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sabato, settembre 15, 2012

Piccolo - scuro

Trovo che spesso si manifesti una confusione tutt'altro che favorevole al buon esito del canto. Come diceva Schipa, le parole sono "piccole". Un consiglio che mi trovo continuamente a fornire è quello di tenere la pronuncia delle vocali, e segnatamente la O, piccola, cioè la "ó", che in dizione si definisce chiusa, termine che è prudente evitare per non suscitare ulteriori fraintendimenti. Quasi tutti tendono ad allargare i suoni, quindi a portarsi verso la "ò", che a buon diritto possiamo definire "aperta". Da un punto di vista professionale è logico che l'uso dell'una o dell'altra dipenderà dal testo (ma io vorrei sapere quanti cantanti e insegnanti analizzano il testo e fanno uso corretto delle é, è, ò ed ó). Da un punto di vista della disciplina di apprendimento vocale, però le cose stanno diversamente. Fin quando il fiato non ha raggiunto quella disposizione artistica che permette la piena libertà di emissione, le due O hanno esiti diversi in termini di qualità fonica. La O "larga", con l'accento grave (ò), è generalmente sconsigliabile, perché tende ad allargare le labbra e la si tende a pronunciare a livello faringeo; il suono pertanto tende a rimanere basso, largo e poco sonoro, quindi istigherà alla spinta e all'affondo. La "ó", che io definisco "piccola", o "stretta" (ma anche questo è un termine che può essere equivocato), è molto più educativa; tende a rimanere a livello labiale e non incita alla spinta. Tutto questo nell'ambito della gamma più comoda, diciamo registro di petto, ma poi cosa succede? La O larga in zona di passaggio diventa decisamente pericolosa e quindi sconsigliabilissima, il suono si allarga sempre di più e non si riesce più a compiere il passaggio se non con contorsionismi orribili e inascoltabili (ma purtroppo oggigiorno molto frequenti). La "ó" invece è molto più "anteriore", non investe la muscolatura ed è meglio indirizzata al canto sul fiato. Capita però un fatto, frequentemente: che venga recepita, interpretata, come "suono scuro", il che non è, cioè non ne è sinonimo, anzi, in genere intendo proprio il contrario. La O piccola e scura, tenderà nuovamente a rimanere in bocca, a fare "uovo", quindi a perdere brillantezza, appoggio, ricchezza e vibrazione interiore (interiore al suono, intendo, non interiore alla bocca!). Quindi la o piccola deve essere tendenzialmente di colore chiaro, sia in basso, dove quasi tutti cercano di scurire, allargare e spingere per far sentire di avere voce, e in questo modo, invece, perdono il fuoco, il "luccichio", ma soprattutto in zona medio acuta, cioè sul passaggio. Qui l'esecuzione risulterà particolarmente difficoltosa, perché la O acuta con il suo calibro ridotto forma una colonna d'aria piuttosto densa e quindi genera una pressione non irrilevante sul diaframma. A seconda dello stadio evolutivo dell'allievo, questo può generare una reazione, e quindi il suono diventa molto difficile da realizzare, oppure può venire scuro e faticoso e anche altre varianti. Diciamo che difficilmente nei primi tempi di studio l'allievo riesce a tenere la o piccola; in genere tutti salendo allargano e c'è poco da fare, bisogna insistere, tornare indietro e riprovare finché il fiato/diaframma sarà più accondiscendente. Quando le cose cominciano ad andare meglio, poi, c'è comunque la tendenza a scurire, sia per un malinteso pensiero che piccolo sia uguale a scuro, il che non è, come abbiamo già detto, sia perché si pensa sempre che il passaggio si debba fare con il suono scuro. Quando il diaframma (ovvero indirettamente l'istinto) è più reattivo e non ci lascia agire, uno dei sistemi per "domarlo" sarà anche l'utilizzo del suono scuro, però il giusto calibro della vocale correttamente pronunciata ci metterà in condizione di percorrere gran parte della gamma, se non tutta, con un colore omogeneo.
Ho posto particolare accento sulla O perché è la vocale che più di altre ha la tendenza ad allargarsi e a perdere appoggio e a ribellarsi al dominio, ma la questione si ripete con tutte le vocali. Particolare interesse riveste la "é", strettissima, che se viene emessa con grande spontaneità e nonchalance, è automaticamente avanti, non spinta, non di gola, appoggiata e sonora. Purtroppo quasi nessuno la accetta così com'è, perché si pensa che non suoni, che non possa essere cantata in teatro, che non sia "lirica", insomma. Non è così, e comunque il problema si ripresenta salendo, quando quasi tutti non resistono alla tentazione di allargare, spingere, ingrossare, gonfiare, schiacciare. Se si mantiene la dizione stretta, si riuscirà a percorrere gran parte della gamma in piena libertà. Purtroppo poi è sempre il fiato che a un certo punto "presenterà il conto", nel senso che quel tipo di suono, apparentemente piccolo e poco significativo, in realtà richiede un appoggio sempre più solido man mano che si sale, appannaggio di un imposto di grande classe, il che richiede tempi non brevi. In fondo il canto è tutto qua...!

giovedì, settembre 13, 2012

Una spiegazione

Ho scritto nello scorso post un mezzo poema, forse noiosissimo. Qualcuno, alla fine, si sarà anche posto una domanda: ma che c'azzecca tutto questo scritto con il titolo? E forse anche un'altra domanda connessa al contenuto: se il cerchio chiuso è silenzio, e io ho chiuso il cerchio, perché invece del silenzio c'è tutto questo scrivere e magari anche polemizzare?
Una cosa alla volta:
Come dicevo, l'arte è un'urgenza interiore, una necessità della conoscenza o spirito, una forza interiore che vuole e deve manifestarsi, quindi io mi comporto come devo, cioè lascio che la mia interiorità abbia sfogo, ma questo per un motivo ben preciso: tra tutti coloro che leggono, di passaggio o stabilmente, ci saranno molti increduli, molti che rimarranno piacevolmente sorpresi, ma poi non torneranno più e dimenticheranno di aver letto, alcuni dubbiosi, alcuni che appositamente verranno per farsi due risate (anche prima di aver letto), alcuni interessati ad approfondire, a leggere altro, a discutere, a far domande, magari a provare. Tra i tanti cantanti, appassionati, critici, insegnanti, chissà un giorno di incontrare quel cittadino, magari un professionista, magari un artigiano, un nobile o un ortolano, che fulminati da un'improvvisa intuizione o frase illuminante, siano colti dal dubbio che forse non tutto ciò che scrivo sono sciocchezze, che forse forse forse un pizzico di vera verità c'è, che forse può valer la pena confrontarsi più direttamente e avere dimostrazioni vive... insomma, se c'è una speranza (e Celibidache disse, più o meno: c'è sempre spazio alla speranza nel giardino di Dio) che un potenziale cantante artista possa incontrare l'arte, io devo insistere e mettere in campo tutte le variabili affinché possa trovare quell'appiglio cui aggrapparsi per farla manifestare.
Quanto al titolo, forse qualcuno ci sarà arrivato: la perfezione che è manifestazione di verità, rivela e divulga il messaggio fondamentale del nostro spirito: chi siamo, da dove veniamo e dove andiamo. L'ascolto - o visione o lettura o quel che è - di un bravo artista, spesso viene valutato con: "mi emoziona". E' una frase tanto banale quanto superficiale, anche se comprensibile. Quando la perfezione si esprime, lo spettatore coinvolto non potrà accontentarsi dell'emozione o del bello, perché la rivelazione del vero toglie la parola. "Ecco, è così!" Il suono vocale perfetto suona al contempo assordante e vuoto, non è rumore, ma è una vibrazione così intensa e ricca da stupire; lo stupore fanciullesco di fronte a qualcosa che non si sa catalogare, non si sa classificare e definire. Mi accade talvolta sentendo alcuni suoni di Schipa e di qualche altro artista, di rimanere senza parole, anche perché colmo di una commozione profonda (anche in molte esecuzioni di Celibidache, naturalmente, e altro...).

Da dove veniamo, chi siamo, dove andiamo....

Chi non è interessato alle disquisizioni di tipo filosofico, è invitato a saltare questo articolo. Perfezione ovvero Verità ovvero Arte. Ritorno a un vecchio esempio che reputo sempre efficace: la "O" di Giotto, ovvero un disegno di estrema semplicità visiva ma che risulta pressoché impossibile da riprodurre a mano libera, senza ausilio di strumenti meccanici. Se si facesse un'indagine, presumo che una buona parte delle persone intervistate risponderebbe che, per quanto si sia bravi, proprio un cerchio perfetto sia impossibile da disegnare a mano libera. Una parte minore forse risponderebbe che potrebbe essere possibile ma richiederebbe un tempo di addestramento lunghissimo, e pochissimi, forse nessuno, risponderebbe che è possibile e basta! Prendiamo un momento il secondo campione, cioè coloro che lo ritengono possibile con molti dubbi; in cosa consiste il dubbio? nel fatto che occorre un'esercizio lungo e costante. In altri termini, se uno prova a disegnare un cerchio, le prime volte verrà una schifezza, poi provando e riprovando verrà sempre più preciso. Se dovessimo rappresentare questo progresso graficamente, vedremo in un piano cartesiano una curva che si avvicina a un asse che noi individuiamo come la perfezione, all'infinito, senza mai incontrarlo. E' quella che si definisce funzione asintotica.

Tale immagine è anche riflessa, vale a dire che se l'esercizio viene meno, la curva tornerà ad allontanarsi dall'asse.
In pratica le persone che hanno questo concetto di Arte in realtà non ne hanno alcuno, semplicemente ritengono che l'arte sia una tecnica, o "la" tecnica che consente a un uomo di acquisire o sviluppare una capacità in modo particolarmente evidente. Accanto a questo quasi sempre c'è anche la relazione con le doti naturali, cioè si presume che si potrà arrivare a un risultato eccelso SE (cioè SOLO SE) esistono delle doti innate, altrimenti è praticamente impossibile. La domanda a questo punto può essere: perché la curva si avvicina all'asse ma non lo tocca? Cioè perché la perfezione è irraggiungibile? E anche qui la risposta comune sarà: perché l'uomo è imperfetto, solo Dio è perfetto, dunque anche il solo pensare di poter raggiungere la perfezione è un peccato d'orgoglio. Alcuni, anche cristiani credenti, non la pensano così, perché ritengono che Dio abbia concesso comunque all'uomo la possibilità di esprimersi anche a livelli di perfezione, essendo creato a sua immagine e somiglianza (su questo si scatena sempre un diluvio di contestazioni, ma a noi interessa poco approfondire in questa sede l'argomento specifico e andiamo oltre). Comunque qui la strada ha due possibili alternative: la perfezione è possibile, la perfezione è impossibile. Se si assume il secondo atteggiamento è evidente che la questione è chiusa e ogni prospettiva sbarrata. Se non sono interessati a una possibile alternativa (magari proprio per questioni religiose), questi soggetti non possono dialogare con noi e serenamente ci lasciamo. Parliamo dunque con coloro che in qualche modo la ritengono possibile, anche se in genere in loro c'è un'idea alquanto vaga e dubbiosa. E' ovvio che sia così, la perfezione, la verità e l'arte non si possono immaginare o prevedere, perché altrimenti sarebbe anche facile raggiungerle. Però esiste, fortunatamente, l'intuizione. Ma l'intuizione non è "il caso" bensì una condizione soggettiva interna e questo perché? Perché è la verità stessa ad essere una condizione soggettiva interna, ovvero un'esigenza della conoscenza (possiamo anche definirlo spirito) che "preme" e cerca di manifestarsi per riconoscersi tale. Una condizione conoscitiva alta svilupperà più forza e quindi il soggetto si sentirà come "assediato" da un desiderio incontenibile di raggiungere un determinato obiettivo (che non è quello di esibirsi o diventare famoso!): scrivere, disegnare, inventare, suonare, cantare, costruire, scolpire, ecc. (quando questa condizione è molto accesa, il soggetto può essere anche definito un pazzo, un maniaco, uno squilibrato...). E' ovvio che tale possibilità è legata anche fortemente alle condizioni esterne in cui si troverà a vivere; un ambiente deprivato, povero, malsano, malavitoso o privo di strutture, creerà impedimenti fortissimi alla realizzazione di un'arte. Capita, però, che la forza interna sia così potente da riuscire a vincere anche le condizioni avverse, ma certo sono fatti rarissimi e storici. Non si pensi, però, che in un ambiente agiato e culturalmente elevato le cose vadano meglio, perché esiste sempre un istinto di massa, che tende ad impedire lo sviluppo di condizioni conoscitive elevate perché "pericolose" alla verità stessa. Se tutti conoscessero la verità, sarebbe il caos, perché l'ambiguità, il dualismo in cui viviamo per ogni cosa, che è il motore dell'esistenza, l'energia alimentante, verrebbe a cessare! Quindi l'esistenza stessa non avrebbe più senso e teoricamente si imporrebbe il nulla, il che è impossibile per motivi un po' difficili da spiegare qui, diciamo: una contraddizione in essere. Quindi la verità non è qualcosa che si "cerca" ed eventualmente si può o meno trovare, ma è una condizione interiore di alcuni soggetti che si sentono spinti a coltivarla. Siccome le conoscenze elevatissime sono pochissime e rarissime, dobbiamo partire dal fatto che quasi nessuno si troverà nella condizione di riuscire autonomamente a sviluppare quest'arte e dovrà giocoforza affidarsi ad altri (o perlomeno "anche" ad altri). In alcuni casi, diciamo buoni, il soggetto può anche appoggiarsi a persone non particolarmente valide, ma da cui imparano come "non" fare. Se riescono a capire quando sono sulla strada sbagliata, è già un grosso passo avanti; ovviamente però ci vorranno anche casi positivi e importanti. Certo il caso migliore è quello di incontrare un autentico Maestro, che abbia lui stesso sviluppato quell'arte, e allora se una buona condizione conoscitiva ne incontra un'altra, il gioco è fatto! Ma una buona conoscenza può anche far "sintesi" di tante esperienze positive e negative, distillando, valutando non a caso ma sulla scorta di un confronto continuo.
La verità è soggettiva. Tutti, ciascuno di noi, nessuno escluso, si esprime ed esprime continuamente verità. "sei bella, sei brutto, sei scemo, sei piccolo, non sai niente, non hai capito niente, quanto sei intelligente, è grande, è bravo, è luminoso, è ingolato, è stupendo, sono sicuro...". Ciascuno esprime la sua verità sulla base della sua conoscenza, non intesa come "cose che sa" ma inteso come "il suo livello è quello". Dunque ciascuno esprime la verità conseguente il proprio livello, e naturalmente difenderà strenuamente QUEL livello, per cui se una condizione 10 esprime una verità 10 e una verità 20 esprime la sua, il primo attaccherà e darà del pazzo visionario al secondo, perché non è in grado di capire il suo livello; il secondo capirà invece la condizione del primo, proverà magari a "portarlo" a un livello più elevato ma potrà arrendersi quando ne saggerà il limite. Questo limite lo possiamo anche chiamare istinto, ma l'istinto non è che agisce a livello 10 o 20, ma agisce a partire da un livello più basso e soggettivo legato alle condizioni psico-fisiche. L'istinto, dunque, agisce a livello fisico, rendendo difficile una certa attività (disegnare, scolpire, cantare, suonare, scrivere...) ma anche psicologico, "annebbiando", diciamo così, le prospettive di apertura, di sviluppo, di progresso. E' questa nebbia, naturalmente, che impedisce a tutti di poter dire con sicurezza: la perfezione c'è o non c'è! Si tratta ora di capire in cosa consista realmente l'arte e come si possano superare gli ostacoli, posto che si pensi che ciò sia possibile!

Dalla premessa dobbiamo escludere che la perfezione sia "semplicemente" un esercitarsi all'infinito. Essa non è LA tecnica. Dunque la cosiddetta tecnica, che noi preferiamo definire disciplina, è un mezzo e non il fine. Però anche detta così non è che ci dia una soluzione. Sappiamo che comunque l'esercitarsi, e anche tanto, è sempre indispensabile. Ciò che cambia è il senso dell'azione esercitante. Se io mi esercito perché esercitandomi miglioro, mi avvicinerò all'asse, ma non lo raggiungerò mai, invece l'esercizio svolto "perché", si pone in una prospettiva del tutto diversa. Cerco di spiegarmi meglio: L'insegnante mi esorta a fare una scala di do. Io faccio una scala di do, viene male e me la fa rifare, e quindi la rifaccio, ecc. finché l'insegnante la ritiene accettabile (è lo stesso discorso dei cerchi visto all'inizio); oppure: l'insegnante mi esorta a fare alcuni suoni e l'allievo chiede "perché?", oppure l'insegnante spiega, ancor prima, il perché (meglio la prima, però!). Allora: l'insegnante sa perché si fanno quei suoni? perché li fa fare? perché in un determinato modo? Facciamo esempi legati al canto: fai la scala di do, apri la bocca, oppure non aprire la bocca, apri la gola, oppure: gonfia il torace, oppure gonfia l'addome, oppure premi sulla laringe, oppure pensalo in testa, oppure: pensalo nella nuca, oppure, premi sulle reni, oppure, irrigidisci i muscoli pelvici, oppure: stringi le natiche, oppure: imita un asino, imita un bue, pensalo tra gli occhi, pensalo davanti al naso, e così via. Tutti questi consigli... perché? In alcuni casi: perché così lo metti in maschera, perché così lo appoggi, perché così è più ampio, perché così è più bello, perché così è più forte, così è più ricco, così è più lirico, così si sente più lontano, ecc. Secondo livello: perché? Perché tutti fanno così; perché lo dicono tutti i grandi maestri antichi, perché a me l'hanno insegnato così e funzione, perché conta il risultato e in questo modo il risultato c'è, perché se senti come canta Tizio o Caia o Sempronio, senti che fa così, perché si sente, ecc. ecc. Cioè, in parole povere, già al secondo livello siamo al piano della fuffa! Non parliamo poi se entrano di mezzo i foniatri e i loro sostenitori!: perché se la laringe è così, il suono è cosà, se il velopendulo fa cosù il cricoide fa cosè, e su questo glisso perché non c'è da perder tempo. In effetti, con tutti i difetti, i "perché" delle scuole empiriche, appunto perché in qualche modo, molto confuso e pasticciato, si sono diffusi anche da cantanti di enorme bravura, hanno più efficacia che non le vuote e insulse spiegazioni pseudo scientifiche.

Come abbiamo più volte segnalato, quindi, nessuna scuola a noi nota riesce a dare un perché alla disciplina, agli esercizi, alle difficoltà anche evidentissime che si frappongono a un canto di alto rango. Dunque se io insegnante chiedo all'allievo di ripetere una breve frase, lui o lei la farà e io dirò che ci sono degli errori e li segnalerò. Ad es.: la frase è male articolata, alcune vocali si sentono troppo e altre troppo poco, alcune consonanti sono poco sonore, alcune vocali sono pronunciate male (una O sembra una A, una I sembra una E) e così via. A questo punto l'allievo ripeterà la frase cercando di migliorare gli errori che ho evidenziato. Se l'atteggiamento è questo, io non sto che ripetendo il modello "tecnico", cioè informo l'allievo delle imprecisioni e le correggo, e così ci avviciniamo all'asse della perfezione, ma non ci arriveremo mai. Il punto di svolta sta nel "perché!". Per quale motivo ci sono quegli errori? La scuola d'arte, la disciplina, non sta tanto e solo nel ripetere gli esercizi cercando di migliorare e correggere ciò che non va, ma nel prendere coscienza di ciò che ci impedisce di ottenere il perfetto. La semplicità non è dire cose semplici, ma è ottenerle!! L'insegnante artista spiega all'apprendista disegnatore perché non riesce a fare una "O" senza "il bicchiere", e che non è facendo milioni di cerchi che ci riuscirà, ma avendo coscienza del motivo per cui non ci riesce e sviluppando una disciplina che non "forzi" la mano a ottenerlo, perché raggiunta la tolleranza del suo istinto, il miglioramento cesserà, ma mettendo in atto delle strategie che superino il "motivo" dell'impedimento.
Esistono i registri nel canto. Alcuni lo negano facendo discorsi piuttosto fumosi e contraddittori, ma è un fatto che qualunque voce incontri nell'ascendere e/o nel discendere di tonalità, nell'aumentare e nel diminuire di intensità, delle variazioni di colore, di timbro, di "spessore", di intensità e di carattere molto accentuato. Grosso modo tutti sanno questo, tutti in qualche modo cercano di porvi un rimedio ricercando una voce omogenea, alcuni studiano le motivazioni fisio-anatomiche, alcuni esperiscono metodi fai da te empirici più o meno rozzi, alcuni se ne fregano e cantano come la va la va (e a volte la va pure bene!), ma quanti si sono chiesti PERCHE' esistono i registri nella voce (manco fosse un organo o un qualunque strumento meccanico) e dato il perché COME si debba fare per annullarli?

Da quando frequento internet e i luoghi in cui si parla di canto, ho sempre avuto l'onestà e il buon costume di dire a quei ragazzi che mi ponevano domande, che non volevo mettermi tra loro e il loro insegnante, salvo alcuni rari casi in cui con molta evidenza c'erano problemi che rischiavano il patologico. I miei allievi possono testimoniare che io ho sempre detto loro che non avrei nulla in contrario se un giorno decidessero di andarsi a fare sentire da uno o più insegnanti e che non c'è alcun problema se poi vogliono tornare, e che non toglierei loro il saluto (o l'amicizia!) se continuassero a frequentare un'altra scuola (preferirei comunque non lo facessero di nascosto). Questo perché so che questa scuola non è per tutti e so che per ognuno può esserci una scuola più o meno adatta; io non sono geloso e sono più felice se so che un allievo è contento di frequentare una scuola che gli dà soddisfazioni, che stare qui a penare per tanto tempo!
La verità è un cerchio chiuso, e il cerchio chiuso è il silenzio. Io so di aver chiuso il cerchio, il percorso della verità canora in me non ha punti di partenza e di fine, è un eterno fluire, ogni fine è un inizio, qualunque domanda mi si ponga, nella mia mente entrano in relazione immediata tutti gli elementi che fanno della voce un'arte, senza dubbi. E' presunzione? Mania di grandezza? può darsi, ma la questione è che questi benedetti criteri nessun altro li ha mai manifestati! I perché di Antonietti saranno pure di Antonietti, ma chi altro li ha saputi esporre con tanta lucidità, chiarezza, relazione, dimostrando in persona e nei fatti di esserne padrone?

mercoledì, settembre 05, 2012

L'autoeducazione

Non mi riferisco all'apprendimento autonomo, cioè a imparare a cantare da sé, che come ho già detto più volte è impossibile, ma ad un autoapprendimento "interno".
Se nella nostra scuola, come in ogni buona scuola di canto, escludiamo frasi come: schiaccia, alza, premi, apri, ecc., se non limitatamente ad aspetti intrinseci del suono, e cioè non connessi ad azioni muscolari (vale a dire i soliti: alza il palato molle, apri la gola, abbassa la laringe, fai passare il suono in maschera, giralo, ecc.) e quindi si arriva a un "non fare niente", chi si trova ad affrontare questa scuola, specie se già in parte o sostanzialmente condizionato da altre scuole o da letture, si chiederà: sì, va bene, ma per arrivare a fare suoni in grado di essere considerati esemplari e in grado di essere nettamente percepiti anche in gradi spazi senza ausilio di microfoni, come si fa? Non è possibile "non fare nulla", perché altrimenti si rimane al punto di partenza, dando per scontato che il punto di partenza è una emissione povera, scarsa di qualità, di risonanze, di armonici, di legato, di intensità, ecc. ecc. Ecco, la risposta più semplice ed efficace potrebbe sintetizzarsi in quell'"autoeducazione" che il nostro corpo, in molte sue componenti, già possiede, purché ne avverta la necessità, l'esigenza.
Se io faccio vita sedentaria, e un giorno vado a vivere in una casa che mi obbliga a fare scale ogni giorno, da principio sbufferò e mi verrà il fiatone ogni volta che faccio una rampa; dopo poco tempo le farò saltellando e con quasi nessuna variazione nell'azione respiratoria. Idem se mi decidessi, improvvisamente, di mettermi a fare jogging o palestra ogni mattina. All'inizio dolori e sbuffate da locomotiva, e poi crescita della tonicità muscolare e dell'azione respiratoria. Il corpo si adegua alle esigenze, alle richieste del nostro corpo e della nostra mente. Quindi ha in sé un programma di autoeducazione e sviluppo che coinvolge una serie di tessuti, muscoli, tendini, ecc. La voce, come ho già scritto più volte, è "tarata" in base alle nostre condizioni fisiche e alle nostre esigenze ambientali di relazione e psicologiche. Se viviamo in un ambiente rumoroso potremmo tendere a diventare "urlanti", a parlare sempre forte, chiassosamente, ad alte frequenze, ma potrebbe avvenire il contrario in presenza di persone con spiccata timidezza (ricordo bene, alcuni anni fa, di aver assistito a un esame di terza media, e mi resi conto, dopo un certo numero di candidati, che avevano una tendenza quasi patologica a parlare molto piano, e realizzai, alla fine, che il motivo sostanziale doveva essere causato dall'insegnante di lettere - 11 ore alla settimana - che aveva una voce fortissima e un temperamento alquanto aggressivo, pur non trattandosi di una insegnante particolarmente severa o "cattiva"). Una persona con molto fiato vitale, grandi polmoni, grande torace, bocca grande, avrà quasi certamente facilità a produrre suoni molto sonori anche senza una volontà di "spinta"; poi ci sono, e sono tante, le persone che assorbono facilmente le caratteristiche di altre persone, e che quindi tendono ad emulare, anche senza volontà. Ci sono figli che assumono quasi perfettamente la stessa voce di padri o madri o qualche parente o persona cui ha vissuto vicino per parecchio tempo (qui entriamo anche nella famosa questione dei neuroni specchio). La sostanza di tutto ciò è che il nostro corpo impara e assimila anche senza necessariamente una volontà forte di imparare, ma purché ne senta l'esigenza. Dunque ciò che si può sfruttare ai fini dell'educazione vocale è la capacità autoeducativa nel parlato; se noi cerchiamo di migliorare il parlato, pronunciando meglio ogni vocale e ogni consonante, legando ogni parola e imponendosi di dare senso compiuto a ciascuna di esse e nell'ambito di ciascuna frase, si innescherà un circuito virtuoso di sviluppo del fiato accompagnato da un processo di elasticizzazione delle forme e delle componenti mobili degli apparati preposti. Ciò che si nota tangibilmente a ogni lezione è uno sviluppo non indifferente della risonanza vocale (senza spinta o pressione, ma anzi riducendola sensibilmente), quindi anche dell'intensità, della ricchezza timbrica e sonora, della bellezza, della chiarezza, ma anche uno sviluppo qualitativo e quantitativo del fiato che in un tempo non quantificabile - essendo molto legato al soggetto - diventerà padronanza artistica del fiato, o respirazione artistica, quel "ben respirare per ben cantare" sostenuto da tutti i grandi trattatisti ma incomprensibile da chi non l'ha acquisito completamente, cosa, questa, di rarità straordinaria, incomprensibile e inconcepibile fin quando non lo si è assimilato nel fisico, oltre che nella mente e nello spirito. Però, al di là delle parole poco incoraggianti che ho scritto, la méta è raggiungibile, occorre una grande fiducia, una pazienza disumana e una umiltà, una volontà di abbattimento dell'ego, del narcisismo che sono davvero dure da estirpare o anche solo da riconoscere prima di rinunciarvi. Chi giudica già si trova su una brutta china, chi valuta superficialmente, buttando là frasi per sentito dire, scopiazzate, riportate, cioè non ha autentica e pura coscienza, è già di fronte a un robusto muro. Il muro della presunzione, dell'orgoglio fine a sé stesso, dell'egoismo, della fanfaronaggine, di quello che vive sul pulpito del predicatore, dello scribacchino... e aggiungete voi chi vi pare.