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domenica, maggio 23, 2021

Mille e una sfumature di suono

 Per molti, siano essi fruitori, esecutori o produttori di musica, essa è sostanzialmente suono. Sarebbe come dire che la corrente elettrica è un cavo metallico! Naturalmente esso è indispensabile, ma la corrente è un flusso di elettroni, quindi interno al cavo, che necessita di un mezzo per scorrere. Anche la musica necessita di un mezzo, e questo è il suono, ma la musica è un'altra cosa. Se si parte, esplicitamente o meno, con il considerare musica il suono, si cadrà nel diffuso malinteso di manipolarlo infinitamente senza avere alcun criterio e alcun obiettivo oggettivo da perseguire. Ecco dunque che molte realizzazioni musicali si concluderanno con l'esibizione di mille e una sfumatura di suono, come dico nel titolo, ma senza che nessuna di esse possa portare a significativi movimenti della coscienza; nel migliore dei casi, in forza di straordinari contenuti dei brani musicali, a episodiche "emozioni", spesso più autosuggestive che reali. In fondo anche tutta la "moda" baroccheggiante, senza voler sminuire le importanti ricerche e i rilevanti risultati ottenuti sul piano del colore, della prassi e del recupero strumentale, si è basata molto spesso quasi unicamente su aspetti superficiali e cromatici, più che su approfondimenti che tenessero in alta considerazione l'impatto degli intervalli sulla coscienza umana. Uno dei pochi elementi, se non l'unico, di valore nella notevole diffusione della musica rinascimentale e barocca, ricaduto con una certa frequenza anche nell'esecuzione di musiche di epoche successive, è stato il valore dell'accentazione verbale. Fin dai primi decenni del 900 si è cominciato, con gradualità, a recuperare il meraviglioso repertorio madrigalistico, sacro e profano, andandosi a curare in modo sempre più attento, il legame tra suono e parola. Alcuni studiosi, in particolare, anche sulla scorta dei trattati o scritti vari da parte di artisti rinascimentali, hanno insistito sulla necessità di seguire scrupolosamente gli accenti tonici delle parole, oltreché gli accenti e gli andamenti delle frasi. Per la verità questo studio era già presente tra i frequentatori del canto liturgico detto "gregoriano", ma la sua scarsa conoscenza su ampia scala ne ha limitato la diffusione. Se nelle esecuzioni anche di maestri celebratissimi in tutto il passato, escluso Celibidache, di oratori, messe, ma anche dell'opera stessa, notiamo la pressoché totale cecità riguardo gli accenti tonici ( i "glorià", "dies irèèè" ecc.), con ricadute anche nel repertorio strumentale (le frasi chiuse con accenti, mancanza di accenti fraseologici), oggi da parte di molti direttori e strumentisti notiamo una maggiore sensibilità almeno su questo aspetto. Il che non toglie che si continui a giocare sul suono in modo del tutto arbitrario, come ad esempio quel "tira e molla" insopportabile, specie nella musica barocca o immediatamente successiva, per dare l'impressione di essere espressivi e di tener conto di prassi esecutive, cosa il più delle volte inventata o mal compresa, laddove la miopia musicale impedisce di notare che viene massacrato uno dei precetti fondamentali della musica, cioè la continuità. E' ovvio e sacrosanto che vi sia, anche minuziosamente apprezzata, un costante uso della dinamica, ma fare di continuo crescendi e decrescendi, forti e piani sulla scorta di bizzarre idee dell'esecutore, giusto per non essere "uguale agli altri", è un metodo infecondo, oltre che eticamente discutibile. Lo stesso può essere detto riguardo l'uso indiscriminato di strumenti aggiunti negli organici orchestrali nei brani e nelle opere anche fino al primo Ottocento, che può essere tollerato fin quando essi non diventino protagonisti invasivi. Ormai liuti, arciliuti, chitarroni, cornetti, serpentoni e chi più ne ha più ne metta, sono perennemente in primo piano e non di rado coprono, sempre per motivi di amplificazioni innaturali, anche il resto dell'orchestra con i loro arpeggiare, che se può essere fascinoso e piacevole in alcuni attacchi e soprattutto nei recitativi, tende immancabilmente a generare noia e anche fastidio se perpetuato nelle arie e per l'intera opera. Però anche questa moda, senza nulla togliere ai bravissimi esecutori, non di rado anche raffinati improvvisatori, ha potuto contare su una produzione discografica di grande successo, per cui è evidente che il denaro comanda e quindi con una relativamente semplice soluzione si è potuto aprire il mercato musicale per un lungo periodo a molte esecuzioni, alla nascita di nuove orchestre e gruppi strumentali. Encomiabile sul piano del lavoro, visto che il mercato discografico, soprattutto del repertorio inflazionato del periodo romantico, stava cominciando a sgonfiarsi. Un po' meno sul piano della verità musicale, che è invece andato ancor più disperdendosi, sia per il rapporto stesso tra musica e registrazione, sia per la maggior distanza degli operatori da valori e criteri unificanti.  Se infatti, come si diceva, nelle più vetuste registrazioni si può notare una costante mancanza di attenzione alla presenza dei giusti accenti e quindi di fraseggi efficaci, peraltro può essere rimarcabile la ricerca di unitarietà del brano, ricercata senza "bussola", quindi con evidenti errori e mancanza di idonei strumenti espressivi, ma non di rado con risultati degni di nota. Oggi il grosso rischio è di dare al "prodotto musicale", da mettere in vetrina e vendere, una veste sontuosa sul piano di mille sonorità, un caleidoscopio di colori, esaltato dal fascino del falsissimo mondo della stereofonia digitale, senza anima, senza un "capo e una coda" in relazione tra loro, un susseguirsi di attimi emozionanti, quindi un corpo disarticolato, dove gambe, braccia, testa e busto vanno ognuno per conto proprio non essendo legati a un progetto unitario, tenuto conto che non si conoscono gli argomenti fondamentali per far sì che l'unitarietà si possa raggiungere. 

Per contro, nell'ambito dell'opera o del canto classico in genere, la situazione è un po' diversa. Non che non ci siano stati, fin dall'inizio, esperimenti di esecuzioni "filologiche" di opere liriche, iniziando ovviamente da quelle di epoca barocca, con l'uso di strumenti d'epoca, il ricorso a diapason di diversa altezza rispetto ai consueti 440 Hz, e il ricorso a edizioni critiche, ma sul piano del canto la situazione non è stata propriamente della stessa portata, volendone comunque parlare positivamente. Intanto la vocalità per molto tempo è rimasta, sul piano espressivo, quella romantica, se non addirittura verista, e se è andata migliorando sul versante stilistico (e su questo si dovrebbe aprire un altro capitolo), sicuramente non lo è stato sul piano prettamente del fraseggio e dell'emissione, per quanto la critica non faccia che sottolineare che oggi si canta meglio di un tempo. Se vogliamo dire che oggi si segua maggiormente il segno scritto, possiamo essere d'accordo, ma anche su questo piano la questione non solo è discutibile, ma anche poco coerente. Se infatti alcuni direttori e cantanti vogliono rimarcare che fanno "ciò che è scritto", un semplice ascolto farà risultare che anche questo semplice dato non è vero. Si continuano a tagliare brani, si continuano a non osservare le indicazioni dinamiche e agogiche, mettendone e togliendone, si continua a cavalcare la tradizione pur in edizioni dichiarate "filologiche". In compenso si fa un gran parlare dei diapason dei compositori, stravolgendo la logica dell'esecuzione, non avendo evidentemente compreso il ruolo del diapason (purtroppo a partire dai compositori stessi). Ma a parte questi aspetti che turban gli ozi ai musicologi, veri o presunti, ciò che infastidisce su un piano più elementare e pratico, è il fatto che ai cantanti non venga insegnata (come del resto ormai a tutti) veramente la musica, per cui, anche quando il testo si abbia la fortuna di sentirlo detto comprensibilmente, si continuino a sentire accenti fuori posto, mancanza di varietà nelle ripetizioni, ovvero assurdità d'ogni genere nel nome della variazione. Anche nel canto alberga più che altro il ricorso al suono, e purtroppo, contrariamente a quanto avviene in campo strumentale, non mille e una sfumatura, ma un suono e basta, un colore e, se si dà retta a qualche insegnante, un'unica vocale. Quella che andando "in testa" ha ottenebrato il senso profondo del canto e della musica. 

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