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martedì, ottobre 31, 2017

"Cara semplicità, quanto mi piaci".

Esiste una pronuncia "vera", che è quella che utilizziamo quotidianamente nella nostra comunicazione spontanea. Avrà vari difetti, se considerata "dall'alto" di un giudizio di qualità artistica. Quando si parla, a meno che non ci siano difetti molto rilevanti, difficilmente qualcuno ci verrà a dire che parliamo "male", a meno che non sia qualcuno che si intende a un qualche livello di vocalità, vuoi un attore, un presentatore, un cantante. Viceversa se una persona parlasse diversamente, ad esempio mettesse tutti gli accenti giusti al posto giusto, togliesse le varie storture cadenzali locali, riceverebbe subito dalle apostrofi sul modo "strano" di parlare (ricordo in una celebre commedia con Gilberto Govi che il protagonista viene ripreso dalla moglie perché dice una parola in perfetto italiano invece che in genovese; ancor più ricordo molti anni fa di aver tenuto un piccolo corso di teatro a un gruppo di maestre delle scuole primarie e alla prima lezione sulla dizione, le maestre mi guardarono esterrefatte dicendo: "ma poi mica dovremo parlare così! cosa direbbero i genitori??").  Cioè quando si esce dal modo standardizzato di parlare, a chi ci ascolta normalmente quella diversità già suona falsa. Il che potremmo dire che è vero, in quanto occorrerà del tempo affinché i vari perfezionamenti che apportiamo al nostro parlare diventino realmente "nostri", cioè parte di noi, e non solo un "modo" di parlare che però non suona più naturale e spontaneo. La questione diventa ancor più rilevante quando la parola assume un valore melodico, cioè canto. L' "allungamento" delle vocali non ci appartiene più allo stesso livello verbale, cioè non lo sappiamo realmente gestire, quindi il significato rischierà di perdersi, ovvero, come si diceva, non sarà più vero. E qui entriamo appunto nell'ottica della "seconda pronuncia", che è quasi più nota della prima. Mi spiego: si ritiene generalmente che ogni vocale abbia una sua "posizione" in una certa parte delle cavità oro-faringea. Questo dato è contenuto non solo in trattati di canto, ma persino in libri di ortofonia e foniatria. Questo dato non è corretto, ovvero è un dato "transitorio", che percepiamo quando il nostro canto è "in divenire", cioè si passa da quella fase iniziale, in cui non sappiamo cosa stiamo facendo, perché del tutto privi di qualsivoglia coscienza vocale, a quella finale dove ritroviamo la vera pronuncia, quella del parlato spontaneo e naturale, ma arricchita (perfezionata) da tutte le componenti che avranno fatto sì che quello diventi non solo parlato esemplare, ma anche canto puro e perfetto. Per cui sentire la "U" in fondo alla gola, tanto per fare un esempio, è da considerare una situazione di carenza respiratoria (rispetto il canto perfetto). Quindi, per consolidare bene questo aspetto, il fatto che la pronuncia quando si passa da quella naturale a quella melodica finisca tra bocca e gola, è da considerare una CARENZA respiratoria (non assoluta, ma legata alla relazione tra i tre apparati), che dovrà essere recuperata grazie a una disciplina molto impegnativa. Fin qui non ci sarebbe altro da dire, se non fosse che per molti insegnanti queste posizioni interne sono addirittura situazioni da cogliere in senso didattico; se non fosse che produce un'immediato riflesso: come si fanno a "uniformare" le molte vocali se ognuna occupa una posizione diversa? E siccome la risposta giusta non c'è, la conclusione è che si modificano tutte nell'illusione (demenziale) che si possano racchiudere tutte in un unico luogo, che più o meno corrisponderà alla U. E da qui poi ne discenderebbe che allora il canto lirico è un canto scuro, perché tutte le vocali si spostano verso la U, ovvero le vocali pure tenderanno a sparire (poi magari pure la U, ritenuta troppo "stretta", diventa O). La soluzione invece è talmente semplice ed evidente che viene dai più rifiutata ("cara semplicità, quanto mi piaci!"). La pronuncia vera, quella del nostro parlato quotidiano, è fuori dalla bocca (è facile constatarlo), tutto il nostro parlato assume significato, tutto è omogeneo e distinto. Saper cantare significa educare il nostro fiato a sostenere un parlato arricchito di tutti gli elementi più preziosi, compresa la linea melodica, su tutta l'estensione che ci appartiene e con tutta l'intensità che ci è propria, nello stesso spazio e posizione (quello esterno, per l'appunto) del parlato comune. Se ci si allontana da questo precetto, siamo già destinati a un canto difettoso, per quanto si sia in possesso di doti vocali rilevanti. Avere una bella voce è un grande premio della Natura, ma il CANTO non è solo quello, anzi, non sarebbe affatto quello; canto dovrebbe essere PAROLA elevata, non suono potente. La pronuncia interiore è sempre falsa, può assomigliare alle vocali, ma un po' di allenamento uditivo basterà a percepire che una A esterna o interna non hanno niente in comune, così come un occhio un po' allenato riconosce una pietra o un metallo vero da uno imitato. In teoria riconoscere una voce vera da una imitante o falsa dovrebbe essere molto più semplice, perché è qualcosa su cui facciamo allenamento tutti i giorni, ma anche l'orecchio quando si esce dall'ambito comune per entrare in quello artistico, quindi una voce che canta, già se non ha una certa educazione tende a confondersi e non sa più valutare, quindi deve essere allenato pure lui.

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