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domenica, novembre 04, 2012

Perché proprio la parola?

Qualcuno potrebbe chiedere ragionevolmente perché la dizione, la pronuncia perfetta, sia la chiave per raggiungere anche l'esemplarità canora. Spesso mi capita di fare riferimento agli uccelli per indicare un animale di piccolissime dimensioni che riesce a far correre la propria voce per chilometri, in virtù non certo di spinte e sforzi, ma semplicemente di un sistema respiratorio e fonico in perfetto equilibrio. Qui si potrebbe dire: ma gli uccelli non parlano! emettono un suono e basta. E questo potrebbe già scatenare l'approvazione dei tanti che ritengono che siamo su una strada sbagliata. Ma i più accorti una prima risposta potrebbero averla già intuita. Gli uccelli non hanno bisogno di imparare, il canto fa parte del loro bagaglio vitale, fa parte dei processi di comunicazione e di accoppiamento indispensabili alla loro vita. E' possibile che fosse anche così per l'uomo nell'antichità, ma oggi siamo lontani da ciò, e il canto è una conquista lunga e laboriosa, se vuol essere di natura artistica, con tutta la complessità che è stata inserita dai compositori nell'arco dei Secoli. Quindi sul fatto che vada appresa, non c'è, credo, alcun dubbio, ma può restare la perplessità di passare attraverso la parola e non solo attraverso suoni vocalici, perlomeno prioritariamente. In fondo la risposta è semplice, specie per chi è entrato almeno un po' nella sfera di questa scuola. Per l'uomo è fondamentale parlare, come abbiamo già scritto in passato, la parola è nel nostro DNA e non subisce, di regola, resistenze e reazioni da parte dell'istinto, salvo quando se ne abusa. La risposta più vivace che mi viene da proporre alla domanda del titolo è: "qual è l'alternativa?". Cioè se devo educare la voce al suo più alto livello possibile e non uso la parola, quale alternativa ho? Mi si dirà: il vocalizzo, come fanno pressoché tutte le scuole, aggiungendo poi, per spirito di magnanimità, che però la buona pronuncia è importante nel canto, e bla bla bla. Allora il vocalizzo, quindi la o le vocali. Ma qui entra in gioco un elemento fondamentale dell'Arte e dell'apprendimento in genere: la contestualizzazione. Imparare una serie di numeri a caso o una serie ordinata di numeri è diverso! Nel primo caso abbiamo solo la memoria a disposizione, nel secondo caso un elaboratore! Qui abbiamo una cosa ancora più importante, e cioè la coscienza. Se io faccio una "O" su alcune note, in realtà non so cosa sto facendo! Faccio ciò che mi dice l'insegnante, senza però avere alcuna cognizione del perché e del cosa serve, fidandomi semplicemente di ciò che dice. Per la verità quella "O", comunque fatta, sarà sempre difettosa, perché è priva di contesto. Quando faccio eseguire una "è" o una "é", aggiungo sempre: verbo o congiunzione, e faccio o faccio fare un esempio. Se dico "io e te", faccio soffermare l'allievo su quella E, e cerco di fargliela riprodurre intonata. Fate pure conto che si impiegheranno settimane e mesi per arrivare a una emissione perlomeno accettabile, perché, come dicevo nel post precedente, appena si intona si alza la cortina fumogena e si perde la concezione di com'è realmente e ci si inventano i suoni più inverosimili, nell'affannosa ricerca di qualcosa che è in noi, semplice, elementare, ma non riusciamo ad afferrarla. Naturalmente non entra in gioco solo l'istinto, ma anche l'io e superio, cioè il nostro sistema di giudizio e di promozione, che ritengono troppo semplici e privi di requisiti questi suoni, e ci impediscono di farli, preferendo invece metter in moto la macchina della spinta, della forzatura, del gonfiamento e, in sincronia con l'istinto, l'ingolamento. Quest'ultimo poi diventa addirittura il metro di giudizio! Si è talmente calcato sul suono legnoso, rumoroso, aspro, chiuso, frenato, spinto, artificioso, falso, manipolato, distorto, stonato, dell'ingolamento, che oggi una percentuale elevatissima di ascoltatori, compresi personaggi di lunga militanza teatrale e critica, per non parlare di insegnanti e cantanti, prende per buono QUEL suono, e censura senza attenzione e autentica partecipazione attentiva e uditiva i suoni privi di quel fastidioso alone, pur, e qui sta veramente il paradosso, esaltando le prestazioni dei grandi di un tempo tipo Schipa, Lauri Volpi, Pinza, ecc., che quel difetto non avevano. Dunque, tornando a noi, il vocalizzo è un tipo di esercizio senza'altro da proporre e praticare, anche sin dall'inizio dello studio, ma considerando che sarà comunque pesantemente difettoso, essendo il risultato di un percorso di studio che consiste nel riuscire a pronunciare intonando le vocali che usiamo nel parlato. L'uomo non usa sistematicamente dei suoni astratti per comunicare, ma usa un complesso e articolato sistema basato su alcune vocali "chiave" e alcuni altri suoni intermedi. Il suono fine a sé stesso viene utilizzato nel grido, nell'urlo, che il nostro sistema di difesa tollera entro limiti piuttosto ristretti per evidenti ed ovvi motivi di difesa personale. Quando si grida, perché si litiga, per rabbia, per sottomettere qualcuno, per chiedere aiuto, per gioco, per imporre una volontà, ecc., mettiamo a dura prova il nostro strumento, che il più delle volte ne risentirà con bruciori, abbassamenti di voce, afonie, ecc. Il parlato, se ben appreso e allenato, può consentire invece un lungo utilizzo senza problemi. Da questo deduciamo che la nostra mente conosce assai bene la parola e tutto il sistema che ne permette un uso perfetto. Viceversa perde la chiarezza di questo percorso quando subentra la melodia, e questo perché l'introduzione musicale genera un peso, un impegno che il corpo non è disposto a tollerare, e devia pertanto verso strade più comode e di apparenza. Ecco che basta stringere un po' la gola per imitare il cantante lirico. Ecco che quindi tutti gli insegnanti dicono: apri la gola, respira a fondo, come se questo fosse sufficiente e risolvesse veramente qualcosa. Solo una pronuncia cristallina su tutta l'estensione ha la facoltà di farci mantenere realmente e correttamente aperta la gola, senza alcun pensiero e volontà. Ma il fatto è che tutti, più o meno, credono realmente di pronunciare accettabilmente o di sentire una ottima pronuncia da parte di molti cantanti (escluse alcune clamorose eccezioni), il che NON E' VERO! sordità collettiva, anche questa esistente e generata da un istinto che non ha alcun bisogno o esigenza di un udito così raffinato da distinguere una O vera dal milione di O false (e lo stesso dicasi per tutte le altre vocali). Solo quando si inizia a entrare in questo cammino di purificazione si comincerà a sentire che anche tutti quei cantanti che fino a ieri ritenevamo dei mostri sacri, forse avevano tanti difetti, e questo è necessario se vogliamo compiere quel salto qualitativo che urge alla nostra anima. Non significa voler diventare più bravi o più celebri di Tizio e di Caio, significa conquistare la libertà del nostro spirito. Siamo tutti schiavi delle abitudini, dell'opinione pubblica, di chi grida più forte, di chi impone i propri criteri perché ha "fatto carriera", non si sa come e perché, e ha la possibilità di fare bello e brutto tempo su giornali e radio. Non significa: gliela farò vedere o sentire! La libertà, come la perfezione, come la Verità, sono conquiste che si gustano in un attimo fuggente, nella propria intimità o con quei pochi che hanno avuto la "sventura" di entrare in questa spirale. Quando ciò accade, ci si incontra "dentro" la musica, dentro un canto o un'altra produzione realmente artistica, liberi dai pensieri, dai giudizi, dai propri vincoli fisici e psicologici, dalle proprie paure. Quel momento ci potrà anche sembrare un momento di silenzio, quel "vuoto" che fa paura quando lo incontriamo cantando, quell'immensità che è la nostra vera interiorità, bella o brutta che sia o che ci piaccia o meno, ma che dovremmo conoscere e accettare. ... o no?

2 commenti:

  1. A proposito di contestualizzazione... Nei trattati antichi, per cavar fuori la voce si consiglia spesso ai principianti di iniziare lo studio emettendo la vocale A... ma non è mai una A qualsiasi... l'indicazione frequente è infatti quella di emettere, per esempio, la A della parola "alma": quindi anche gli antichi tenevano ben presente il rapporto tra emissione e parola. E pensare che oggi c'è chi va millantando di insegnare secondo i principi della antica tradizione italiana, e utilizza però solo suoni intervocalici, vietando l'uso della A pura... oscenità del tipo fai la A pensando alla O e via discorrendo. Ma che si ascoltino un disco di Mattia Battistini... quei magnifici recitativi detti, parlati con una naturalezza, una chiarezza da attore di prosa. Ma pensiamo al pubblico di duecento anni fa, quando non c'erano i dischi per reiterare l'ascolto, si andava a teatro con le orecchie "vergini", le stampe erano un lusso per pochi e molti erano analfabeti, e si doveva riuscire a seguire ciò che avveniva sulla scena... senza i sopratitoli proiettati, come avviene oggi! I cantanti antichi dovevano avere tutti una pronuncia scolpitissima, era una esigenza primaria del fare teatro musicale, purtroppo oggi venuta meno per colpa dei dischi e degli stereotipi che riempiono la testa degli appassionati, presunti intenditori.

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  2. Pensa Celletti, che è stato il precursore, credo, dell'insegnamento secondo gli antichi dettami, e scrive candidamente che il giusto sarebbe dire A pensando U e non so cos'altro! quest'uomo è stato come e peggio dei dischi: grazie alla grancassa di radio e giornali ha propalato nefandezze spacciandole per verità foniche, dall'alto della conoscenza di Lauri Volpi e altri insigni cantanti, che non condividevano niente di quanto diceva (compresi i foniatri), ma lui se ne fregava! Ed ecco dove siamo arrivati. La cosa incredibile che, al contrario di tanti che millantano ma poi manco conoscono i dischi dei grandi cantanti discendenti da quelle scuole, Celletti li conosceva pure bene e li commentava spesso correttamente. Ma che aveva una doppia personalità? Mah...

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