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mercoledì, settembre 25, 2019
Della tradizione
Il direttore Sergiu Celibidache, a proposito della tradizione in musica, diceva: "la tradizione è il brutto ricordo dell'ultima cattiva esecuzione". A parte quelle popolari, le tradizioni sono in realtà il frutto della pigrizia umana. L'istinto ci porta alla pigrizia per "risparmiare". Ascoltare cose nuove, richiede attenzione, quindi impegno, mentre ascoltare "il solito", è più riposante, chiede meno fatica mentale, meno pensiero. Le esecuzioni operistiche dei grandi autori del Novecento risentono in pieno della tradizione, il che vuol dire di "interpretazioni" che spesso hanno arbitrariamente manomesso la scrittura originale, con variazioni, aggiunte, il più delle volte prive di musicalità, di senso. Il che non significa che la musica vada eseguita pedissequamente come è stata scritta. La partitura è un grande canovaccio, una stenografia, dove il compositore ha rivestito un testo di una sontuosa base musicale con il compito di esaltarlo, di illuminarne il contenuto. Il compositore diventa come un grande attore che recita quel testo con le giuste inflessioni, gli accenti, le espressioni più sensibili del suo repertorio sonoro. I cantanti non hanno che da seguire quella linea, senza tradirla, ma sapendo riconoscere il "non scritto", che non significa "interpretare"!. La partitura comporta molte limitazioni, come la scrittura. E' basata su pochi simboli, che necessariamente vengono ripetuti continuamente, pur non riflettendo sempre uno stesso principio. Le durate dei simboli vengono assimilate a tempi meccanicamente identici, ma nella realtà così non è, anche per una questione di semplificazione, altrimenti tutto diventerebbe estremamente complesso. Questo comporta stereotipie e dunque il rischio continuo di annoiare, cosa che puntualmente avviene, non per colpa del compositore, o non sempre, ma dell'esecutore che non riesce a rivivere lo stato di coscienza del compositore, dunque si rifugia nella replica fisica, meccanica, della scrittura, senza riconoscere la verità che nasconde. Noi dunque siamo inondati da esecuzioni il più delle volte uguali perché qualche cantante ha trovato un escamotage per dare interesse a una certa aria, a un certo momento, non sapendo o non potendo restituire la verità, la sincerità della scrittura e del senso, del significato che vi è contenuto. Effetti, spesso dozzinali, appariscenti, rozzi, per non rischiare la noia o quella che si ritiene la mera ripetizione. La ripetizione in musica non esiste, nel senso che il compositore non la può aver utilizzata banalmente; in essa egli ha vissuto anche la tensione del momento, acuita o rilassata, per cui ci ha sentito anche un inasprimento o un decadimento dinamico per sostenerla o contrastarla. Il compositore ha dentro di sé il fuoco che ne ha seguito il processo compositivo, e non riesce a sentire con la stessa partecipazione dello spettatore ciò che avviene esternamente, dunque non si trova nello stesso stato che vive più oggettivamente il pubblico, ed ecco perché è un errore pensare (come diceva Stravinsky) che l'autore è il migliore interprete di sé stesso. Se ascoltate l'intermezzo della Cavalleria Rusticana diretta dall'autore, Pietro Mascagni, e seguite la partitura, rimarrete più che meravigliati, attoniti, di fronte a un'esecuzione che ne stravolge totalmente la scrittura. Lui, da direttore, si arrogava il diritto di sconvolgere tempi, dinamiche, agogiche in chiave "interpretativa". Aveva sbagliato a scrivere o a dirigere? Egli non si è accontentato di quanto aveva scritto e in fase esecutiva voleva destare maggiore interesse esasperando il "tira e molla". Se si segue la tradizione o addirittura l'idea che il compositore è anche il migliore interprete di sé stesso, oggi dovremmo sempre eseguire quell'intermezzo sulla base della sua esecuzione. Fortunatamente non è così. Invece nel canto il più delle volte si ricorre alla mera ripetizione di quanto ci hanno lasciato esecuzioni del passato, in termini di note cambiate, aggiunte, tagli, cadenze. Esiste anche una raccolta, compilata da Luigi Ricci, di una miriade di modifiche riguardanti arie di gran parte delle opere dell'Ottocento. Qualche direttore, negli ultimi decenni, sulla scorta delle esecuzioni "filologiche", ha voluto ripristinare i tagli ed eliminare aggiunte e modifiche. Bene ha fatto, ma ha compiuto un lavoro parziale e talvolta controproducente. Perché? Come ho spiegato, seguire pedestremente la scrittura può rivelarsi limitante e impoverente, se non si sa valorizzare il "non scritto". Le variazioni, come dicevo, sono nate spesso proprio per colmare la percezione della vuota ripetitività senza sapere come fare. Anche qui ci soccorre la Storia. Per molto tempo, dopo la nascita dell'opera, i cantanti sapevano variare con gusto e opportunamente, cioè in base al contesto, le ripetizioni. Erano maestri dell'improvvisazione. L'improvvisazione era una delle arti legate alla musica, ed era sempre presente nei concorsi e nelle prove. Col tempo però i cantanti misero il proprio ego davanti al fatto musicale, e cominciarono a infiorettare le arie solo per far sentire le proprie capacità virtuosistiche senza che questo apportasse arricchimento all'opera. Questo avvenne anche in campo strumentale, infatti esiste tutta una sterminata letteratura di variazioni per tutti gli strumenti (il più delle volte basate proprio su arie d'opera) da parte, spesso, di compositori del tutto sconosciuti - ma ottimi conoscitori delle proprietà tecniche degli strumenti - che risultano il più delle volte di una noia mortale, proprio perché fini a sé stesse, prive di reali qualità musicali. Ecco dunque che alcuni compositori ritennero di voler "ripulire il campo", vietando ai cantanti di aggiungere virtuosismi, e scrivendoli essi stessi direttamente in partitura (in tempi recenti alcuni sedicenti musicologi hanno voluto scrivere variazioni per i cantanti nelle arie, il più delle volte con esiti disastrosi). L'altro motivo per cui i direttori "filologi" hanno compiuto un lavoro parziale, è che non sentono e non si accorgono delle tradizioni più sottili, cioè il ricorso a modi di cantare, uso, o meglio abuso, nell'utilizzo dei registri vocali, e nel ricorso a rallentamenti e corone. Sono queste tradizioni che il più delle volte rendono davvero obsolete le letture operistiche, e questa è una delle motivazioni, insieme alla paurosa decadenza dell'arte vocale, a far sì che sia emersa, per evitare la monotonia, la necessità (direte che non sentite la necessità, ma a pensarci bene è così) di regie e scenografie assurde. Se il piano vocale, che dovrebbe essere fondamentale, risulta sempre meno interessante, il teatro qualcosa deve fare per salvaguardare la teatralità. E' una scelta che si basa sulla provocazione, sullo scandalo, roba proprio da indignare, che dalla fine del Secolo scorso, è stata proposta con questa occulta motivazione. Scelte che possiamo definire scellerate, scorrette anche sul piano etico e artistico, ma che trovano giustificazione nel rischio di chiudere i teatri d'opera. Si dirà che se queste regie sono così negative, dovrebbero dissuadere la gente dal frequentare, ma non è così, il pubblico è attratto anche dall'horror o dalla sadica motivazione di andare a contestare!!! E intanto la gente continua a esaltare cantanti, anche i più miserrimi, perché le personalità, anche solo estrose, comunque attraggono e molti spettatori non possono fare a meno di tifare per qualcuno, e le orecchie sono sempre meno sensibili e delicate.
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