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lunedì, aprile 15, 2013

Dell'acustica

Un giorno, parecchio tempo fa, in seguito a una discussione sull'uso del microfono, ovvero dell'amplificazione elettronica, che reputo intollerabile e inimmaginabile in ambito operistico o classico, qualcuno mi fece osservare che, in fondo, anche l'acustica è un'amplificazione. Vero, ma con qualche differenza. L'amplificazione artificiale di un impianto tecnico è regolabile, dunque può essere variata in relazione a diversi parametri, non solo legati alla potenza, ma anche al colore e volendo persino all'eco e al timbro (per ora spero non si arrivi a ritoccare persino l'intonazione), quella ambientale no. Certo esistono alcune acustiche straordinarie che permettono agli ascoltatori di sentire qualunque cosa avvenga sul palcoscenico (ricordo bene l'ottocentesco teatro della mia citttà, alcuni decenni fa, dove c'era un'acustica mirabile e si poteva fare anche musica da camera, cosa che oggi è impensabile, dopo i restauri, seguiti, naturalmente, da fisici acustici, che ne sanno tanto come i foniatri di canto! - e lo dice uno che l'ha anche studiata all'università - del resto uno di essi fu lo stesso che curò l'acustica del Regio di Torino, che come è noto era talmente discutibile da richiedere numerosi interventi di aggiustamento), però sono casi piuttosto rari, mentre la maggior parte delle sale possiede, tutt'al più, un'acustica più o meno discreta, legata oggi molto intimamente alle ristrutturazioni dove le leggi sulla sicurezza impongono determinate regole che poco si sposano con le necessità di diffusione ed espansione del suono. Ciò nonostante l'acustica naturale di un ambiente è oggettiva e "democratica". Tutti coloro che si trovano sul palcoscenico otterranno il medesimo trattamento (le zone del palcoscenico possono variare ma in genere i cantanti lo sanno e nei momenti cruciali cercano di occupare le postazioni più felici). In questo senso, ancora una volta, dobbiamo puntare il dito contro le regie e le scenografie, che portano a favorire le amplificazioni elettroniche per almeno due motivi: la posizione sul palcoscenico diventa irrilevante (il cantante può anche cantare di spalle, in fondo al palco o sul proscenio, ecc.), si può usare qualunque materiale scenografico (in passato ci furono aspre polemiche per l'uso di materiali fonoassorbenti o l'uso della "calza" (una sorta di tela finissima che rende tutti i colori, le luci ovattate, ma frena il suono che esce del palco). Ricordo bene, fino a qualche anno fa, le dirette radio delle opere (alcune le ho ancora in registrazione) dove, oltre i rumori di palcoscenico, si sentivano le voci dei cantanti che si avvicinavano e si allontanavano, segno inequivocabile dei movimenti e del fatto che c'erano zone di "luce" e "d'ombra". Oggi questo mi pare non avvenga più, segno forse di una diversa presa del suono, ma, mi sa, anche di qualche "trucco" sul palco.
Tempo fa lessi l'affermazione di un insegnante di canto che diceva che il canto andrebbe studiato in teatro. La cosa non è corretta; se io portassi un allievo alle prime armi su un palcoscenico, specie se di un teatro importante, si sentirebbe disperso come in un deserto, e potrebbero avvenire due cose: urlerebbe per farsi sentire o, più probabilmente, si sentirebbe annichilito dalla propria esiguità fisica e vocale, e canterebbe ancora più piano (ricordo bene le mie prime esperienze teatrali, nonostante non fossi già più alle prime armi). Quindi l'idea di fare pratica in teatro è giusta ma con gradualità; per essere sincero direi che lo sviluppo della pratica canora andrebbe guidato su diverse situazioni: sala media con/senza pubblico; chiesa piccola/media/grande con/senza pubblico, sala teatrale piccola/media/grande. Non è così facile poter avere accesso a tutte queste realtà con la possibilità di cantare (i concorsi spesso sono il pretesto per poter cantare in queste situazioni, salvo, in mancanza di esperienze, fallire proprio per incapacità a gestire situazioni acustiche inusuali), ma sarebbe certamente la situazione ideale (i conservatori forse da questo punto di vista hanno le prospettive migliori). Al di là di tutte queste osservazioni, ciò che dobbiamo comprendere dal punto di vista della vocalità, è che l'ampiezza della sala non deve influenzare la "spinta" del suono; all'inizio sarà sicuramente frustrante cantare con la percezione di emettere poca voce, ma occorre avere il tempo di "sincronizzare" l'apparato uditivo, cominciare a sentire la propria voce nel locale, parlare intonando con poca energia e attendere la "risposta" della sala. Più si riesce a pronunciare con semplicità, morbidezza, sul fiato, prima e meglio si sentirà che la sala risponde e amplifica. Ricordarsi che l'idea che le cavità interne amplificano la voce e vanno quindi sfruttate cercando in ogni modo di ampliarle, è sciocca (non che non sia vera, ma che tale funzionamento non va cercato e non va esasperato), quando all'esterno della propria bocca c'è uno spazio assai maggiore che può incrementare il giusto suono assai (ma tanto assai) di più. Non solo, ma l'idea di "altezza" del suono, che molti (pessimi) insegnanti vogliono far provare pensando agli occhi, al naso, alla fronte, alla calotta cranica, ecc., può in realtà assurgere a quote molto ma molto maggiori quando lo spazio acustico lo consente (ma è logico che per poterle sfruttare bisogna aver seguito la disciplina per quel tempo sufficiente a mettere la voce fuori dalla bocca). Bisogna poi non averne paura, e per questo ci vanno tempi adeguati.

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