Quindi gli apparati e il sistema respiratorio funzionano in tale prospettiva ma al "minimo", cioè facendo spendere al corpo la minor quantità di energia possibile. Quest'ultimo aspetto è fortemente soggettivo, vale a dire che le condizioni sia acustiche del corpo (e questo dipende dalle forme degli apparati, dalle volumetrie, ecc.) sia energetiche, costituiranno situazioni molto diverse da soggetto a soggetto, per cui ci saranno persone dotate di voce forte, molto sonora, bella, modulata, anche estesa, e persone con voce povera, sgradevole, corta. Poi subentrano, e non è poca cosa, condizioni psicologiche, lavorative, ambientali, familiari, culturali, ecc. Da ciò si evince che ogni caso è a sé stante, ma ciò nonostante si può affermare che comunque la voce (e il relativo registro) parlata è quella più facile, e in ogni caso, escluse possibili patologie o difetti congeniti o traumatici, essa suonerà esternamente. 

Il canto effettuato nel settore della voce parlata risulterà comunque meno facile rispetto al parlato, perché l'intonare e il prolungare l'emissione delle vocali costituirà un aumento di impegno respiratorio. Pur mantenendosi il canto nel settore cosiddetto "di petto", salendo verso gli acuti l'impegno aumenterà a causa della progressiva maggior tensione delle corde vocali, Pur essendoci in genere un rapporto tra la struttura di queste, la capacità respiratoria e la muscolatura di supporto (soprattutto il diaframma), la facilità o meno di salire verso le zone più acute, sempre in registro di petto, ha ampi margini di soggettività. Si può dire grossolanamente che le voci leggere salgono più facilmente e le voci più sonore meno, però le voci più gravi hanno solitamente maggior estensione. 

Ma veniamo a un secondo punto: la voce di falsetto-testa. La produzione di questa modalità vocale è determinata da una vibrazione parziale delle corde vocali e, per questo motivo, da una loro maggior tensione. Inoltre la parte vibrante è formata da fibre connettivali, e non da tessuti muscolari come avviene nella vibrazione "di petto", che sono più resistenti, ma anche duttili. Da ciò ne deriva che anche solo parlare in modalità "di falsetto-testa" risulta più impegnativo per il fiato e richiede maggiore energia. Qualcuno (maschio) obietterà che in genere il falsetto risulta molto facile, ma qui si presenta il solito equivoco, cioè confondere il falsetto-testa, cioè l'effettivo settore centro acuto della voce, con il cosiddetto "falsettino", che altro non è che il primo armonico della voce, ovvero un'emissione vocale priva di vibrazione, ottenuto tramite lo sfioramento del fiato sulle corde atteggiate in registro di petto ma non perfettamente addotte, insomma una sorta di "fischio" ottenuto anziché dalle labbra dalle c.v. Naturalmente il falsettino o armonico non può produrre il cosiddetto appoggio, cioè la pressione del fiato è quasi nulla, per cui non si può definire un registro cantabile, se non per effetti particolari, e il fatto che possa avere una qualche sonorità è solo dovuta al fatto che si trova in un range sonoro più acuto e quindi più udibile rispetto alla nota fondamentale (il primo armonico si trova un'ottava sopra la nota fondamentale). 

Parlando invece del vero falsetto (è corretto definire "testa" solo la porzione di estensione oltre il Re4), per quanto detto prima, costituisce un impegno abbastanza considerevole anche nella sua zona più bassa. Qui bisogna fare un distinguo, importante, tra voci maschili e femminili. 

Le voci maschili trovano equilibrio di emissione con il falsetto salendo oltre un'ottava dalle proprie note centrali; il basso dal Reb3, il baritono dal Mib3, il tenore dal Fa3 e il contraltino dal Fa#3. Raggiungono queste note, quindi, con una energia già piuttosto elevata, e provando a cantare in falsetto su queste note, incontreranno una notevole difficoltà, specie all'inizio dello studio, solitamente, però dal momento in cui riescono a emettere suoni in questo registro, questi risulteranno piuttosto forti, sonori, timbrati, e l'eventuale spoggio che dovesse verificarsi, sarà alquanto evidente. Lo spoggio sugli acuti nelle voci maschili è frequente e comporta grossi problemi; la voce risulterà difficilmente gestibile, decisamente sgradevole e andrà incontro a rotture e stonature. 

Parliamo invece delle voci femminili: Le donne, soprattutto i soprani, incontrano il falsetto nella zona centro-grave, cioè dal Fa3, però quasi tutti i soprani, soprattutto per induzione da parte degli insegnanti, tendono a cantare di falsetto anche diverse note al di sotto di questa. Ciò comporta che quando devono per forza utilizzare il petto (ma spesso non lo fanno, forzando in modo assurdo il falsetto, che comunque risulterà impotente a fornire una corretta emissione), esso risulterà eccessivo, rozzo, sgradevole e comunque disomogeneo. Credo di parlare della stragrande maggioranza delle voci femminili, che sono in rari casi presentano un settore centrale davvero omogeneo. Il problema fondamentale è che il settore più proprio del falsetto femminile (tra il Fa3 e il Do4) si presenta quasi sempre privo di appoggio (per le stesse ragioni che ho spiegato più sopra), per cui debole piuttosto "vuoto", ma, a differenza delle voci maschili, non si rompe, si mantiene gestibile e piacevole. Il motivo fondamentale di questa carenza è dovuto al fatto che istintivamente non è un registro di voce parlata. Ho il sospetto che un tempo le donne parlassero in voce di falsetto, ma è una mia ipotesi, poco suffragata da dati oggettivi, e in ogni modo è poco importante. Il fatto è che oggi uomini e donne parlano di petto, salvo questioni personali. Il nodo della questione quindi è che mentre le note più consone al registro di petto, dove si parla, suonano abitualmente esternamente, e ci permettono una valida articolazione e una certa facilità di emissione anche di un canto leggero, il falsetto-testa, per il maggior impegno che richiede, tende a suonare internamente (senza contare ciò che fanno fare gli insegnanti). Quindi le due linee del petto e del falsetto si trovano parallele e divergenti. Questo è il motivo fondamentale per cui per le donne l'articolazione delle parole è così difficile da praticare. Inserisco una grossolana raffigurazione di quanto ho scritto, poi interrompo e proseguo in altro post, per non farlo troppo lungo.


lunedì, giugno 27, 2022

la superiorità della voce

 Dopo secoli di supremazia della voce umana, gli strumenti hanno invaso il regno della musica. Anche se il ruolo del canto continua a detenere un importante ruolo in ogni genere musicale, specie in occidente la musica strumentale viene sovente considerata la regina. Non v'è dubbio che il livello tecnologico cui sono giunti i costruttori di strumenti (non oggi, sia chiaro, ma da un bel pezzo) consente di ottenere da essi diversi elementi di grande impatto. La rapidità, ad esempio, con cui si possono fare note su un pianoforte o un flauto o un clarinetto, superano sicuramente le possibilità della voce, anche di persone particolarmente dotate. Non parliamo dell'estensione, che in ogni strumento supera sicuramente quella umana. Però, stavo meditando, pensiamoci bene! Poco fa ascoltavo un concerto per pianoforte, e a un certo punto ho udito nettamente una caratteristica: sono suoni ottenuti da un congegno che batte su corde di metallo! Per quanto sofisticato, elaborato, sempre metallo è! E per quanto ricercato sia il materiale del martelletto, è sempre un pezzetto di legno ricoperto da un feltro. Si dirà: ma non è proprio dell'arte dei costruttori ad aver superato i limiti di questi materiali? Certamente! Ma vorrei far notare che il canto scaturisce da un elemento vitale e pressoché immateriale, qual è il respiro e dalla vibrazione di due piccolissime appendici muscolari. Vogliamo paragonare il respiro con pistoni, martelletti, ance? O il duro metallo presente in quasi tutti gli strumenti con la duttilità, l'elasticità, la morbidezza ma anche le possibilità tensive del materiale di cui è fatto l'apparato respiratorio-vocale? Senza contare quell'evoluzione impareggiabile che permette all'uomo non solo di emettere suoni, come ogni strumento, con le caratteristiche appena descritte, ma di dare ad essi una curvatura di celestiale primato, ovvero la parola, cosa che nessuno strumento è lontanamente in grado di fare?. Se gli strumenti sono non a ragione considerati superiori, è il solito motivo che governa un po' tutte le attività umane, cioè una maggiore facilità nel raggiungere determinate possibilità virtuosistiche e superare certi limiti. Per fare gli accordi di un pianoforte o un organo un'arpa o una chitarra, non basta una voce, ce ne vogliono diverse (un coro), e in ogni modo è vero che la varietà timbrica degli strumenti non è così facile da ottenere dalle voci, anche se si ascoltano gruppi dove qualcuno riesce abilmente a imitare il suono di molti di essi. E già, perché mentre una voce, proprio grazie alla notevole duttilità, può imitare altre voci o versi di animali, può anche imitare pregevolmente i suoni di alcuni strumenti, gli strumenti, viceversa, hanno ben poche possibilità di variare la propria voce e timbratura, sicché ogni strumento esaurisce le proprie possibilità timbriche entro uno stretto limite, e più che altro con l'ausilio di qualche artificio o strumento esterno, come una sordina, ad es., Allora un buon sistema anche di affinamento uditivo, può consistere proprio nel percepire quanto di metallo c'è nel suono di un pianoforte, o un arco o un ottone. Però attenzione, c'è anche un'altra considerazione da fare: nella voce umana noi possiamo cogliere due elementi, cioè l'aspetto aerofono o l'aspetto muscolare. Allora la riflessione è: preferiamo l'aspetto spirituale, quindi artistico, o l'aspetto fisico, animale? Beh, sono scelte e sono gusti. Sicuramente mi permetto di dire che se vogliamo considerare l'opera, cioè la musica cosiddetta lirica, che ha visto impegnati i più grandi compositori di ogni tempo, come un'arte sublime, al pari della musica strumentale, è indispensabile che essa si serva di voci che abbiano raggiunto un elevato livello di artisticità, quindi dove la loro aerofonia sia prevalente rispetto alla manifestazione uditiva di vibrazione muscolare. Purtroppo col tempo le cose sono andate al contrario, e oggi pare sia preferito il sentire lo sbattimento non solo delle corde vocali, ma anche dei tessuti faringei e collaterali, cioè, in fin dei conti, del "rumore" anziché del suono puro, che è privilegio di un fiato evoluto, proprio di persone che abbiano in sé quelle doti, quella ricchezza spirituale, che consenta di sviluppare un fiato in grado di superare i limiti del suono fisico e sostenere una parola cantata con tutti le caratteristiche auliche, poetiche, musicali, letterarie, sentimentali della parola più alta, più espressiva, che ci è consentita. 

venerdì, giugno 24, 2022

L'aura della pronuncia

 Per similitudine con l'esoterismo, secondo cui tutto ciò che è vivente ha un'aura, cioè una sorta di luminosità periferica, ed ha un colore, o più colori, a seconda del livello di conoscenza che ha sviluppato (e di questo parla a lungo e con competenza ed esperienza il grande Steiner), esiste qualcosa di analogo nel campo del canto. Se per vedere l'aura occorre evolvere le capacità visive, qui occorrono quelle uditive. Due emissioni di una stessa vocale, una anche molto buona e una giusta, vera, avranno una sorta di aura sonora diversa. Lo sento immancabilmente e cerco di farla sentire ai miei allievi facendo esempi ravvicinati, giusti e meno giusti per far sentire che quando viene raggiunta la perfetta pronuncia, si apre un ventaglio di risonanze, armonici, purezza, ampiezza, bellezza. La vera vocale suona davvero "vera", e non è gridata, non è spinta, non è schiacciata, non è affondata, non è "girata", non è nasale, non è ingolata, non è quella "col velopendulo alzato" (volontariamente) o con la laringe abbassata (sempre volontariamente), non è quella con la gola aperta (volontariamente), non è quella con la lingua in un certo modo, e potrei andare avanti molto a lungo. Non è quella cercata. Non si cerca niente e non si FA niente. Fare vuol dire impedire al respiro di compiere la propria missione; fare vuol dire interferire con la mente operante, che non è il pensiero volontario, ma quello che viene dal profondo, su cui noi non abbiamo controllo. Allora cosa deve fare l'allievo? Niente, però bisogna farlo bene!!! Cioè non è passività, ma controllo uditivo; è capacità di riconoscere il giusto dallo sbagliato. All'iniziò si andrà per approssimazione, ma bisogna impegnarsi, provare, sbagliare ma insistere nel selezionare e nel separare i suoni vocali negativi, quelli innaturali, ingolati, nasali, eccessivi, ricercati, ecc. da quelli puri, semplici, piacevoli anche se possono apparire poco "lirici", poco "importanti", poco forti... Questa è la vera durezza di una scuola d'arte. La strada dell'umiltà, della semplicità. Preferite che vi dica di gonfiarvi come palloni? di spingere come bulldozer? di cercare l'appoggio premendo verso il diaframma? o di cercare le risonanze della maschera cercando di piazzare la voce tra gli zigomi e la fronte? Mi spiace ma non posso, perché me lo impedisce la mia etica e la certezza che ciò che vado insegnando è frutto di una conoscenza basata su fondamenti inoppugnabili. Allora ascoltate i miei esempi, raffinate il vostro udito e cogliete "l'aura", cioè la libertà di quelle vocali o quelle parole, quel canto, insomma, che non è attaccato a niente di interno al corpo. Pensare che le vocali e il canto perfetto siano autonomi, staccati al di fuori di noi, potrete pensare e dire che sono illusioni, sono miei convincimenti astratti e irreali. Però prima di dirlo dovreste provare a sentire ciò che vi dico e vi esemplifico e argomentare in merito per farmi capire che ho torto, che non è vero quanto dico e che i miei esempi sono mediocri, e farmi sentire i vostri facendomi riconoscere che sono migliori. Provare per credere (cit.).

domenica, giugno 19, 2022

Correre lentamente

 C'è una frase fondamentale nella poetica del maestro Sergiu Celibidache: "dans la lenteur il y a la richesse", nella lentezza c'è la ricchezza. Detta così, fulminea e sintetica, può generare equivoci e interpretazioni assai discutibili, tipo che basta andare lentamente per far bene. Naturalmente non è così! Il m° Raffaele Napoli, suo allievo ha chiarito meglio la questione: la ricchezza è qualcosa che riguarda l'esecutore; se non è in grado di manifestare la propria ricchezza interiore, può andare lento quanto vuole, ma l'esecuzione resterà sempre pessima. 

Da qualche anno stiamo assistendo, nel campo dell'esecuzione musicale, specie della musica più antica, a un incremento vertiginoso delle velocità. Già negli anni 90 Celibidache definì "gazzella" un celebre collega che eseguiva a tempi assurdi un brano di Wagner.

Qualche giorno fa ho assistito in televisione a una esecuzione di una Norma di Bellini diretta da un noto direttore barocchista; in alcuni punti Bellini inserì una marcia, che normalmente si ascolta eseguita con un tempo piuttosto moderato. Il "nostro" ha invece ritenuto di farlo con un tempo molto più rapido, facendo diventare quella marcia una... "marcetta" a dir poco ridicola. Questo tanto per esemplificare, ma sono innumerevoli le esecuzioni di affermati complessi e direttori specie del repertorio di epoca barocca ma anche classica e protoromantica (a cominciare da Beethoven) dove i tempi di esecuzione sono sempre più affrettati.

Celibidache poneva una domanda: "che differenza c'è, in musica, tra 'tempo' e 'velocità'? Anche qui verrebbero subito da dare risposte, anch'esse affrettate, piuttosto scontate e poco efficaci. La velocità è un parametro fisico misurabile. Quando diciamo che un brano, in una determinata esecuzione, è durato, mettiamo, 25 minuti, ne abbiamo misurato la velocità in rapporto al tempo fisico. Il tempo, invece, è un parametro interno, cioè l'andamento esecutivo in ragione delle condizioni complessive che si presentano. Non può esistere un tempo assoluto di esecuzione di un brano; è perfettamente inutile e sciocco dire che "il compositore lo pensava a quel tempo"! Dove? nella sua testa? con quali esecutori? Ma anche brani eseguiti dallo stesso autore non testimoniano un bel niente! Il brano, per poter manifestare la propria ricchezza, necessita di un tempo che possa mettere in luce le caratteristiche insite nella partitura. Questo è possibile se chi esegue è in grado di cogliere tutti gli aspetti, anche i più nascosti, condividerli, eventualmente, con chi esegue insieme a lui/lei, e poi metterli in pratica. Ciò vuol dire che non può esistere un tempo assoluto, e che due esecuzioni quasi mai potranno avere lo stesso identico tempo. In questo senso il metronomo è uno strumento antimusicale, che solo raramente e per motivi particolari dovrà essere usato, e per poco tempo. Le indicazioni sugli spartiti del tempo metronometrico preferibilmente vanno cancellate, anche se inserite dall'autore. Ciò che conta è la capacità di chi esegue di riconoscere e cogliere tutti gli aspetti necessari alla valorizzazione del tessuto musicale.

Un appunto importante: il tempo giusto non può essere desunto da dischi o registrazioni in genere, perché le condizioni cambiano. Senza entrare troppo nella questione, però, solo per esempio, cominciamo dal volume: voi mettete un disco o ascoltate dal pc o dal televisore un brano di cui ignorate completamente il volume e l'intensità reale, originale. Voi manovrate il vostro apparecchio alzando o abbassando il volume a vostro piacere, con qualcuno che magari vicino a voi dirà: "eh, ma abbassa! mi assordi", oppure "non puoi alzare un po'? non si sente niente". Sembra una cosa da poco, ma già solo questo parametro può modificare notevolmente la percezione del tempo, perché se si sentono poco gli strumenti o voci più deboli, si avrà l'impressione che ci siano dei buchi, dei silenzi, e che quindi l'esecuzione vada troppo lentamente. E così via. 

Veniamo al canto, senza dimenticare quanto ho scritto prima, perché anche un solista che affronta un concerto con un pianista accompagnatore dovrà porsi questa problematica e cercare di risolverla, evitando quelle operazioni tipo: "ne ascolto un po' di esempi su youtube e poi scelgo il tempo più usato". 

Quando si fa un esercizio, è abitudine consolidata degli allievi quella di rallentare o accelerare sovente in base alle difficoltà. L'insegnante dovrà rigorosamente richiamarli a una condotta corretta, costante. Ma anche qui, magari a fini virtuosistici, è frequente l'utilizzo di vocalizzi o esercizi molto rapidi, specie con l'uso di un testo. Allora capita che senza accorgersene, proprio a causa del tempo, o meglio della velocità, si spezzetti e di articoli eccessivamente il flusso musicale. Insomma, l'allievo corre e si perdono gli aspetti più reconditi ma fondamentali del brano. Bisogna rendersi conto che anche singole note, anche non lunghe, possono necessitare di attenzione, morbidezza, dinamiche non fisse. Allora è indispensabile ricorrere al legato assoluto, cioè non lasciare il minimo buco tra le note-parole all'interno di una frase, ed evitare accenti, colpi, intensificazioni o diminuzioni improvvise. In questo senso, anche la parola o la frase, momentaneamente può cambiare. 

Ad esempio, quando il testo (ma la questione riguarda anche i semplici suoni che compongono un inciso o una frase) inizia con un breve monosillabo, magari accentato, c'è la tendenza a frenare, a staticizzare l'esecuzione. Fra-Mar-ti-no, può diventare un insieme di fonemi staccati, seppur poco percettibilmente, ma qui bisogna aguzzare l'udito e la sensibilità. Allora qui entra in gioco un'altra fondamentale frase fenomenologica del m° Celibidache: "la fine contenuta nell'inizio". 

Quando si inizia un vocalizzo, come un brano musicale, occorre traguardare alla sua conclusione. Perlomeno, all'inizio, proiettare nell'inizio la fine della frase. Allora non soffermarsi, ad esempio, su "Fra (Martino), ma già sentire il "Martino" e quanto viene dopo come una conseguenza indispensabile, per cui non suddividere il Fra dal Martino, ma iniziare già con un "framartino". e allungare sempre di più lo sguardo sonoro fino a comprendere intere frasi, se non interi brani. In questa frase, come ripeto, all'inizio si possono anche ridurre gli accenti (cosa sulla quale magari si è lavorato per diverso tempo), perché c'è spesso la tendenza a enfatizzarli, a esasperarli, inducendo lo spezzettamento della frase e l'esecuzione di "botte" che ricadono sulla voce stessa.

La cosa è tantopiù evidente quando una frase musicale è legata a un'area acuta. Prendiamo un'aria nota, Malia di Tosti. Quando si arriva, nella prima strofa, a "freme l'aria per dove tu vai", è frequente che emergano problemi, perché, anche psicologicamente, ci si avventura in un'area più difficoltosa. Allora è facile che ci si soffermi sulla "A", indiziata di causare il problema. Può essere, ma non è mettendo il microscopio su di essa che si risolverà. Se si prende in considerazione tutta la frasetta "fremelaria", senza accentare troppo la A e senza pensare troppo al significato, cioè suddividere "freme" da "l'aria", ma dire con maggiore fluidità "melaria", come se avesse un significato, abbasserà la tensione e la spinta verso la vocale, dando maggiore morbidezza e scioltezza a tutta la frase. Tornando poi a cantarlo correttamente, è probabile che l'esecuzioni migliori considerevolmente. Stessa cosa nella seconda strofa. "semiguardi", con fluidità su "miguardi". Applicare a tutti i brani dove si incontrano difficoltà-

Ma veniamo al "correre lentamente". Accade molto spesso che un esercizio, una frase, venga eseguita sciattamente, badando più che altro ai punti cardine, dove si pensa di incontrare più difficoltà, in particolare all'apice della frase. Spesso non si bada troppo nemmeno all'inizio, che viene buttato là senza attenzione. Ecco, allora occorrono due "vettori", apparentemente contraddittori, cioè l'attenzione a ogni singola nota-vocale-consonante-sillaba-parola-frase, e lo sguardo lanciato alla fine dell'esercizio-frase stessa. Quindi ogni particolare, come tessera di un puzzle, dovrà trovare la giusta collocazione ed equilibrio, considerando la visione complessiva. In buona sostanza, avere cognizione dell'UNO, non suddiviso. Vuol dire che la continuità deve essere assicurata, non ci devono essere frenate, blocchi, interruzioni, rallentamenti ma tutto deve scorrere con fluidità.

Per concludere faccio un'ulteriore analogia. Fin da quando ero ragazzo, mi capitava di notare una cosa; che fossero atleti o musicisti o artigiani o altro, spesso vedevo che non erano quelli che davano l'impressione di essere molto rapidi, molto evidenti nel far le cose che poi vincevano o arrivavano prima e che comunque facevano meglio le cose. In musica mi hanno sempre colpito alcuni grandi pianisti, Michelangeli, Rubinstein, Horowitz... che quando suonavano sembravano immobili (ma morbidi, senza rigidità); se l'inquadratura non contemplava le mani, potevano addirittura sembrare fermi. Quindi c'è una calma interiore, una energia che non si manifesta esteriormente con tanto movimento e vivacità, ma con la concentrazione e l'attenzione, senza trascurare l'aspetto fondamentale, cioè l'unità complessiva.

giovedì, giugno 09, 2022

La dura verità

Bisogna affrontare i fatti e riconoscere i problemi. 

1) questa scuola individua il fondamento delle difficoltà nell'affrontare il canto artistico nell'opposizione da parte dell'istinto di perpetuazione e difesa della specie.

- questo assunto non viene preso in minima considerazione. Le persone, addetti o meno al canto, spesso non credono nemmeno che l'uomo abbia degli istinti. Coloro i quali hanno avuto discussioni con me su questo aspetto non hanno nemmeno voluto dialogare su questo punto, adducendo opinioni prive di qualunque base scientifica. In ogni modo anche nei testi redatti da foniatri o insegnanti con buone nozioni fisio-anatomiche non ho mai rinvenuto alcun aspetto relativo all'istinto. Tutt'al più esso è richiamato, erroneamente, come spiegazione di buone vocalità spontanee.

Le poche persone, al di fuori degli allievi, che hanno accettato, almeno temporaneamente, questa tesi, ovviamente han voluto sapere, magari con spirito dubbioso, polemico, sarcastico, come si può, allora, superare questa opposizione dell'istinto. La risposta c'è:

2) occorre sviluppare un "nuovo senso", il senso fonico. L'istinto governa il nostro corpo attraverso i sensi. Parliamo di un cervello "antico", quindi di dati contenuti nel DNA, pervenuti a noi attraverso numerose generazioni. Il canto non serve alla nostra sopravvivenza, dunque non può stare nei nostri geni. 

3) il potenziale. L'uomo è suscettibile di evoluzione. Non ci riguarda la questione darwiniana, però è oggettivo che nel tempo l'uomo può adattarsi all'ambiente e alle condizioni di vita, acquisendo o perdendo delle capacità, modificando il fisico e le funzioni fisiologiche. Ciò significa che un tempo poteva avere capacità poi perdute, così come ha in sé capacità che potrebbe dover sviluppare se le condizioni di vita dovessero mutare. Ciò significa che potenzialmente possono nascere e svilupparsi nuovi sensi. 

Ora, secondo le persone "normali", dotate di un certo buon senso, di fronte a questa spiegazione, come reagiscono? Incredule, nel migliore dei casi. Se no, come già premesso, divertite e desiderose di trovare l'occasione per ridicolizzare tutto ciò. Del resto, chi anche ci credesse, non può esimersi dall'ulteriore domanda: come si fa a creare questo nuovo senso fonico?

Prima di rispondere, c'è una ulteriore, spinosa, domanda da porsi: chiunque può raggiungere un tal traguardo? Diciamo subito che sì, ogni essere umano è dotato delle stesse potenzialità, quindi la risposta sarebbe (!) positiva. Però si può domandare: quanti ci sono riusciti in un tempo congruo, ad esempio negli ultimi 20 o 50 anni? Non si può dare una risposta sicura, perché potremmo non aver saputo di uomini che ci sono riusciti. Però, volendo approssimare per intuizioni, potremmo dire che possono avercela fatta poche unità. Dunque, quante persone possono realisticamente ritenere di farcela? 

Le tante persone che in più di trent'anni si sono accostate a questa scuola e l'hanno frequentata per un certo tempo, hanno di certo condiviso questo pensiero, avendo ascoltato dettagliate spiegazioni, illustrazioni, esempi; diciamo che si sono convinte. Ma quante di loro ci credono? Non lo so, non l'ho mai chiesto, e credo che nessuna di loro se lo sia chiesto. Forse qualcuno in cuor suo l'ha fortemente desiderato, ma quanto ci abbia sentitamente creduto non so, ma penso forse nessuna. Ma proseguiamo.

4) risposta a "come si può creare un nuovo senso fonico"? Partendo da ciò che è già abbiamo implementato, quindi, nel nostro caso, dal parlato. Esso non crea particolari problemi appunto perché contenuto nel DNA. Però, per la legge del minimo costo, ha una limitata estensione e intensità. In ogni modo esercitando il parlato, estendendolo e perfezionandolo, si creerà un'esigenza di relativo sviluppo respiratorio. Sarebbe tutto qui, ma le difficoltà che si incontrano in questo percorso sono davvero tante e complesse, perché riguardano anche aspetti psicologici e di concentrazione, ma soprattutto un terribile "demone" che riguarda un po' tutti: l'ego. Questo è la principale causa di oscuramento della coscienza, e la coscienza è il centro propulsore del percorso artistico. Se non si prende coscienza di ciò che facciamo, i vantaggi che potremo ottenere dagli esercizi saranno effimeri. 

Ciò che promettiamo a chi segue questa scuola è il possesso di una vocalità stabile, omogenea e non più necessitante di esercizio, appunto perché inglobata nei nostri sensi. Ma quasi nessuno si rende conto di ciò che significa. Anche se previsto dalla Natura che si possano sviluppare nuovi sensi, in quanto potenzialmente in noi, ciò ha un costo energetico importante e può interferire, come in questo caso, con importanti funzioni fisiologiche (la respirazione), ed è per questo che l'istinto è particolarmente severo nel reagire al tentativo di estendere e adattare la sua funzione a quella vocale artistica. 

A questo punto reitero un punto fondamentale: chi può accedere a quel traguardo, e cosa succede quando non ci sono le condizioni per farlo (cioè quasi sempre)? 

Per raggiungere la meta del nuovo senso fonico occorre una disposizione che è di pochissimi nella storia, nel tempo e nello spazio. E' necessaria una spinta spirituale straordinaria (che è il vero talento), che metta il soggetto in una tale disposizione d'animo dal dedicarsi maniacalmente a questa impresa, occupandosi con fervore a tutte le implicazioni che comporta non solo e non tanto dal punto di vista dell'esercizio, ma alla soppressione dell'ego e all'approfondimento degli aspetti gnoseologici (o filosofici) che questa scelta comporta. 

Chi segue questa strada, senza raggiungere la meta agognata, sceglie la strada di una corretta educazione vocale, quindi supererà in qualità e igiene vocale qualunque altra scuola, non correrà rischi di breve durata della carriera, di problemi di salute agli apparati, però deve rendersi conto che si trova sempre su un terreno mobile, non avendo superato la reazione dell'istinto, per cui necessiterà sempre di esercizio, di studio, e che è sempre foriero di possibili regressi e di sviluppo di difetti. 

Questo per chiarezza e verità. Chi intraprende questo studio sa che migliorerà e potrebbe raggiungere un punto in cui il miglioramento si ferma perché non c'è più un "oltre", ma questo è destinato a pochissimi. Il maestro che conosce quel punto, metterà in campo tutte le strategie per consentire agli allievi di raggiungerlo, ma non dipende da lui, perché se non ci sono le condizioni spirituali di spinta, mancherà la condizione fondamentale per assimilare e individuare con incessante impegno tutto ciò che necessita per quel traguardo. Quindi il problema nasce quando le risorse proprie dell'allievo si esauriscono, mentre l'insegnante prosegue incessantemente nel tentativo di far raggiungere il limite. Si crea quindi a un certo momento una frattura difficile da suturare. Non è che non ci sia più la possibilità da parte dell'allievo di raggiungere la perfezione, ma potrebbe avvenire in un tempo infinito, oppure mai. Si può innescare in un momento qualsiasi della propria vita quello stimolo interiore a voler conseguire quel traguardo insperato. Ma, ci si può chiedere: ne vale la pena? A quanti, oggigiorno, può interessare davvero? Considerando, poi, che un canto davvero libero e puro si presenta con delle differenze piuttosto rilevanti, rispetto a quello corrente, e questo non piace alla maggior parte degli addetti ai lavori, ma anche a tanti fruitori che si sono ormai assuefatti a quel modo di cantare molto artificioso e diciamo anche difettoso e carente. 

In conclusione devo dire che è bene riflettere molto attentamente prima di scegliere questa scuola, e non farlo solo con l'illusione di poter raggiungere la perfezione, perché può essere un inganno dell'ego, di ambizioni personali che nulla hanno a che vedere con l'umiltà e la devozione all'arte che invece quella strada richiede. Ma la questione riguarda anche gli allievi già in corso, che immaginano che continuando a frequentare costantemente potranno migliorare fino alla perfezione grazie alle cure dell'insegnante. Non è così! Se mancano le risorse interne, come ho già detto dianzi, a un certo punto non solo non c'è più progresso, ma si può pure presentare un regresso, seppur di lieve entità, ma tale da far nascere dubbi, disillusioni, perdita di autostima. Momento difficile, perché l'insegnante non potrà simulare o accettare difetti o accontentarsi. E' l'allievo che dovrà porsi l'interrogativo e la decisione di quando interrompere. Risoluzione molto sofferente, comprensibilmente, anche per la difficile scelta di alternative e di prosieguo. Però questa è la realtà, sempre difficile. La strada della verità è sempre difficile, sofferta, solitaria. 

mercoledì, maggio 25, 2022

Lo scappamento

 Le persone che non hanno idea di come funzioni un pianoforte, immagino che pensino che premendo un tasto questo sia collegato a un martelletto che colpisce la corda. Questo elementare congegno sortirebbe un esito orribile, infatti fu proprio al centro dei vari progressi che portarono alla creazione dei moderni pianoforti. Non sono assolutamente esperto in materia, dunque mi scuso se la descrizione che vado a fare sarà approssimativa, ne parlo, oltre che per dare qualche ragguaglio informativo, per motivi legati al canto, come è ovvio. Dunque il tasto non è legato direttamente al martello, in quanto se quest'ultimo battesse sulle corde in base al tempo per cui si mantiene premuto il tasto, la risonanza delle corde sarebbe impedita. L'aspetto funzionale sta nel fatto che il martello deve battere... e andar via, non fermarsi mai contro le corde. Per far ciò ha bisogno di uno slancio e di una ricaduta, per cui il tasto è legato a una prima meccanica che a sua volta esercita una sorta di "schiaffo" alla meccanica del martelletto, che viene quindi sospinto verso le corde con una sorta di slancio, e quando incontra le corde viene fermato e quindi torna in sede. In questo modo le corde sono libere di risuonare. Il tasto è invece legato direttamente allo smorzatore, cioè un feltro che si alza dalle corde quando si abbassa il tasto e si riabbassa quando si lascia andare il tasto, oppure al pedale, che fa alzare tutti gli smorzatori e quindi fa suonare tutte le corde per simpatia. Lo scappamento è dunque questo meccanismo che "schiaffeggia" posteriormente il martelletto e gli consente quello slancio che lo spedisce verso le corde. 

Nelle varie analogie che spesso ricerco per esemplificare in modo semplice e "innocuo" il canto libero, non mi era venuto ancora in mente lo scappamento, finché non ho visto un tecnico all'opera su un pianoforte. Ovviamente l'analogia è puramente simbolica, non esiste alcuna meccanica del genere nel corpo umano. La analogia cui faccio riferimento può, tutt'al più, riguardare il fiato e NON nella catena dentro fuori, ma solo fuori-fuori. Come ho già descritto in vari momenti, compresi recenti video, non si deve mai spingere il suono dall'interno verso l'esterno; il suono è suono, cioè è una vibrazione senza qualità; ciò che imprime qualità (o meglio CONOSCENZA) al suono è la pronuncia, la quale però non può essere fornita compiutamente all'interno del cavo orale, ma si esplica in modo perfetto solo all'esterno della bocca. Questo processo, che compiamo continuamente in modo semplice e automatico ogni volta che parliamo, riusciamo a replicarlo nel canto, forse, solo quando accenniamo o "canticchiamo" senza pensare. Voler cantare inserendo volume, intensità, espressività, ricchezza timbrica ed estensione, è difficile perché non è un dato che abbiamo assimilato nel DNA, per cui il nostro sistema istintivo lo rifiuta e lo combatte, però lo può tollerare quando lo alleniamo incessantemente senza procurare troppi danni. Ecco a cosa si risolvono la maggior parte dei metodi di insegnamento, scritti, orali e pratici: "tecniche" cioè procedimenti meccanici, che reiterando determinate formule (perlopiù vocalizzi), associate a vari movimenti muscolari e respiratori, consentono di forzare la tolleranza dell'istinto e a consentire quindi un canto di una certa qualità. La possibile durata nel tempo di un simile modo di cantare è legata innanzi tutto a quanto violento o intelligente è l'approccio, ma forse prima ancora a quante risorse fisiche, muscolari, strutturali possiede il cantante, cioè la sua resistenza. Parlo di doti naturali. La conquista di una vera vocalità artistica non può essere legata a esercizi ginnici! O meglio, può, ma con i limiti che un simile procedimento possiede. Se si affronta la vocalità cercando, coscientemente o meno, di forzare la tolleranza istintiva, si genererà necessariamente un conflitto. La bontà del canto e la durata nel tempo della qualità e della stessa voce sono legate a quanto si riesce a rendere meno cruento questo conflitto e/o a quante risorse fisiche si riescono a opporre alla reazione istintiva. 

Qual è dunque l'alternativa, purtroppo destinata a pochissimi nella Storia del canto artistico? Comprendere che il grande canto è "SEMPLICEMENTE" l'evoluzione del parlato, ovverosia l'evoluzione della RESPIRAZIONE che sostiene il parlato. Non v'è altro da dire. Chi comprende questo e si mette nella disposizione per realizzarlo, forse potrà; diversamente alimenterà la schiera interminabile dei cantanti da mediocri a validi, buoni, piacevoli. Ma sono forze spirituali interiori che non tutti avvertono e a cui non si presta troppa attenzione, perché hanno un costo personale che posso definire quasi spaventoso. Per cui la mia "crociata" per un canto artistico puro, cosciente, perfetto, potrei dire che è tempo perso, parole al vento. Ma è una mia necessità interiore quella di seminare, nella remota ipotesi che possa trovare qualche lembo di terra fertile ove germogliare e fruttificare. Ciò che mi amareggia di più, però, è constare che persone che avrebbero l'intelligenza e la cultura per avvicinarsi a questa scuola, se ne tengono lontane e farfugliano senza un concreto pensiero conchiuso in sé. 

Dopo questa ennesima tiritera, veniamo allo scappamento, o meglio, a quanto posso suggerire analogicamente nel canto. Qual è la differenza tra il parlato e il canto? Il primo è sostanzialmente statico, essendo per lo più formato da una serie rapida di fonemi piuttosto slegati tra di loro. Questo consente al fiato di non stancarsi, di non avere un impegno continuativo e soprattutto di non subire una pressione costante. Il canto è, all'opposto, una procedura dinamica dove la qualità cresce al crescere della costanza. In questo senso purtroppo si commette il peccato mortale di confondere la voce, che è espressione di parole, con i suoni, che sono un limite, essendo unicamente vibrazioni fisiche, carenti della qualità spirituale più elevata, cioè la parola. Ora, cosa succede quando si vuol cantare, cioè emettere suoni legati alle parole? che si tende a staticizzarle, come nel parlato comune, oppure a "suonarle", specie nel canto legato, cioè a badare unicamente alla continuità sonora, tralasciando la pronuncia come un impedimento e un limite. Il che sembra vero! La parola veramente per molti cantanti risulta un intralcio, e quindi la deformano, la piegano in ogni modo pur di riuscire a emettere suoni continuativi. Questo è, mi pare evidente, un accontentarsi, un limitarsi per raggiungere un risultato accettabile per molti. 

La parola deve formarsi immediatamente sulla labbra o poco avanti. Non deve nascere dentro e non deve essere in alcun modo "mandato" fuori. Però il problema è il movimento, il dinamismo che lega la durata del suono vocale e il legame con ciò che segue, la melodia, il canto. Quello che fanno moltissimi, istintivamente, è un po' quello che si pensa essere il funzionamento del pianoforte, cioè che il tasto faccia battere il martelletto sulle corde, schiacciandole. Viceversa, come è realmente, ci sono elementi indipendenti in relazione tra loro. Il suono prodotto dalle corde vocali non deve essere premuto o messo in movimento verso l'esterno. La parola vocale nasce istantaneamente sulle labbra o poco più avanti ma anch'essa non deve essere premuta o spinta, ma slanciata - come avviene per il martelletto che viene sospinto verso le corde, ma liberamente, capace di tornare immediatamente al suo posto - verso lo spazio libero. Così noi dobbiamo concentrarci sulla rilassatezza muscolare e sulla capacità autonoma della parola che però necessita di alimentazione, cioè il fiato che non deve mai arrestarsi o tantomeno frenare. Quindi ogni vocale che debba durare un tot di tempo, dobbiamo considerare che non va tenuta premuta, perché ne impediamo la libera risonanza, quindi una volta pronunciata (perfettamente), è come il martelletto che torna alla sua sede, deve risuonare nello spazio aperto del luogo ove si canta. Le note o parole o vocali che seguono, devono essere sempre lanciate e non premute, imposte, schiacciate, ma sempre lanciate, quasi "schiaffeggiate", in modo da non mantenere alcuna pressione ma sempre lasciando la più ampia libertà di espandersi, risuonare. 

sabato, maggio 07, 2022

L'inizio della fine

Mi è stato chiesto: quand'è iniziato il declino dell'arte vocale? La risposta è difficile, perché poco sappiamo sul periodo ante 900. Sulla base di quanto è stato scritto nel tempo, possiamo ipotizzare che la vocalità abbia avuto una parabola ascendente almeno fino a buona parte del 700 e forse il primissimo 800. A cosa è dovuto l'inizio del declino? In primo luogo ai compositori, che hanno perso la competenza al trattamento della voce, essendo stati spesso loro stessi buoni cantanti. Poi lo squilibrio che si è andato a creare a favore dell'orchestra e a sfavore del palcoscenico, e questo si è aggravato sempre più. Poi ci mettiamo anche l'innalzamento del diapason. Ma la crisi più importante è nata e si è sviluppata per l'ingerenza eccessiva della scienza. E' un discorso che ho già trattato a lungo e non starò a ripeterlo qui.

 E' emblematico consultare un trattato sul canto piuttosto noto, scritto dalla cantante Lilli Lehmann a inizio 900. Già il titolo mi lascia perplesso: canto - arte e tecnica. Sono termini poco compatibili, quindi difficilmente ci può essere coerenza. La Lehmann vorrebbe farci credere che per ben cantare occorre affidarsi alla scienza. Ebbene, nel suo libro di scienza ne ho vista poca o niente. Tutta la trattazione è basata su sue esperienza personali, che oso dire discutibili. Il lato scientifico starebbe nel fatto che il libro è costellato di immagini della testa e linee colorate che segnano percorsi assolutamente soggettivi, personali. Ma anche riferimenti a muscoli, e apparati sono trattati con linguaggio discutibile e non sempre comprensibile, perlomeno non sempre condivisibile. Comunque basta leggere la prefazione per capire che si è basata su fondamenti alquanto labili e discutibili. Riporto le prime frasi:

Se solo gli allievi, così come i cantanti professionisti, si rendessero conto che il suono cantato va cercato all’interno della risonanza del proprio corpo (quindi nella cassa toracica e nella testa) e non all’esterno, dove i cantanti spingono il fiato pensando di ottenere così voci forti e suoni intensi!

In questa frase c'è una verità e una grande sciocchezza. La verità è che i cantanti (molto spesso) spingono. Non è detto che spingano per cantare all'esterno, infatti oggigiorno, dove ben pochi sono indotti a cantare esternamente, il problema della spinta è lungi dall'essere risolto. La sciocchezza è che "il suono cantato va cercato all'interno". Una enorme sciocchezza, che certamente può trovare accoglimento laddove si spinge per indurre la voce a suonare esternamente. Io dico la verità: come si fa a pensare che la voce vada cercata internamente? E' una tale assurdità che mi lascia basito che una cantante oltretutto d'altri tempi possa averlo scritto! Eppure è così, e ovviamente ha fatto storia e su questo falso fondamento si sono costruite scuole e altri trattati. La voce deve correre ed espandersi in uno spazio acustico. Se la voce resta internamente a un organismo, come è il nostro, come può compiere quel miracolo? Certo, se il modo è sbagliato, come è appunto lo spingere, lo schiacciare, il risultato sarà pessimo, ma non è che cercando il suono internamente lo si sia risolto, tutt'altro, si saranno creati altri e ben peggiori problemi!

I muscoli sono le corde che dobbiamo imparare a tendere e ad accordare.

Anche questa frase non ha il minimo senso! Ma chi può imparare a tendere e "accordare" le nostre corde? E' un processo mentale del tutto involontario; è somma presunzione pensare di poterlo controllare.

Come il meccanismo di un orologio deve essere caricato per mettere in funzione tutte le parti che lo compongono, così noi cantanti dobbiamo accordare gli organi e i rispettivi muscoli in modo da formare un meccanismo a incastro e predisporlo al funzionamento. Inoltre dobbiamo regolare continuamente e mantenere in attività questa nostra macchina, anche per il Lied più semplice o per la frase musicale più breve.

Ecco, si vuole equiparare il nostro meraviglioso strumento a una macchina, a un meccanismo. Io invece dico esattamente l'opposto, che NON dobbiamo assimilare la voce ad alcun congegno meccanico, perché il nostro è un ORGANISMO biologico, elastico e modificabile in quanto soggetto alle esigenze spirituali. Ma anche su questo punto la Lehmann prende una cantonata, separando lo spirito che, a suo dire

invece è affidato il controllo dell’espressione artistica. 

Separare è sempre un errore. Olismo, unità sono le parole magiche, e del resto proprio l'aver voluto avvicinare i termini "arte e tecnica" è l'errore fondamentale, perché l'arte è la base evolutiva, mentre la tecnica è statica, produce risultati privi di prospettive, privi di vita.

Cosa dice, poi, all'inizio del capitolo "propositi"? 

Il mio intento è quello di descrivere in modo semplice e comprensibile, e da un punto di vista pratico, le sensazioni fonatorie...

Sensazioni?? Altra disgraziata sciocchezza. Sappiamo bene che le sensazioni sono aspetti SOGGETTIVI, e come tali sono diversi da persona a persona, dunque NON TRASMISSIBILI. In poche righe abbiamo già compreso non solo l'inutilità di questo libro, ma la sua dannosità. In ogni modo prossimamente, se lo riterrò utile, pubblicherò altri passi del libro, non con l'intento di criticarlo ma di comprendere i suoi punti di vista e valutare cosa può esserci di utile e se vi siano dei fondamenti, anche se è chiaro fin dall'inizio che non vi siano, perché il solo fatto di voler trasmettere sensazioni è già di per sé la negazione di una base oggettiva.