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domenica, febbraio 28, 2016

La fama

Oggi, con il proliferare di sistemi comunicativi e sociali, è cosa comune leggere di lodi sperticate a questo o quel cantante (o direttore o altra figura pubblica) oppure di ferocissime critiche. Rimanendo nell'ambito musicale operistico, vedo di continuo frasi lapidarie: "grandissimo", "il più - o la più - grande" (con eventuali ruoli), e via dicendo. Come conseguenza c'è anche da osservare che in molti casi, pur in ambiti pubblici, cioè non in siti ristretti ai fan di questo o quella, il contraddittorio non è quasi mai ammesso, per cui chi loda i criticati e chi critica i lodati, è bersagliato a male parole. Ora, a cosa si deve questo fenomeno? Si potrebbe dire: alla fama, alla celebrità, il che è vero, ma occorre  analizzare e fare un po' di chiarezza in merito. Partiamo da constatazioni: un artista si esibisce e ottiene un successo più o meno "rumoroso"; se questo successo comincia a ripetersi, il suo nome circolerà e lo seguirà nelle sue peregrinazioni. Ma non basta! A partire dal secondo / terzo decennio dell'Ottocento, dello spettacolo si occupa anche una certa stampa cosiddetta specializzata, nascono cioè i critici musicali o teatrali. Chi sono costoro? Sono giornalisti, persone che dimostrano una spiccata capacità di raccontare ciò che vedono, aggiungendo, anche se questo non sarebbe necessario, una forte tendenza a esprimere valutazioni e giudizi. Questi soggetti raramente sono musicisti, anche se col tempo maturano l'idea di esserlo e non di rado arrivano a rivestire ruoli in istituzioni o addirittura giungono ad insegnare o dirigere (in varie accezioni). Quando la loro origine è musicale forse è peggio, perché in genere hanno fallito o non ce l'hanno fatta, quindi devono riversare la loro bile in varie direzioni, quindi diventano veramente cattivi e criticano con asprezza e cinismo. Altro fenomeno non raro è quello corruttivo, per cui il giornalista-critico si intasca notevoli bustarelle per parlar bene-male di questo o quello. Questo fenomeno l'ho letto su giornali dell'800, non è legato solo ai nostri tempi decadenti. Mi pare ovvio che una buona campagna pubblicistica può generare o perlomeno sostenere l'obiettivo di raggiungere la celebrità, per quanto alla base debbano esserci sempre alcuni successi di pubblico. Ma, a un certo punto, la cosa prende ulteriori interessanti pieghe. Nasce il disco. Inizialmente è considerato una stupidaggine (l'ho letto su un giornale del 1878); dileggiato e irriso. Certo, quanto rimane impresso è davvero un segnale di scarsa qualità per diverso tempo, ma capita che, quando l'evoluzione comincia a essere rimarchevole, qualcuno si accorga che invece il disco possa rappresentare un volano straordinario di pubblicità e fama, specie se quanto si ode può risultare persino più interessante dell'originale. Qualcuno, cioè, scopre che esiste una "fonogenìa"; per vari motivi, non disgiunti dai sistemi pionieristici di presa del suono, alcuni cantanti sembrano avere voci più potenti e più belle di quanto si oda in teatro. Quindi chi inizia ad ascoltare rulli e dischi e non ha la possibilità di ascoltare quelle voci in teatro, si fa l'idea di un cantante che a volte è superiore alla realtà. Altra svolta, logica, è la nascita del critico discografico, che segue, nel bene ma soprattutto nel male, le linee già descritte per quello teatrale. Ma qui la piega diventa ancora più inquietante. Non ci sono solo i critici frustrati, quelli che prendono le bustarelle e quelli che ritengono - a volte nel vero - di poter esercitare un potere, ma piano piano (ma neanche tanto) nasce la grande industria discografica che diventa una potenza economica, ed è quindi in grado di gestire un mercato. Per qualche tempo è la base del mercato a dettare le regole, quindi i cantanti di successo teatrale, magari con gli "aiutini" dei critici, diventano famosi e la casa discografica li sostiene e li lancia alla grande; in seconda battuta decide che è lei a manovrare il teatro e quindi a creare e distruggere i miti. Certo, ci sarà quasi sempre (ma quel "quasi" non è certo un buon segno) anche un iniziale successo teatrale, ma le regole da seguire per adire alla celebrità cambiano, e diventano sempre meno artistiche, sempre meno ruotanti intorno a reali doti vocali, espressive e musicali, e più relative a doti fisiche, estetiche, e spesso supportate da un sottobosco di chiacchiericci, intrecci sociali, sessuali e cronachistici. Sia chiaro che anche questo è un dato sempre esistito, ma questo era successivo, riguardava i miti ormai consolidati, di cui si doveva parlare sempre. Da un certo momento invece questa atmosfera non dico che precedeva ma comunque accompagnava il nascere e il crescere di queste figure. Ora, fin qui credo di non aver detto niente di nuovo. Ciò che invece mi colpisce più negativamente è il fatto che tutto questo intreccio ha creato una massa di esseri convinti di sapere. La cosa è logica! Se migliaia di ciarlatani scrivono e chiacchierano con saccenza di questo o quello spettacolo e di questo o quell'artista, ma nei fatti tutti sanno che non sono niente e nessuno (parlo dei giornalisti), è chiaro che molti si sentano autorizzati a fare altrettanto. Molte persone, magari con facce meno "metalliche", per non esporsi troppo premettono un "io non è che me ne intendo tanto, però...." ecco, è proprio da quel "però" che si diparte il ruzzolone. Ma non è che le persone non possano o non debbano esprimere il loro parere, ci mancherebbe, il problema è che non lo espongano come un'opinione personale e libera, ma come un giudizio vero e proprio, maturato sulla base di un'esperienza, e questo vale anche per la stragrande maggioranza dei critici. Celletti si era convinto di capire di canto, al punto di insegnarlo e di diventare dirigente teatrale, solo ascoltando dischi!! Ma la cosa vale anche per tutti gli altri che l'hanno seguito. Conosco decine di persone che, pur conoscendomi e avvicinandomi con una certa cautela, non si esimono dall'esprimere valutazioni talvolta davvero imbarazzanti su questo o quel cantante o direttore d'orchestra. Ma certo che se non esiste alcun criterio, e l'unico sistema di giudizio resta quello della stampa, spesso e volentieri teleguidato dalle multinazionali discografiche, stiamo freschi! Ricordo bene quando il mercato discografico E DI CONSEGUENZA teatrale era blindato intorno a una decina di nomi, e, in tempi di vacche grasse, quando i dischi si compravano in quantità, si assisteva addirittura a numerose edizioni discografiche (E RAPPRESENTAZIONI TEATRALI) con gli stessi cantanti: Domingo, Caballé, Freni, Pavarotti, Ghiaurov, Raimondi, Cappuccilli, Milnes, Horne, Sutherland, con Muti, Abbado, Karajan, spesso litiganti veramente o fintamente. Altri quasi non esistevano, non facevano "cassa". Se tu osavi (e ancor oggi osi) mettere in dubbio le qualità (salvo andare nei siti dove lo sport è massacrare, ma sempre senza criteri) dei mattatori, vieni regolarmente preso a male parole, per quanto si possa dire con cortesia e argomentazione, perché sei fuori del coro; se tanta gente li ammira, come puoi pensare che non siano meritevoli del loro grande successo? Sono tutti sordi e scemi? eh... diciamo parecchio ingenui, soprattutto, ma anche disattenti, pigri, suggestionabili. Ma va bene così. Ciò che è sempre più grave è che questo fenomeno, che nel mondo dell'arte fa molto male, ma ha conseguenze più morali e psicologiche che altro, si sia portato nel mondo dell'economia reale e della politica. Qui la faccenda si fa davvero allucinante e suscettibile di conseguenze incontrollate. Ma non è questo il posto per parlarne, anche se tutto, in qualche modo, rientra in questo universo di coscienza.

3 commenti:

  1. Da tempo vado sostenendo che la prima causa della decadenza del canto è... l'opera stessa. Di solito quando me ne esco con questa affermazione vengo deriso e preso per pazzo. Ma non scherzo affatto: fu con l'apertura dei primi teatri pubblici, nel Seicento, che in Italia la musica, il canto, il talento dei compositori, iniziarono ad asservirsi a ragioni di botteghino, a dover sottostare a convenzioni legate al genere, nonché ai capricci dei divi da palcoscenico. Se il canto non fosse mai uscito dalle chiese, dagli oratori, dalle corti nobiliari, o dagli ambienti domestici e famigliari, sarebbe stato un gran bene. Il teatro ha corrotto e depravato tutto: ivi è proliferata l'esibizione edonistica di virtuosismi fini a se stessi, il machismo vocale a discapito della parola, la fanatica adulazione dei divi da parte dei loggioni, per non parlare dei costi esorbitanti per mandare avanti il carrozzone e oggi dell'odioso fenomeno del teatro di regia (a morte). Io sinceramente trovo cento volte maggiore soddisfazione e appagamento spiriturale dall'ascolto di un madrigale, o di una cantata sacra, o di un oratorio, che non dall'ascolto di una soporifera opera seria con ripetitivo alternarsi di recitativi secchi e arie con da capo.

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  2. Il tuo commento richiederebbe molto spazio di riflessione. Diciamo, in sintesi, che secondo me tu hai ragione, ma col senno del poi; anche altre manifestazioni artistiche, come la danza e la prosa, hanno avuto nel tempo un percorso parallelo all'opera, ma non hanno subito danni consimili, e in fondo, specialmente il teatro di prosa, poteva avere molta più popolarità, invece il binomio musica-teatro-testo ha vinto la gara, ahinoi, con alcune conseguenze non di poco conto. Però non concordo su quasi nient'altro. L'opera ci ha dato capolavori strordinari. Oratori, se escludiamo Bach, qualcosa di Vivaldi, Haendel e Scarlatti, non si può pagargonare alla quantità di meravigliosa musica operistica prodotta. E poi pure l'oratorio è una sequela interminabile di recitativi e arie, pur esse talvolta soporifere, e dove i danni direttoriali e canori sono parecchio avvicinabili a quelli operistici, anche senza la stessa popolarità.

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    1. Be' parlando di canto il binomio musica-testo è inevitabile (il canto E' binomio di musica e parola, qualsiasi canto, mica solo l'opera), ma non è questo il punto che sollevavo. E' chiaro e pacifico che l'opera abbia prodotto grandi capolavori (Mozart e Rossini su tutti, a mio avviso), non voglio certo negarlo. Volutamente esagero, da amante dell'opera quale anche io sono mi permetto un po' di bistrattarla. Ma è innegabile che il culto del suono tonitruante, del "vocione", delle bellurie vocali fini a se stesse, sia stato un portato dell'opera e non di altri generi. Non parliamo poi delle dinamiche sociali e carrieristiche di stampo più o meno mafioso che si sono sviluppate attorno all'ambiente teatrale. Fermo restando che io di scene, costumi, regie e tutto il resto farei più che volentieri A MENO! Su un altro punto insisto: l'oratorio a differenza dell'opera seria seicentesca e settecentesca non è affatto un susseguirsi di arie solistiche e recitativi, in quanto nell'oratorio ci sono anche cori e ariosi, il che non è cosa da poco! Se parliamo dei secoli XVII e XVIII la produzione di musica vocale non operistica non è affatto trascurabile come quantità e soprattutto trovo sia parecchio più stimolante musicalmente. Per fare qualche nome: Monteverdi, Carissimi, Charpentier,Schütz, Purcell,l'Handel non operistico, ovviamente Bach (quale opera del primo Settecento regge il confronto con la teatralità e la profondità psicologica delle sue due Passioni?).

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