C'è una frase fondamentale nella poetica del maestro Sergiu Celibidache: "dans la lenteur il y a la richesse", nella lentezza c'è la ricchezza. Detta così, fulminea e sintetica, può generare equivoci e interpretazioni assai discutibili, tipo che basta andare lentamente per far bene. Naturalmente non è così! Il m° Raffaele Napoli, suo allievo ha chiarito meglio la questione: la ricchezza è qualcosa che riguarda l'esecutore; se non è in grado di manifestare la propria ricchezza interiore, può andare lento quanto vuole, ma l'esecuzione resterà sempre pessima.
Da qualche anno stiamo assistendo, nel campo dell'esecuzione musicale, specie della musica più antica, a un incremento vertiginoso delle velocità. Già negli anni 90 Celibidache definì "gazzella" un celebre collega che eseguiva a tempi assurdi un brano di Wagner.
Qualche giorno fa ho assistito in televisione a una esecuzione di una Norma di Bellini diretta da un noto direttore barocchista; in alcuni punti Bellini inserì una marcia, che normalmente si ascolta eseguita con un tempo piuttosto moderato. Il "nostro" ha invece ritenuto di farlo con un tempo molto più rapido, facendo diventare quella marcia una... "marcetta" a dir poco ridicola. Questo tanto per esemplificare, ma sono innumerevoli le esecuzioni di affermati complessi e direttori specie del repertorio di epoca barocca ma anche classica e protoromantica (a cominciare da Beethoven) dove i tempi di esecuzione sono sempre più affrettati.
Celibidache poneva una domanda: "che differenza c'è, in musica, tra 'tempo' e 'velocità'? Anche qui verrebbero subito da dare risposte, anch'esse affrettate, piuttosto scontate e poco efficaci. La velocità è un parametro fisico misurabile. Quando diciamo che un brano, in una determinata esecuzione, è durato, mettiamo, 25 minuti, ne abbiamo misurato la velocità in rapporto al tempo fisico. Il tempo, invece, è un parametro interno, cioè l'andamento esecutivo in ragione delle condizioni complessive che si presentano. Non può esistere un tempo assoluto di esecuzione di un brano; è perfettamente inutile e sciocco dire che "il compositore lo pensava a quel tempo"! Dove? nella sua testa? con quali esecutori? Ma anche brani eseguiti dallo stesso autore non testimoniano un bel niente! Il brano, per poter manifestare la propria ricchezza, necessita di un tempo che possa mettere in luce le caratteristiche insite nella partitura. Questo è possibile se chi esegue è in grado di cogliere tutti gli aspetti, anche i più nascosti, condividerli, eventualmente, con chi esegue insieme a lui/lei, e poi metterli in pratica. Ciò vuol dire che non può esistere un tempo assoluto, e che due esecuzioni quasi mai potranno avere lo stesso identico tempo. In questo senso il metronomo è uno strumento antimusicale, che solo raramente e per motivi particolari dovrà essere usato, e per poco tempo. Le indicazioni sugli spartiti del tempo metronometrico preferibilmente vanno cancellate, anche se inserite dall'autore. Ciò che conta è la capacità di chi esegue di riconoscere e cogliere tutti gli aspetti necessari alla valorizzazione del tessuto musicale.
Un appunto importante: il tempo giusto non può essere desunto da dischi o registrazioni in genere, perché le condizioni cambiano. Senza entrare troppo nella questione, però, solo per esempio, cominciamo dal volume: voi mettete un disco o ascoltate dal pc o dal televisore un brano di cui ignorate completamente il volume e l'intensità reale, originale. Voi manovrate il vostro apparecchio alzando o abbassando il volume a vostro piacere, con qualcuno che magari vicino a voi dirà: "eh, ma abbassa! mi assordi", oppure "non puoi alzare un po'? non si sente niente". Sembra una cosa da poco, ma già solo questo parametro può modificare notevolmente la percezione del tempo, perché se si sentono poco gli strumenti o voci più deboli, si avrà l'impressione che ci siano dei buchi, dei silenzi, e che quindi l'esecuzione vada troppo lentamente. E così via.
Veniamo al canto, senza dimenticare quanto ho scritto prima, perché anche un solista che affronta un concerto con un pianista accompagnatore dovrà porsi questa problematica e cercare di risolverla, evitando quelle operazioni tipo: "ne ascolto un po' di esempi su youtube e poi scelgo il tempo più usato".
Quando si fa un esercizio, è abitudine consolidata degli allievi quella di rallentare o accelerare sovente in base alle difficoltà. L'insegnante dovrà rigorosamente richiamarli a una condotta corretta, costante. Ma anche qui, magari a fini virtuosistici, è frequente l'utilizzo di vocalizzi o esercizi molto rapidi, specie con l'uso di un testo. Allora capita che senza accorgersene, proprio a causa del tempo, o meglio della velocità, si spezzetti e di articoli eccessivamente il flusso musicale. Insomma, l'allievo corre e si perdono gli aspetti più reconditi ma fondamentali del brano. Bisogna rendersi conto che anche singole note, anche non lunghe, possono necessitare di attenzione, morbidezza, dinamiche non fisse. Allora è indispensabile ricorrere al legato assoluto, cioè non lasciare il minimo buco tra le note-parole all'interno di una frase, ed evitare accenti, colpi, intensificazioni o diminuzioni improvvise. In questo senso, anche la parola o la frase, momentaneamente può cambiare.
Ad esempio, quando il testo (ma la questione riguarda anche i semplici suoni che compongono un inciso o una frase) inizia con un breve monosillabo, magari accentato, c'è la tendenza a frenare, a staticizzare l'esecuzione. Fra-Mar-ti-no, può diventare un insieme di fonemi staccati, seppur poco percettibilmente, ma qui bisogna aguzzare l'udito e la sensibilità. Allora qui entra in gioco un'altra fondamentale frase fenomenologica del m° Celibidache: "la fine contenuta nell'inizio".
Quando si inizia un vocalizzo, come un brano musicale, occorre traguardare alla sua conclusione. Perlomeno, all'inizio, proiettare nell'inizio la fine della frase. Allora non soffermarsi, ad esempio, su "Fra (Martino), ma già sentire il "Martino" e quanto viene dopo come una conseguenza indispensabile, per cui non suddividere il Fra dal Martino, ma iniziare già con un "framartino". e allungare sempre di più lo sguardo sonoro fino a comprendere intere frasi, se non interi brani. In questa frase, come ripeto, all'inizio si possono anche ridurre gli accenti (cosa sulla quale magari si è lavorato per diverso tempo), perché c'è spesso la tendenza a enfatizzarli, a esasperarli, inducendo lo spezzettamento della frase e l'esecuzione di "botte" che ricadono sulla voce stessa.
La cosa è tantopiù evidente quando una frase musicale è legata a un'area acuta. Prendiamo un'aria nota, Malia di Tosti. Quando si arriva, nella prima strofa, a "freme l'aria per dove tu vai", è frequente che emergano problemi, perché, anche psicologicamente, ci si avventura in un'area più difficoltosa. Allora è facile che ci si soffermi sulla "A", indiziata di causare il problema. Può essere, ma non è mettendo il microscopio su di essa che si risolverà. Se si prende in considerazione tutta la frasetta "fremelaria", senza accentare troppo la A e senza pensare troppo al significato, cioè suddividere "freme" da "l'aria", ma dire con maggiore fluidità "melaria", come se avesse un significato, abbasserà la tensione e la spinta verso la vocale, dando maggiore morbidezza e scioltezza a tutta la frase. Tornando poi a cantarlo correttamente, è probabile che l'esecuzioni migliori considerevolmente. Stessa cosa nella seconda strofa. "semiguardi", con fluidità su "miguardi". Applicare a tutti i brani dove si incontrano difficoltà-
Ma veniamo al "correre lentamente". Accade molto spesso che un esercizio, una frase, venga eseguita sciattamente, badando più che altro ai punti cardine, dove si pensa di incontrare più difficoltà, in particolare all'apice della frase. Spesso non si bada troppo nemmeno all'inizio, che viene buttato là senza attenzione. Ecco, allora occorrono due "vettori", apparentemente contraddittori, cioè l'attenzione a ogni singola nota-vocale-consonante-sillaba-parola-frase, e lo sguardo lanciato alla fine dell'esercizio-frase stessa. Quindi ogni particolare, come tessera di un puzzle, dovrà trovare la giusta collocazione ed equilibrio, considerando la visione complessiva. In buona sostanza, avere cognizione dell'UNO, non suddiviso. Vuol dire che la continuità deve essere assicurata, non ci devono essere frenate, blocchi, interruzioni, rallentamenti ma tutto deve scorrere con fluidità.
Per concludere faccio un'ulteriore analogia. Fin da quando ero ragazzo, mi capitava di notare una cosa; che fossero atleti o musicisti o artigiani o altro, spesso vedevo che non erano quelli che davano l'impressione di essere molto rapidi, molto evidenti nel far le cose che poi vincevano o arrivavano prima e che comunque facevano meglio le cose. In musica mi hanno sempre colpito alcuni grandi pianisti, Michelangeli, Rubinstein, Horowitz... che quando suonavano sembravano immobili (ma morbidi, senza rigidità); se l'inquadratura non contemplava le mani, potevano addirittura sembrare fermi. Quindi c'è una calma interiore, una energia che non si manifesta esteriormente con tanto movimento e vivacità, ma con la concentrazione e l'attenzione, senza trascurare l'aspetto fondamentale, cioè l'unità complessiva.
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