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giovedì, novembre 26, 2020

Spingere da sotto o spoggiare?

 Spingere la voce, anche da sotto, è spesso una istintiva difesa contro il rischio di spoggiare la voce (che sembrerebbe un controsenso, visto che spingere in su è proprio l'azione di sollevamento del fiato...). Giacché i moderni insegnanti di canto sono ossessionati dall'appoggio della voce, molti anche dal possibile sollevamento della laringe (scioccamente ritenuta la causa dello spoggio), nel richiamare varie tecniche inducono gli allievi a bloccare quest'ultima, e comunque a premere verso il basso, che per conseguenza necessita di spinta verso l'alto per liberarsi (quindi due forze contrapposte). In questo pandemonio assume un ruolo importante la tecnica respiratoria utilizzata; gonfiando la pancia, come vogliono quelli della respirazione diaframmatica (o, peggio, addominale-ventrale), inizia una battaglia concorrenziale tra sotto e sopra, che porta fatalmente a premere verso l'alto, in quanto se si spingesse solo verso il basso la voce non uscirebbe!. Ecco perché per parecchio tempo è necessario liberare il corpo da queste guerriglie, perché il risultato sarà premere sul fiato dal basso per spingerlo verso l'alto. Ed ecco che si è creato un danno, perché la pressione agirà in primo luogo sulla laringe, che sarà portata a sollevarsi anche quando non dovrebbe, e la voce risulterà comunque compressa, priva di libertà e delle caratteristiche di ricchezza interiore. Il fiato non deve mai essere premuto, deve uscire spontaneamente, almeno fino a un certo punto, cioè fin quando agirà la differenza di pressione tra dentro e fuori, dopodiché continuerà ad agire con la stessa costanza la componente polmonare. Tutto il gioco vocale deve essere gestito dall'esterno della bocca, togliendo ogni azione volontaria dagli organi coinvolti. 

Però alcuni pensano che se non si preme, non si gonfia, ecc. ecc., la voce non è appoggiata, anzi, è proprio spoggiata. In linea di massima la maggior parte di essi confondono l'appoggio con l'ingolamento. Con le spinte e controspinte di cui sopra, la gola tende a chiudersi (anche se gli insegnanti continuano a dire - inutilmente - "apri la gola") e quindi il suono sfregando sulle pareti rumoreggerà, e questo è appunto un brutto ingolamento. In un certo senso noi dobbiamo proprio pensare, rispetto a quelle azioni, a spoggiare, cioè a lasciare che il fiato scorra, a non pensare e non favorire alcuna pressione o blocco vuoi a livello addominale, che, ancor meno, glottico. Si avrà una meravigliosa sensazione di rilassamento e libertà, che alcuni paurosamente riterranno mancanza di appoggio. In realtà in questo modo si favorirà proprio l'azione contraria al sollevamento della base della voce, cioè quella pressione che indurrà il diaframma, per conto dell'istinto, a sollevarsi e a creare le carenze e i difetti. Non che le cose siano così facili, perché l'istinto sentirà ugualmente una minaccia dalle varie azioni che si intraprendono per cantare con determinate caratteristiche teatrali, però si punta nella direzione di superare le reazioni e non si metteranno in moto azioni bellicose tra muscoli e parti interne del corpo, ma si favorirà invece la scorrevolezza, la totale libertà, il pieno controllo espressivo e musicale a livello mentale, scaricando da muscoli  e cartilagini ogni coinvolgimento. Solo in questo modo le pareti oro-faringee potranno assumere plasticamente le giuste posizioni e dimensioni foniche rapportate, e tutto potrà vibrare sinergicamente dando alla voce le caratteristiche più elevate che sia concepibile. 

sabato, novembre 21, 2020

Cosa significa "parlare"

 Questa scuola ha un principio fondamentale che si basa sulla parola. Non solo essa è importante ai fini di esplicitare un testo poetico, drammaturgico, che come è servito al compositore per suscitare una musica, non può disgiungersi da essa e deve essere valorizzato in ogni sua minima cellula, ma è il motore e lo stimolo fondamentale dell'educazione vocale. Essa è l'elemento che permette, se correttamente esercitata, di amplificare e omogeneizzare tutta la gamma vocale di un soggetto al massimo delle possibilità. Questo era compreso anticamente, ma completamente abbandonato e anzi vituperato negli ultimi decenni a favore di un arido suono, privo di reali possibilità artistiche. 

Detto ciò, mi rendo sempre più conto che non si ha realmente l'idea di cosa voglia dire "parlare". Ci si riferisce al parlato spontaneo, ed è giusto dal punto di vista dell'obiettivo, ma in mezzo ci sta uno sviluppo che richiede uno studio, un impegno che non ci si immagina! Diciamo pure, per capirci, che occorre fare un lavoro pressoché identico a quello di un attore, e infatti anticamente il passaggio al canto operistico avveniva da parte di attori, e ancora nei primi decenni dell'800 i cantanti erano spesso chiamati "attori". 

Dunque, per chi può, consiglio senz'altro di frequentare corsi di dizione e recitazione. In ogni modo in una scuola di canto come si deve è bene si sappia che devono essere svolti anche esercizi analoghi.

Quindi, in cosa consiste questo lavoro? 1) individuare gli accenti tonici delle parole e esercitare la corretta dizione (accenti acuti o gravi, s e z sonore o mute...); 2) individuare gli accenti fondamentali delle frasi; 3) individuare i registri espressivi (colloquiale, drammatico, allegro, burlesco, ironico, ...) e saperli applicare praticamente; 4) saper utilizzare le dinamiche e i ritmi, i tempi, le indicazioni di punteggiatura (esclamazioni, domande, sospensioni). 

Se manca in modo rilevante questa capacità, anche il canto ne risentirà totalmente. Con un buon impegno, tra i sei mesi e un anno si può raggiungere un buon controllo del parlato espressivo, che si potrà applicare costruttivamente al canto. 

venerdì, novembre 20, 2020

Nascondere, più che coprire

 Da ormai molto tempo è in uso il termine "coprire" per intendere il passaggio di registro. Da un altro punto di vista, potremmo intendere proprio coprire, celare, nascondere un'incapacità di raggiungere un importante obiettivo che potremmo semplicemente definire omogeneità. Infatti da ormai diversi decenni è rarissimo ascoltare cantanti che mostrino le stesse caratteristiche vocali nelle tre sezioni grave-centro-acuto. Si danno tante spiegazioni, ma mancherebbe quella più importante: è possibile avere una reale omogeneità, e quindi poter esercitare la stessa comprensibilità del testo e lo stesso colore su tutta la gamma? se no perché e se sì, perché la maggior parte dei cantanti non raggiunge questo risultato?

Per intanto abbiamo bisogno di tornare a specificare un aspetto tipicamente vocale a differenza di quello strumentale: gli strumenti emettono unicamente suoni, la voce ha due "stadi" di emissione, il suono e la voce vera e propria; come ho già scritto frequentemente, il suono è il solo prodotto della vibrazione laringea, e costituisce il "serbatoio" di cui si alimenta, esternamente, la voce. 

Bisogna poi anche intendersi su un criterio di osservazione del suono in relazione all'omogeneità. In realtà nessun suono di nessuno strumento è realmente omogeneo, in quanto è fatale, per ragioni acustiche, che i suoni schiariscano andando verso l'acuto e scuriscano andando verso il grave. Questo dato però può avere delle differenze in base alla caratteristiche strumentali. Ad esempio una stessa nota, cioè un suono con il medesimo numero di vibrazioni, emesso da un violino o una chitarra, ecc., avrà un colore diverso se eseguito su due o tre corde diverse, in quanto il diametro delle corde cambia. Lo stesso accade se quella stessa nota viene emessa da un violino, da una viola o un violoncello, sia per le dimensioni delle corde che per le casse armoniche. Quindi è assai difficile poter assegnare un colore assoluto a una nota o gruppo di note; possiamo solo dire che esiste una progressività per cui salendo il colore schiarisce e viceversa. E' però possibile mitigare questa caratteristica facendo un percorso che potremmo definire di controsenso. Come è logico dalla fisica, per poter andare verso le note acute, le corde degli strumenti, e quindi anche della voce umana, si devono assottigliare, e viceversa. Se volessimo cercare a tutti i costi di mantenere un colore più omogeneo, volendo si potrebbe passare da una corda più sottile a una più spessa. Come mai questo in campo strumentale non succede, a parte eventuali, ma credo rari o inesistenti, eccezioni? Per diversi motivi: intanto perché per ottenere suoni più acuti su una corda più spessa si dovrebbe andare in una zona più alta della corda stessa, che creerebbe problemi di intonazione, ma anche di limite; a un certo punto ci sarebbero anche seri problemi a metter in vibrazione la corda stessa. Quindi si instaurerebbero problemi di qualità! Lo stesso suono acuto eseguito su una corda più spessa risulterebbe più opaco, perderebbe squillo, brillantezza; infatti quando un compositore indica sulle parti degli strumenti ad arco di eseguire determinate note su una corda più grave del dovuto, lo fa per ottenere un timbro "sombre", più scuro, ma anche più opaco, nasale, per ottenere un effetto espressivo particolare. 

Nella voce si era partiti, molto tempo fa, con la "tecnica" dell'oscuramento per aggirare una difficoltà che si presentava quasi a tutti, cioè collegare la zona centrale con quella acuta. Qualcuno scoprì che scurendo la voce a partire da determinate note, si riusciva a entrare più facilmente (cioè in tempi più brevi rispetto ai tempi standard di educazione vocale del tempo) nella zona acuta, evitando di mostrare una voce gridata e difficoltosa. A nessuno forse venne in mente che era un escamotage, non una soluzione! Aggirare il problema può anche costituire una soluzione provvisoria o per chi si accontenta. Accontentarsi può andar bene per chi ne vuol fare un mestiere, non una professione e tanto meno un'arte. Quindi diciamo forte e chiaro che "coprire" i suoni, o peggio modificare la pronuncia nella zona acuta è (già) un modo di affrontare la voce erroneo e che rende mediocre il relativo canto. Ma qualcuno a un certo punto si pose il problema e pensò di risolverlo: se la zona acuta va scurita per affrontare la questione degli acuti, e si crea disomogeneità con il centro-grave, scuriamo anche questa zona!! (cioè una soluzione al contrario!). Per la verità scurire è una possibilità acustica che possiede anche la voce umana, con le stesse finalità della musica in genere, cioè creare degli effetti espressivi per determinate frasi, personaggi, situazioni. Non si dovrebbe mai ricorrere a effetti per lunghi periodi, perché vanno ad annoiare e a mitigare la loro stessa funzione, che è quella di creare un interesse, una novità, una diversità che, per l'appunto, deve avere una breve durata per poter risultare vincente. Ma la comodità di non dover studiare quale fosse la vera soluzione ha fatto sì che il modello si diffondesse fino a diventare metodo. Bisogna poi considerare che l'oscuramento, se fatto su una voce non proiettata esternamente, è destinata a restare indietro, quindi difettosa.

Ma c'è altro. In campo femminile il problema dei cosiddetti cambi di registro è doppio. C'è infatti un reale cambio di registro dal grave al medio e poi un (falso) cambio da medio ad acuto. Ma, da sempre, il primo è sempre stato quello più "antipatico"; nel tratto medio, infatti, la voce femminile risulta in genere più "falsa", debole, chiara, con una diversità non indifferente con le note gravi, che sono invece alquanto piene, sonore e tendenzialmente scure. A un certo punto, quando cominciò a imperversare un'altra sciocchezza, quella della "maschera", qualcuno ritenne che le note gravi (femminili) fossero sbagliate e pericolose e proposero l'abolizione del registro "di petto", che non risultava "in maschera", ma basso ("follie, follie"). Però permaneva il problema di un falsetto molto debole e chiaro che risultava poco convincente e incisivo soprattutto nel repertorio più drammatico. A nessuno venne da chiedersi come mai più anticamente il problema non sussistesse, o, al limite, si prendevano esempi negativi, o presunti tali, dove si evidenziava uno scalino tra i due settori. Ma siamo sempre lì; si preferisce aggirare l'ostacolo o trovare delle scuse per non affrontarlo realmente. Ci vuole troppo impegno, troppa energia, troppo tempo. 

Ancora una cosa; il registro medio, che preferisco definire come falsetto, come indica Garcia, nelle donna si presenta istintivamente poco o per nulla appoggiato, cioè la sua innata debolezza e chiarezza, è dovuta al fatto che necessitando di una corda sottile e tesa, richiede parecchia energia, che l'istinto naturalmente non concede facilmente, per cui resta come una voce "sospesa", che fa vibrare appena il bordo della corda senza coinvolgere più ti tanto il resto della corda, che richiederebbe un impegno molto maggiore. Il resto della corda vibra naturalmente nel registro grave, ma istintivamente si ferma quando si dà l'attacco a quello medio, dove il falsetto è più proprio. Se viene utilizzato con la parola, nel tempo si sviluppa e si arricchisce, ma non nel parlare spontaneo (che lo donne oggi non usano quasi più), che non necessita di particolare volume (peraltro in buona parte compensato dalla maggiore penetrazione). Il problema si pone quando si chiede a una donna di "parlare" e intonare nel registro medio, perché, perlomeno al giorno d'oggi, o va a cercare il petto, gridando, o spoggia, rimanendo su una voce povera e debole. La soluzione c'è, e consiste nel privilegiare sempre la parola, evitando di rimanere pienamente nel petto, ma anche di "gallineggiare", come dico io quando si emettono suoni spoggiati e incomprensibili, che sarebbe l'imitazione infantile (o maschile) della voce di donna. E' un percorso che richiede tempo e pazienza da parte di maestro e allievo, ma questa è la strada, che non ha alternative. Invece, per prendere la scorciatoia, cosa si fa? Si scurisce tutto, rendendo incomprensibile e financo ridicola la voce e quel che è peggio si evita il passaggio al registro grave, rendendo quindi di fatto "zoppa" la voce, e necessitando poi di ingolamento le note più basse, non essendo appropriata la postura della corda a emettere quelle note in modo accettabile (non che questo lo sia, ma siamo sempre alla scelta tra la padella e la brace, e ha vinto la brace).

giovedì, novembre 19, 2020

Da tenere a mente...

NON SI ASCOLTA PER RISPONDERE, MA PER CAPIRE!

Da ormai tanto tempo, mi rendo conto che la gente fa fatica ad ascoltare. Non riesco quasi più a seguire molte trasmissioni televisive, i cosiddetti salotti, perché chi fa le domande, spesso e volentieri non aspetta le risposte, ma interviene quasi subito a interrompere. Perché? Semplice, perché della risposta non gli interessa niente, ciò che interessa è fare la domanda, cioè ascoltarsi, mettersi in primo piano.

Sul tema dell'ascolto, colgo analoghi problemi quando qualcuno parla, cioè cerca di spiegare o di illustrare un argomento a qualcuno che dovrà applicarlo o, peggio, a qualcuno che ha sbagliato. Intanto per prima cosa viene fuori l'ego, che non accetta che si sbagli, per cui salgono in superficie ogni genere di scuse, di giustificazioni, le quali devono essere manifestate il prima possibile, impedendo all'interlocutore di elencarle. Ma non si pensi che il silenzio sia la risposta giusta, perché noi abbiamo sempre quella radio "rotta" che è la mente, che anche se ci siamo imposti di non rispondere, continua a suggerirci che non abbiamo sbagliato, che qui e che là, che chi ci valuta non ha capito, ecc. ecc., e noi dopo poche parole non si ascolta neanche più quanto stanno dicendo. Questo purtroppo è un grave problema! L'esercizio che ci può veramente portare alla libertà è mettere a tacere quella vocetta, ascoltare e non rispondere ma non solo a chi ci parla, che spesso è un dare la ragione dell'asino, ma a noi stessi, al nostro ego. "non imprecare, umiliati", dice Padre Guardiano nella Forza del destino. Imprecare anche contro sè stessi è sbagliato, perché non è un modo di comprendere. Ascoltare è veramente difficile, ci può portare verso abissi di introspezione duri da affrontare e digerire, ma sono necessità per la vita, non solo per il canto. 

venerdì, novembre 13, 2020

Dinamiche e accenti

 Dinamiche e accenti sono due livelli musicali diversi, specie nei brani con un testo. Il testo infatti contiene parole che posseggono accenti, detti TONICI. Anche le frasi contengono accenti, cioè gli accenti delle parole all'interno delle parole non sono propriamente tutti sullo stesso livello, ma hanno una gerarchia. Se io recito uno frase, comprenderò che in questa c'è un accento principale. Ogni parola, poi, avrà un proprio accento, ma esse però non dovranno soverchiare quella principale. In una parola ci sono diverse sillabe; quando si canta, spesso e volentieri non si tiene conto degli accenti tonici e si piazzano qua e là in subordine agli accenti musicali o (soprattutto) a questioni vocali e respiratorie. Gli accenti musicali non sempre coincidono con quelli testuali. Il compositore cerca sempre di far coincidere almeno il principale (il battere) con un accento testuale, ma non è infrequente che l'accento musicale coincida con una sillaba atona. Questo è un problema che non è sempre così facile da risolvere, perché bisogna saper ridurre un accento laddove musicalmente sentiamo che ci andrebbe. E' una questione particolarmente presente nella musica più antica e soprattutto nel genere sacro, dove i "gloriàààà" si sprecano. C'è un punto, ad es., nella "solita storia del pastore" nell'Arlesiana di Cilea, che pur essendo scritto correttamente porta quasi tutti i tenori a sbagliare un accento: "... nel sonnò almen,,,". E' una terzina, quindi l'accento è da porre sulla prima nota, dove c'è "son", che è giustamente sede dell'accento tonico. Eppure se voi sentite la gran parte delle esecuzioni mettono più l'accento su "no" che su "son", o al massimo su entrambe le sillabe. Non lo fa Gigli, però, ma lo fa Kraus, e, scandalo! pure Schipa!!

Gli esempi possono essere tanti. La soluzione in fondo è relativamente semplice: bisogna leggere il testo, direi meglio: recitarlo, mettendo un po' di enfasi sugli accenti tonici, e magari anche facendo un segno sulle parole nel testo sullo spartito; ma poi mettere gli accenti può essere più facile che toglierlo dove non ci va. Bisogna esercitarsi, è una necessità imprescindibile di ogni esecuzione che si voglia definire professionalmente onesta. Lo spartito di un cantante che studi seriamente dovrebbe essere costellato di segni; gli accenti, le forcelle dinamiche per seguire la tensione, i respiri....

Quindi accade che in una frase che va a crescere, dopo l'accento ad es. iniziale, nelle sillabe successive occorre togliere gli accenti. Ad es. "manca sollecita" (1^ lezione del Vaccaj), la frase è in crescendo (sia perché sta salendo, sia perché necessariamente la tensione è percepibile che andrà a crescere), ma dopo l'accento su "man-" e fino a "-le-" le sillabe intermedie non dovranno avere accenti (così come su "-cita", ancor più difficile essendo sulla parte più acuta), pur in un generale crescendo (l'accento su -lècita è accento di frase). Ad esempio, proprio in questa prima lezione, c'è uno "scontro" tra accento musicale e testuale: "ancor che s'agiti", inizia in battere, dunque c'è un accento musicale sulla A, che però risulta errato nel testo, perché l'accento è su "-còr", quindi bisogna attaccare dolcemente per poter dare più enfasi all'accento del testo. Non sono dettagli, ma profondità di studio, che reclamano ore di studio, concentrazione e voglia di fare le cose con serietà, Quando tutto sarà compiuto, sarà una gioia ascoltare un risultato realmente veritiero, musicale, che rende conto di ciò che il compositore ha saputo cogliere dalla propria coscienza. 

martedì, novembre 10, 2020

La rivoluzione vocale

 La proposta di questa scuola di canto, che deriva da un pensiero profondo, da riflessioni lungo decenni, fondata su esperienze, risultati, osservazioni, dovrebbe essere la normalità, e invece finisce per manifestarsi come una rivoluzione laddove la normalità è rappresentata da un coacervo di formule meccaniche (perlopiù mal masticate e mal digerite) senza fondamenti e strumenti artistici e soprattutto antropologici. Se così non fosse non sarebbero ignorati due aspetti ineliminabili del percorso propedeutico: la parola e l'istinto. La parola è considerata un "di più", una necessità per aderire al testo dei brani, e spesso pure un impiccio, di cui non tenere in considerazione più di tanto, e quasi sempre da piegare, cioè da modificare, in virtù delle necessità del suono. 

Il suono è un "pezzo" della voce, un elemento comune a gran parte del regno animale, che non ci contraddistinguerebbe se non avesse potuto contare su un'aggiunta evolutiva, appunto la parola. Essa ha un costo in termini di energia, e per questo motivo l'istinto, l'altro grande dimenticato, la tiene al minimo regime. Come tutte le cose nell'uomo questo "minimo" non è uguale per tutti (anche questo ha precise ragioni gnoseologiche), per cui alcuni sono in possesso naturalmente di voci già molto poderose, sviluppate, oltre a possibili doti musicali, ritmiche, espressive, drammaturgiche, ecc. Questo può aiutare ma non automaticamente proiettare nel regno dell'arte, perché l'istinto è sempre in agguato. Per poter accedere al mondo dell'arte, dobbiamo fare i conti con lui, che è progettato e funziona per preservare le nostre condizioni fisiche, cioè la nostra parte animalesca. Questo è lo scoglio imponente che dobbiamo affrontare. Ogni tentativo logico, scientifico, ragionato di cantare artisticamente si risolverà in un compromesso, più o meno fortuito, per cui si potranno avere risultati eccellenti, ma mai perfetti, mai esemplari. Per la maggior parte delle persone questo probabilmente basta e avanza. Ricordo un ragazzo che venne a farsi sentire, e a un certo punto disse: "a me non importa diventare perfetto, mi basta poter cantare". Non commentai, e non ho nulla da rimproverare. Ognuno deve e può scegliere la propria strada, se ne ha le opportunità, ovvero se si mette nelle condizioni di trovarle. Ma in realtà non è una scelta, cioè non è una scelta ragionata, è una NECESSITA'! Se non avverti tale necessità, c'è poco da cercare, ti interessa il "lavoro", ti interessa l'impiego, l'occupazione, lo stipendio. Non ti interessa realmente l'arte, il tuo completo coinvolgimento, non ti interessa dare, ma prendere. 

L'istinto è una intelligenza, rozza, grossolana, ma molto rapida e cieca. Non interviene in basa a ragionamenti elaborati (non è in grado di elaborare), ma ogni qualvolta percepisce, tramite i sensi, un seppur lontano accenno di minaccia al funzionamento regolare e preordinato del corpo. Il canto interviene sulla respirazione, non funziona con il normale ritmo e ciclo respiratorio, necessita di tempi, quantità e qualità proprie, che non collimano con quelle fisiologiche. Il ciclo respiratorio regolare dura un paio di secondi, assorbe rapidamente aria contenente ossigeno per restituire anidride carbonica e in questo ciclo non vi è alcuna pressione né verso l'interno né verso l'esterno. Un ciclo vocale invece può durare molti secondi,

ed emette suoni e parole, quando è perfetta VOCE PURISSIMA, avente tutte le caratteristiche potenziali del nostro corpo e del nostro spirito, ma crea o può creare pressioni sia verso l'interno che l'esterno. Questi due fattori mettono in allarme e in reazione l'istinto, che crea i problemi e i difetti. 

La componente metafisica è indispensabile. Chi ritiene che il mondo del canto riguardi solo aspetti fisici è del tutto fuori strada. E molto probabilmente questa è la causa principale di quanto dicevo all'inizio, cioè si vuole entrare nel campo dell'arte vocale ma senza impegnare la sfera creativa, che è difficile ma anche problematica, perché ci induce a guardarci dentro, a capire chi siamo, come siamo fatti (non anatomicamente, intendo), cosa vogliamo, i nostri problemi, i nostri desideri, perché, e cosa siamo disposti a fare. Ci induce, e questo è il lato più "rognoso", a essere umili, ad abbattere il nostro ego, e questo, anche se non è il nostro istinto, si comporta nello stesso modo, ci guida e ci sprona in una direzione, che è esattamente all'opposto di qualunque obiettivo artistico. 

Stamattina in televisione c'era un'opera, come quasi tutte le mattine. Purtroppo quasi ogni volta sono costretto dopo un certo tempo, a spegnere, perché mal sopporto un certo modo di cantare che ormai accomuna quasi tutti, che non è solo vocalità, come qualcuno può pensare; manca tutto un insieme di aspetti indispensabili alla creazione di un evento operistico, dall'aderenza musicale, a quella gestuale, quindi recitativa, drammaturgica, espressiva.. e poi anche vocale! Ma, per esempio, ieri è stata data un'opera registrata nel mica poi tanto lontano 1980 in un teatrino di tradizione. Beh, l'ho ascoltata tutta e con gusto! 40 anni fa si potevano ascoltare grandi cantanti, anche se la decadenza era già in corso, perché molti di quei cantanti, che in quella rappresentazione erano veramente notevoli, hanno poi concluso malamente la propria carriera. Ma, per tornare a stamattina, a parte alcuni, più o meno modesti, a un certo punto entra un basso, di corporatura notevole. Mai sentito prima. Apre la bocca e... ne esce un RUGGITO (beh, del resto ieri ho sentito un paio d'atti di una edizione delle Nozze di Figaro dove Bartolo GRACIDAVA! a riprova che l'uomo ha ancora molto in comune col regno animale). Quello che mi è saltato all'orecchio è che a parte il suono orrendo e l'impossibilità di comunicare alcunché, quello, che non si può nemmeno definire suono essendo molto più vicino al RUMORE, era lontano, dico proprio in termini di misura di lunghezza, dalla parola. Veniva da dentro proprio come quando vediamo un leone ruggire; per potersi avvicinare alla parola, il suono avrebbe avuto bisogno di avanzare un metro!! E' evidentissimo, lo colgo in modo immeditato quando ascolto i geni del canto, che tutto il processo vocale meraviglioso è ATTACCATO alla parola, e la parola sta DAVANTI a tutto. Il suono è dietro, è la sua riserva, è come il tender nei treni a vapore, è il suo rifornimento, ma non è la voce. La voce per l'uomo è la parola. PUNTO E BASTA! Ma anche nei migliori cantanti di oggi, rarissimamente sento la parola davanti al suono, perlopiù sento suono, dietro al quale si sente, più o meno bene, la parola. 

Qualcuno può pensare che io stia solo facendo una crociata in favore della comprensibilità del testo, ma non è questo (o solo questo), anche se è un dato fondamentale. Ciò che sto dicendo è che la parola è la MOTRICE della voce, è ciò che accende, aizza, eccita, istiga, scalda, agita il suono madre provocando la sua trasformazione in una cosa diversa, indefinibile come tutti gli oggetti d'arte, e la trascina nello sviluppo musicale di una frase, di un'articolazione musicale, ecc. Come sempre, bisogna stare accorti con la scrittura. Nello scrivere questo già penso alle possibili conseguenze negative su come tutto ciò o parte di ciò può essere interpretato. Parlare è veramente parlare, cioè ciò che facciamo normalmente quotidianamente, SEMPLICEMENTE. Invece il primo, spesso lungo, ostacolo da superare, è correggere il gridare, l'esagerare la pronuncia accompagnando con spinta, con forzature. Parlare ci pare troppo semplice, banale, che non può portare a niente, non è canto, non è voce lirica. Non riusciamo a intuire la forza propulsiva, ma anche trainante, svegliante, stimolante della parola, ma ciò che fa e deve fare la differenza è la componente interiore, l'intenzione, la sincera adesione al suo contenuto, che non vuol dire esagerare o contornarla con effetti o smorfie, ma comprendere ciò che si sta dicendo nell'ottica che tutti possono comprendere. 

venerdì, novembre 06, 2020

Evolvere o ripetere

 Un motto della filosofia Zen dice: Evolvere o ripetere.

Quando si parla di evoluzione si pensa sempre a quel processo, anche parecchio discusso, per cui da una specie, mediante mutazione, se ne crea una nuova. La più contrastata è naturalmente quella che vorrebbe il passaggio dalla scimmia all'uomo. Il punto su cui più si discute è che di tutti questi passaggi mancherebbe sempre una prova tangibile, cioè il fondamentale anello di congiunzione. Questo tipo di evoluzione io lo definisco "orizzontale", cioè si produrrebbe in un lunghissimo tempo e coinvolgerebbe fondamentalmente il DNA. Ma possiamo dire che esista un altro tipo di evoluzione, che definirei "verticale", che si produce in singoli soggetti e avviene nel corso di una vita, quindi in un tempo estremamente limitato, non coinvolgendo il DNA. Questo tipo di evoluzione potremmo anche definirla una raffinazione dagli strati più grezzi, pesanti a quelli più  sottili, sublimi. Non per nulla il motto che ripeto più sovente è "togliere". Su questa materia molto hanno scritto e lavorato i cosiddetti "alchimisti", che nell'immaginario popolare sono ritenuti solo dei matti illusori che volevano trasformare i metalli in oro, ma questa è una metafora! In realtà erano filosofi e studiosi, anche di scienze alchemiche, cioè chimiche, ma il loro lavoro si orientava molto sull'uomo. 

Il motto Zen dice una cosa molto semplice ma intelligente: o ti metti in una condizione per cui ti togli da quel "pantano" rozzo e materialista in cui ti trovi naturalmente e quindi ti metti in un percorso evolutivo, cioè di progressivo affinamento, o altrimenti continui a ripetere i cicli vitali fisici, istintivi, animaleschi che ti condizionano. La frase Zen di per sè non è negativa o pessimista; essa ti pone di fronte a una scelta. Come l'ho messa io sembra di distinguere l'umanità tra persone ignoranti, rozze, e gli intellettuali. Non è affatto così! Il distinguo è molto ma molto più sottile, per cui tra persone anche di ampia cultura e posizione sociale ci possono essere strati enormi di "ripetenti". Il punto focale, ciò che impedisce l'accesso all'evoluzione, è L'EGO! quello è l'ostacolo più ostico da superare. Ecco quindi che proprio tra chi ha avuto successo, chi ha raggiunto posizioni sociali elevate, è più facile trovare persone che non hanno neanche iniziato una reale ascesa evoluzionista, ma solo superficialmente, con affabulazioni e modalità accattivanti di presentarsi, possono illudere di aver conquistato gradi elevati di conoscenza. Ecco. Per l'appunto l'ego è il masso che ci separa dall'ascesa conoscitiva. Se sappiamo, o meglio, se incontriamo la persona giusta che ci sa far, superare l'ego, ecco che possiamo ambire (si può dire con un determinato senso, trascendere) alla vera conoscenza. La ripetizione è monotona, è sterile, porta all'annichilimento e quindi alla vita vuota, senza senso. La tensione all'evoluzione dovrebbe essere una spinta interiore immancabile in ogni soggetto, ma questo comporta un lavoro, un'impegno non di poco conto, che coinvolge tutto l'essere, e questo porta alla rinuncia, a causa di uno dei più subdoli input istintivi: la pigrizia.