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lunedì, ottobre 21, 2019

Il virilismo

La questione del "virilismo" ha invaso, non poco e non di recente, il mondo dell'opera e del canto. Questa tematica è andata di pari passo con l'emancipazione femminile, ma anche con le contraddizioni del nostro tempo. Il tutto possiamo dire che abbia inizio nel primo 900. Il futurismo e le filosofie del periodo, compreso l'interventismo verso la Prima Guerra Mondiale, sono molto tese verso una visione virile dell'uomo e della società. Soldati con armi in pugno, treni e macchine in continua evoluzione che vengono esaltate dalla poesie e dalle arti futuriste, sono il segno più evidente di questa tendenza. Musicalmente (e letterariamente) abbiamo il Naturalismo e il Verismo, dove si raccontano fatti della realtà più cruda. Personaggi come Canio e Turiddu sono la rappresentazione più evidente del "machismo". Nasce quindi la necessità di una vocalità adeguata. Caruso, con la sua voce brunita, viene a rappresentare il primo caso di un tenore verista, cioè una voce di colore baritonale senza rinunciare al settore acuto, a cui non si rinuncia perché rappresenta sempre il simbolo della vittoria, della superiorità (a questo, per la verità, si accompagna anche una perdita del fraseggio musicale per esaltare l'accentazione declamatoria). Ma il lento ma inesorabile progresso dell'emancipazione femminile non è da sottovalutare, per cui ai soprani di coloratura si sostituisce sempre di più il soprano drammatico e il mezzosoprano, tant'è vero che in quasi tutte le opere del periodo la protagonista è quasi sempre un soprano centrale, non di rado propriamente mezzosoprano, perché voci più vicine alla realtà e al tipo di voce che rappresenta il potere, il dominio. La produzione musicale operistica, però, va lentamente spegnendosi. Prende piede una maggiore tematica sociale, e le voci tradizionali vengono un po' messe da parte; il baritono è maggiormente protagonista (Wozzeck, Ulisse...), poi bassi e mezzosoprani, che hanno ruoli più narrativi. Si consolida e intensifica il repertorio classico, per cui le questioni si spostano interamente sul canto, quindi anche le opere meno recenti vengono rivisitate sul piano vocale. Opere come Norma e Guglielmo Tell, sono ripensate soprattutto per un tenore "virile". Mario del Monaco, più ancora di Caruso, anche per convinzione personale, viene a impersonare il mito del tenore "maschio", mentre i tenori leggeri vengono emarginati al poco repertorio residuo dove questi sono indispensabili, come le opere buffe o i ruoli caratteristici, dove la voce querula (come l'imperatore Altoum nella Turandot, il rivendugliolo della Forza del destino), li ridicolizza, come il loro stesso repertorio. Oggi può sembrare assurdo che un tenore come Pavarotti non sia stato subito salutato come un astro luminoso. La sua voce argentina e squillante che adesso ci pare normalissima in opere come il Ballo in maschera o Turandot, tra gli anni 60 e 70 destava molte perplessità, accompagnate dai commenti dello stesso Del Monaco o di critici e appassionati, ormai consolidati nella tradizione delle voci virili, per non parlare di opere come Cavalleria, Pagliacci o Otello, dove quest'ultima ancora oggigiorno con difficoltà viene accolta da voci che non siano paragonabili a quella delmonachiana. Eppure la realtà non è quella; Tamagno aveva voce chiara e squillante, niente a che vedere con i "baritoni lunghi" cui è stata affidato quasi sempre il ruolo, persino da Toscanini. Per non allontanarsi dal "feticcio" della voce maschia, si insinua e prende sempre più piede la vocalità "affondata" e ingolata. Sono le voci più fisiche che si possano produrre, cioè le più lontane dalla voce sul fiato di belcantistica cultura, che è stata la culla anche delle voci più potenti e squillanti della Storia, ma oggi questo non lo si comprende. La fatica e lo sforzo che occorrono per produrre un suono scuro e sonoro, al limite del sacrificio, appagano un vasto pubblico, che li saluta quasi come eroi, come pompieri, che non per nulla rappresentano proprio il mito dei nostri giorni (giustamente), ma non solo e non tanto per il meraviglioso lavoro umano che compiono, ma per come lo compiono, cioè sfidando la morte. I nostri cantanti (parlo molto del tenore, perché sicuramente è quello che meglio rappresenta il tema, ma lo stesso percorso ha anche animato baritoni bassi e le altre classi vocali) sono glorificati se non fanno troppe mezzevoci (segno di mollezza), se mantengono il più possibile verso l'acuto quel colore oscuro e pieno di timbro "inchiostroso" (gola).
Ma ecco che, nella logica delle contraddizioni che ci animano, a un certo punto avviene il recupero del repertorio belcantistico e delle voci che lo rappresentano, quindi soprani, tenori e bassi con acuti facili e agilità virtuosistiche. Lo consente una modificazione anatomica, antropologica oso dire, dovuta ai radicali cambi di stile di vita. L'uomo è sempre meno sottoposto a lavori duri, pesanti; ci sono sempre più macchine per quelli, si lavora meno in generale, e questo porta a un assottigliamento e allungamento delle pareti muscolari. Tutto, nel corpo umano, tende a diventare più lungo, leggero e sottile, e questo porta più facilmente a suoni chiari e acuti. Si presentano quindi più frequentemente contraltini che bassi, tenori leggeri e soprani di coloratura. Ma si va anche oltre. Si recupera un repertorio ancora più antico, dove furoreggiavano i castrati, ed ecco sorgere pletore di controtenori, all'insegna del mito opposto al tenore dalla voce maschia. E oggi ci troviamo proprio a vivere questo doppio aspetto dell'opera: Haendel e Mascagni, Rossini e Puccini. Purtroppo non all'insegna di una diversità musicale, da far rivivere nella loro ricchezza, ma in una competizione, che è il vero disastroso segno dei nostri tempi.

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