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domenica, maggio 30, 2010

Il piano del canto

E' proprio difficile parlare di un "piano" di canto. Alto, basso, su, giù... Quante volte dico: no, più basso, quante altre dico: butta su! Giustamente gli allievi possono chiedere: ma insomma, sto canto dove va posizionato? Allora, cerchiamo di fare, per quanto possibile, chiarezza, e dare una risposta accettabile.
Sappiamo che il canto deve porre un "polo" superiore, in antitesi con quello inferiore sul diaframma, nella cupola palatina, sopra e dietro gli incisivi superiori. Questa posizione sappiamo che tende a "salire" internamente, a causa della pressione indotta dalla risalita diaframmatica e dall'istinto. Quindi occorre contrastare tale spinta, e impedire, per quanto possibile, che la posizione salga. Questa è una necessità che può sparire anche in tempi brevi se l'educazione del fiato è ottimale. Del resto questa è la posizione del parlato, e che va seguita, quindi può essere frequente l'indicazione a tenere il piano del suono orizzontale, di fronte alla bocca o all'altezza dell'attaccatura del naso, e non più su.
Secondo punto: il polo superiore, di cui sopra, non deve mai "staccarsi" dal palato, non deve scendere. Per evitare che questo accada, soprattutto quando si passa da vocali strette e/o chiare a vocali più scure e/o ampie, si raccomanda di mandare il suono (esternamente parlando) verso l'alto, e continuare in questa procedura per tutti i suoni dell'esercizio, indipendentemente che siano note più alte o più basse. Dunque abbiamo esposto due procedure che possono essere opposte. Sono inconciliabili? Due questioni: 1) la spinta diaframmatica dovuta all'instinto deve cedere, diminuire. A quel punto può diventare più opportuna la seconda indicazione. 2) tutta la questione del "su e giù" non ha molto senso se non si risolve il problema dell'avanti. E' essenziale che il suono venga posto, oltre che verso il palato anteriore, all'esterno, fuori dalla bocca, assolutamente senza forza o spinta, ma esclusivamente dietro alla pronuncia. Fin quando questo obiettivo non viene accettabilmente raggiunto, è inutile parlare di alto e basso. Siamo in una fase in cui il fiato deve essere ancora opportunamente sviluppato. Dunque, come già ci siamo premurati di scrivere, bisogna rispettare molto i tempi educativi, e tempi diversi richiedono anche esercizi e indicazioni diverse.

La voce degli altri (3)

Mi è stato prestato il libro di Delfo Menicucci sull'arte del canto, con particolare riferimento alla tecnica "dell'affondo", e l'ho letto con molto interesse. Ho apprezzato alcuni punti, alcune frasi, dove il cantante (che ebbi occasione di ascoltare da vicino, al teatro Regio di Torino, in Gargantua, allora in veste baritonale, mentre oggi si esibisce nella classe tenorile) prende le distanze da molti luoghi comuni dell'affondo. Devo dire che talvolta mi ha piacevolmente sorpreso per certa somiglianza con le scoperte del m° Antonietti, anche se qui, come nell'intervista precedente, mancano alcuni fondamenti essenziali.
Ho apprezzato, ad es. la presa di distanza dal termine "maschera", che come ripetiamo spesso, è disorientante e ingannevole. Mi ha fatto piacere constatare che anche la scuola di cui si fa portavoce individua un punto di fuoco del suono nel palato duro dietro agli incisivi superiori. Ho molto apprezzato la sua strenua difesa della voce parlata e soprattutto della perfetta dizione anche nel canto (e in questo senso dovrò capire se quanto dice l'amico Carlo Colombara in merito alle "A" sia da riferirsi alla sua scuola (quella di Paride Venturi, anch'essa di derivazione 'affondista') o a consigli di altra natura - in effetti lui citò Mirella Freni).
A questo punto i lettori si aspetteranno il "ma". Che puntualmente giunge. Intanto non ritengo molto corretta l'enfasi verso il suo metodo al confronto con tutti gli altri. Non può dire che tutti gli affondisti e solo loro abbiano (o abbiano avuto) tutte le carte in regola. Entrando più nel merito, i punti oscuri riguardano (ovviamente) la respirazione, alcune posture anatomiche e anche alcuni incredibili paradossi di confronto. Praticamente il fulcro di tutta la tecnica dell'affondo viene concentrata nella metodica respiratoria, decisamente molto bassa e in dentro. La cosa che lascia più perplessi riguarda l'appoggio. Partendo dalla giusta osservazione che il diaframma risale automaticamente e non è gestibile volontariamente, arriva a dire che "non c'è un appoggio diaframmatico", ma della cintura addominale. E' un'enormità, come si può ben comprendere. E davvero incredibile che la verità sotto gli occhi non gli si sia rivelata: il doppio polo. Interessante invece una disquisizione sul "saltare la gola", che in effetti in alcuni buoni cantanti dell'affondo si può apprezzare. Dopo aver confermato che gli affondisti "doc" non tengono la laringe bassa volutamente e una serie di argomentazioni a me poco chiare sull'allineamento della laringe, il punto che mi ha lasciato davvero esterrefatto riguarda la lingua. D'accordo sulla necessità che la lingua sia rilassata nelle vocali ampie, scanellata in quelle che lo richiedono, così come sollevata in quelle chiare, rimango esterrefatto e inorridito quando afferma che è una necessità inderogabile, e dunque si può ricorrere anche al manico del cucchiaio per farla stare in posizione. No, questa è una "tecnica" che poteva risparmiare di scrivere, e da cui metto fortemente in guardia chiunque studi o si accinga a studiare! La lingua starà giù quando l'istinto lo permetterà (e in qualche caso automatismi erroneamente appresi).

La voce degli altri (2)

CHE IMPORTANZA DA’ AL VELO PALATINO O PALATO MOLLE NELLA SUA DIDATTICA? COME LO SPIEGA AI SUOI ALLIEVI?
Non serve sottolineare l’importanza del velo palatino, se non per curiosità di informazione anatomica. Il suo movimento è automatico, a seconda dei fonemi. È un problema che non mi pongo. Se uno canta correttamente, il velo palatino si solleva e si appoggia alla parete della faringe. Ritengo sia dannoso far pensare agli allievi ai problemi del velo, dei registri, e del passaggio. Perché creare i problemi per poi inventare ridicoli e dannosi espedienti per risolverli? Bisogna guidare l’allievo verso la strada giusta, senza dirgli: “Qui stai attento perché c’è un pericolo!”. Così si ottiene solo l’effetto contrario. Si rischia di creare delle tensioni, che sono controproducenti al lavoro. È già spesso difficile controllare l’emotività di alcuni allievi. Ci vuole un po’ di buon senso.
COSA PUO’ AFFERMARE SUI PASSAGGI DI REGISTRO?
La voce è uno strumento unico. Se viene proiettata subito sulle labbra e appoggiata sul fiato, nessuno si accorge di qualche disomogeneità. I registri si evidenziano in chi parte dalla voce di petto, la voce nella tessitura grave, e pretende di completare l’estensione con lo stesso spessore delle corde vocali. Chi passa la voce subito sul labbro non troverà ostacoli, non sentirà né passaggi né registri. Eliminando il concetto di registro, si eliminano i passaggi. Possiamo dire che la voce deve essere tutta ‘passata’. Per «voce passata» intendo voce subito appoggiata sulle labbra, particolarmente sul labbro superiore. Tutto il resto lo fa il fiato, come diceva Schipa, seguendo la normale articolazione di tutti i fonemi. Tutte le vocali possono essere eseguite su tutta l’estensione, nei limiti naturali. Ci si basa sulla facilità dell’emissione, privilegiando la lingua italiana, che ha vocali pure. Quindi è la più idonea alla modulazione del canto.
Le vocali aperte /a/, /è/, /ò/ emesse con risonanze di gola avranno difficoltà a salire nella zona acuta. È così che nasce il passaggio. Imparando a sostenere anche le vocali aperte e ad omogeneizzarle con le altre vocali, si elimina il problema e la voce sarà omogenea su tutta l’estensione. Certo è possibile che ci siano delle zone dell’estensione più problematiche di altre, e ciò varia da individuo a individuo e dal tipo di voce, ma il modo di emissione sarà sempre lo stesso. Con i miei allievi non ho mai avuto grossi problemi ad omogeneizzare i suoni in tutta l’estensione vocale. Appoggiando la voce correttamente fin dall’inizio il problema viene aggirato, non c’è.
CHE COSA SIGNIFICA PROIETTARE IL SUONO?
Significa raccogliere sulle labbra gli armonici che si formano in bocca e sostenerli continuamente col fiato. Significa non trattenere il suono in bocca, ma darlo completamente all’esterno, affinché si propaghi nello spazio. La voce si deve sentire in tutti gli angoli del teatro. Magda Olivero, nel filmato «The art of singing», riporta un’espressione, che anch’io sentivo sempre, di Tito Schipa: «Le parole si formano sulle labbra e il fiato le fa correre». Tutto il resto è confusione e zavorra. È più facile spiegare questo concetto, come tutto il resto, dicendo quello che non si dovrebbe fare. È difficile descrivere i suoni con le parole: sarebbe come voler spiegare i colori a un cieco. Bisogna sentire i suoni, perciò serve un esempio pratico. Spesso non basta neanche l’esempio: bisogna provarli su noi stessi. Ecco perché tutti i trattati di canto non servono a nulla. Sono utili, se corretti, solo a confermare ciò che non si deve fare. Bisogna partire dal principio che le vocali /è/ ed /i/, le vocali strette, sono quelle che aiutano a proiettare il suono. Ovviamente questo vale per i vocalizzi. In esecuzione queste vocali verranno raccolte ed omogeneizzate con le altre vocali. Quasi tutti ignorano o trascurano completamente l’importanza delle labbra, dei muscoli orbitali. Sono i muscoli preposti all’articolazione delle labbra, che vanno sviluppati con l’esercizio mirato. Questo vale anche per la logopedia, alla quale è strettamente legata la mia tecnica. Per recitare e parlare si mettono in atto le stesse funzioni. Il canto non è che un recitativo modulato. Seguendo questa didattica si avrà una pronuncia perfetta, di qualsiasi lingua e di qualsiasi fonema.
PUO’ DESCRIVERE UNA SUA PRIMA LEZIONE TIPO?
Innanzitutto la respirazione è fondamentale. Si parte da questa. Spiego di allargare la base dei polmoni e di provare per esempio a emettere un fischio prolungato. Si attivano in questo modo le labbra e si crea un vortice sonoro. Chiedo all’allievo che cosa ha sentito, se si è accorto di qualche impegno addominale. Di solito sentono una tensione sull’addome. Allora spiego loro che la tensione si ha nei tre principali muscoli addominali addetti alla espirazione (muscolo retto e due laterali obliqui). Al bisogno mostro un disegno anatomico. Spiego il collegamento tra questi muscoli e il diaframma, che accompagna automaticamente i polmoni nella loro posizione iniziale.
Capito questo, faccio emettere un suono centrale con la vocale /ó/ (/o/ stretta), oppure con la sillaba «bó», per dare l’idea del suono labiale. Si comincia con una semplice scaletta di cinque note, tenendo conto che la respirazione sia come quella del fischio di partenza. A seconda della ricettività dell’allievo si passa gradatamente alla vocale /é/ (/e/ stretta). La /é/ di partenza si esegue appoggiando morbidamente l’apice della lingua sui denti incisivi inferiori, tenendo la gola rilassata a sbadiglio, senza temere di sorridere troppo. È il sorriso che forma la vocale /é/ e anche la vocale /i/, che sono naturalmente vocali chiare ed aiutano la proiezione del suono lontano. Sono la base del concetto di proiezione. Sono vocali naturalmente più udibili perché composte di armonici più acuti. Il primo vocalizzo è formato dalla successione di /ó – /é/ – /ó/: la /ó/ per ricordare l’appoggio del fiato sulle labbra e la /é/ per capire la proiezione del suono nello spazio esterno.
Successivamente, quando l’allievo ha digerito questi principi fondamentali di collegamento tra fiato e appoggio labiale, si aggiungono le altre vocali: /i/ ed /u/, e solo in seguito le vocali aperte /ò/ – /è/ – /a/, che sono le più rischiose in quanto abitudinariamente più appoggiate in gola. Da qui parte il processo educativo che porterà alla corretta emissione, attraverso la rieducazione dell’orecchio. È un lavoro delicato e paziente. Se si seguono subito tutte le regole per un’emissione corretta, l’educazione può essere fatta anche in breve tempo, a seconda dei casi, ma sempre sotto la supervisione del maestro, che controllerà ogni minima inflessione scorretta del suono. È importante che anche il maestro abbia un buon orecchio, ma un orecchio specifico per riconoscere dal suono che viene prodotto il comportamento di tutto l’apparato. Un buon maestro riconosce subito se una voce è danneggiata più o meno gravemente: se ha bisogno di una semplice rieducazione, unita al riposo, o se necessita di un intervento foniatrico.
QUALI RISULTATI HA OTTENUTO E STA OTTENENDO CON LA SUA DIDATTICA?
Un cantante in poco tempo apprende la tecnica. Tutto il resto del tempo verrà dedicato allo studio del repertorio, a partire da tutte le materie complementari, quali il solfeggio, l’arte scenica e la cultura musicale in genere. Io ‘costruisco’, o rigenero, lo strumento «voce», e ciò è possibile nel giro di pochi mesi o in un paio d’anni a seconda dell’allievo. Dipende dalla situazione di partenza. Se ci sono tanti difetti da correggere, i tempi si allungano. In pochi anni o in pochi mesi riesco a mettere in condizione il cantante di esibirsi in teatro a ottimi livelli. Spesso si rivolgono a me cantanti in carriera, affaticati dall’intensa attività e che vogliono riabilitarsi. Purtroppo mi è capitato di vedere miei allievi, già avviati ad una brillante carriera, essere completamente snaturati da altri maestri o pianisti accompagnatori. Questi giovani cantanti si presentano da questi individui che sentono la loro voce pronta. Cominciano a fargli confusione con altri termini e cercano di snaturarli. Tolgono la loro proiezione, costruita magari faticosamente. Spesso succede che gli addetti ai lavori non se ne intendano affatto di voci, in quanto è una disciplina particolare e delicata. A volte non riconoscono un suono ben proiettato, perché ad un orecchio inesperto alcuni suoni possono sembrare troppo pungenti, penetranti da vicino. Quegli stessi suoni, invece, ascoltati in un teatro, o in un altro ambiente consono, sono splendidi e assolutamente udibili, perché costruiti per poter superare la barriera dell’orchestra. Io educo i miei cantanti a proiettare tutto il suono fuori: così le voci diventano grandi. Dico loro di pensare ad uno spazio grande, lontano. Bisogna sempre proiettare la voce ricercando quel timbro, quello squillo, indipendentemente dall’ambiente in cui ci si trova. Dico sempre agli allievi di non ascoltarsi. All’inizio, per rieducare l’orecchio, dico di non ascoltarsi per niente, di cercare solo il suono sul labbro. Quindi sarebbe preferibile studiare in un ambiente sordo. Col tempo si impara ad ascoltare la voce che arriva dall’esterno, non quella udita dall’orecchio interno. Se si vuole sentire la propria voce reale, bisogna imparare ad ascoltare il ritorno della propria voce, senza fare affidamento su percezioni interne che sono fuorvianti, e possono essere dannose se mal interpretate.
SECONDO LEI, QUAL E’ LA CAUSA DELLA TANTO LAMENTATA MANCANZA DI GRANDI CANTANTI?
Prima di tutto si è persa la tradizione del canto. E, molto peggio, non ci sono più maestri che lo sanno insegnare. Insegnare canto è molto difficile. È una disciplina molto delicata. Non è come imparare a suonare uno strumento. Per imparare a suonare, per esempio, il violino, la prima cosa che si fa è di andarsi a comprare lo strumento. Lo trovo lì, già pronto. Agli strumentisti può sembrare più facile il mestiere del cantante, perché si nasce con la voce. In realtà il cantante si devecostruire la voce, come se dovesse costruirsi da solo il suo strumento. Inoltre se si rompe una corda di un violino, basta sostituirla. Se un cantante danneggia le sue corde vocali, può essere irreparabile. Non basta nascere con una bella voce; non basta essere intonati. Il cantante per poter interpretare al meglio il repertorio, deve fare un lungo lavoro sul proprio strumento. Non dico che lo studio di uno strumento sia meno lungo e difficile, ma solo che un difetto, un errore nello studio, è più facile da togliere. Un insegnante di violino dirà all’allievo di mettere la mano in un altro modo, di tenere l’archetto in un’altra maniera e gli farà vedere come si fa. Io non posso dire ai miei allievi di ‘mettere’ il suono in un modo o in un altro, non posso mettergli le mani dentro la gola per fargli vedere quello che sta sbagliando. Poi c’è un problema terminologico di fondo: il fatto che è impossibile descrivere esattamente un suono a parole. Forse mi sono ripetuto più volte, ma per insistere sugli argomenti che più mi stanno a cuore. E poi “repetita iuvant”, soprattutto insegnando.

lunedì, maggio 17, 2010

La voce degli altri

Ogni tanto mi consolo a leggere che anche qualcun altro ha intuito almeno parte delle grandi scoperte del M° Antonietti. Grazie all'amico Bohemien, che me l'ha segnalato, voglio riportare parti di un'intervista al M° Renato Bardi Barbon. L'intera intervista è rintracciabile sul sito: http://tatianacarpenedo.altervista.org/tesi.html

DA QUALI ESPERIENZE DERIVA LA SUA DIDATTICA?
Da allora, dopo quello che mi era accaduto, che avevo subito in prima persona, raccolsi tutte le esperienze che avevo avuto e tentai di rigenerarmi la voce, ma non riuscivo più a garantire la resa per un’opera intera. Conobbi la signora Enza Ferrari, che mi diede di nuovo fiducia. Con lei feci altri concerti, ma sentivo che non ero più lo stesso. Ciò che avevo subito fu un danno irreparabile. Pian piano mi ero cronicizzato. Così, cercando di rigenerare la mia voce, ho analizzato tutti i suggerimenti che mi avevano nuociuto. Anche i più grandi cantanti spesso non riescono ad esprimere la metodica della loro emissione, disorientando l’allievo. Quello che mi veniva chiesto spesso andava contro la naturalezza della mia emissione, che era stata tanto apprezzata proprio dalla più grande interprete pucciniana, la signora Dalla Rizza. Sentivo che la mia voce veniva snaturata, mi sembravano forzature. Ogni cantante cercava di farmi imitare se stesso. Sentivo che questo non mi era congeniale. Dovevo andare contro la mia natura per imitare la loro. Ma volevo a tutti i costi capire. Ero curioso di conoscere tutti gli insegnanti anche per un interesse scientifico: volevo andare a fondo del problema, avere il maggior numero di informazioni che non fossero empiriche. Quella che mi ha dato più informazioni da questo punto di vista è stata la signora Bagagiolo, che ha aiutato ad assecondare la mia natura. Da questo sono partito per la elaborazione della mia didattica.
È stato il seme che ha fatto germogliare le mie intuizione future. Teneva molto alla schiettezza della pronuncia. Lei si era occupata anche di canto gregoriano: aveva rigenerato le voci dei frati di San Giorgio Maggiore, riscuotendo calorosa approvazione dal priore Pellegrino Ernetti.
QUAL E’ IL PRECETTO FONDAMENTALE CHE IMPARTISCE AI SUOI ALLIEVI?
La prima cosa è di avere passione. Se un allievo ha passione, metterà anche l’impegno dato dalla volontà di raggiungere dei risultati. Inoltre raccomando di essere più naturali possibile. La migliore insegnante è la natura. Bisogna seguire ciò che viene
più naturale, ovviamente sotto una guida che sappia riconoscere subito eventuali errori. Per l’audizione mi bastano due suoni senza nessuna formalità. Poi pian piano comincio con dei vocalizzi. Sono sicuro che una laringe normale, come può parlare può anche cantare. Sono le stesse funzioni, lo stesso apparato. È questione di educazione. Già ascoltando qualcuno parlare si possono capire molte cose.
QUALI SONO I PROBLEMI PIU’ FREQUENTI CHE INCONTRA CON GLI ALLIEVI A LIVELLO VOCALE?
Incontro problemi soltanto con allievi che provengono da altre didattiche. Educare una voce vergine è relativamente facile. Non ha di solito abitudini scorrette e, se ne ha, sono facilmente rieducabili. Nella rieducazione dopo altri tipi di studi, spesso scorretti, i problemi invece sono innumerevoli. Devo eliminare i difetti e i riflessi condizionati provocati dai precedenti insegnamenti. Quasi sempre l’orecchio interno è deformato da cattive abitudini, come ad esempio in quelli che sono abituati ad ascoltarsi troppo e a fare troppo affidamento sulle proprie percezioni interne. Le
proprie sensazioni possono ingannare. Certi insegnanti cercano di far sentire all’allievo le stesse sensazioni che essi stessi percepiscono, ma ciò è fuorviante, perché ognuno sente le cose a proprio modo.
Per esempio, Corelli era un grandissimo tenore, ma posso affermare che non è stato un
buon insegnante: non riusciva a trasmettere le sue migliori qualità agli allievi, cioè lo squillo e la proiezione dei suoni. Al contrario incuteva la paura degli acuti e faceva affondare troppo. Ha snaturato il lavoro che avevo fatto con tre miei tenori, che avevano già debuttato da protagonisti nei maggiori teatri. Questi allievi, cercando di sentire quelle vibrazioni nel punto preciso indicato dal maestro, finirono con lo spingere e gravare sulla gola. Infatti quello che mi sorprese nella didattica della Bagagiolo era proprio la leggerezza estrema dell’emissione. Molti allievi tendono a spingere, spesso non per loro innata tendenza, ma nella disperata ricerca di fare quello che gli viene chiesto. Molti dei miei allievi provenienti da altre didattiche mi dicono che è stato insegnato loro di cercare il suono in maschera. Io spiego loro l’inutilità del concetto di maschera.
COSA INTENDE PER «MASCHERA»?
Per me maschera significa mandare il suono laringeo nelle cavità nasali. Questo è l’esito a cui arrivano quasi tutti gli allievi ai quali viene insegnato di mandare il
suono in maschera. Inoltre c’è un grosso equivoco di natura fonetica, che ha fatto supporre in tempi passati che le cavità nasali fossero delle cavità di risonanza utili ai fini del canto. Anche Lauri Volpi credeva che i seni frontali fossero l’origine del suo squillo portentoso.
Ma studiando questi concetti di fonetica con il prof. Croatto, egli mi confermò che
queste cavità sono ininfluenti per la sonorità del canto. Quello che viene percepito a ridosso dei seni paranasali sono solo sensazioni interne date dalle vibrazioni
naturali causate delle onde sonore che vanno a sbattere contro le pareti muscolo-scheletriche. Non c’è nulla di eccezionale in tutto questo. Non bisogna far riferimento su tali percezioni. Questa è la grande pericolosità: ascoltare se stessi senza proiettare la voce all’esterno. Alcuni allievi arrivano da me talmente fuorviati che abbandonano la mia didattica perché non sentono più la propria voce. Sembra loro di cantare nel vuoto, perché abituati ad avere riferimenti interni.
Dalla mia esperienza ritengo l’emissione in maschera un insieme di idiozie. Buttare il suono nel naso è un processo non naturale e dannoso. Attiva coordinazioni innaturali. Negli anni ’40 l’abbé Rousselot, tamponando con garza le cavità nasali e cervicali, ne ha potuto dimostrare la assoluta ininfluenza per la proiezione del suono. Le cavità cervicali non fungono da risuonatori. Lo stesso dott. Fussi, che è stato allievo di Croatto, le ha definite come la «marmitta» della voce.
È dannoso utilizzarle come risuonatori perché attraverso le tube di Eustachio
percepiamo risonanze interne che non vengono proiettate nello spazio e non vengono
avvertite dall’orecchio esterno, con la conseguenza che l’esecutore sente moltiplicare all’interno le proprie sonorità laringee illudendosi di trasmettere la stessa potenza e lo stesso squillo all’esterno. La voce diventa sorda, opaca e non proiettata nello spazio circostante. Per questo motivo insegno all’allievo a non ascoltarsi. C’è un processo di educazione dell’orecchio che bisogna fare. Quello che percepiamo dall’orecchio interno non è il suono reale della nostra voce nello spazio.
Infatti, la prima volta che una persona sente la propria voce registrata non la
riconosce. Bisogna insegnare all’allievo ad ascoltare invece la voce che viene dall’esterno. Il cantante deve far sentire la sua voce agli altri, non a se stesso. La propria voce deve adattarsi allo spazio circostante, esterno, perché la voce è tutt’uno con lo spazio in cui viene proiettata. [... continua]

sabato, maggio 15, 2010

Chi ben comincia... è alla fine!

Un celebre e importante motto del grande direttore Sergiu Celibidache era: la fine (di un brano) è contenuta nell'inizio. Approviamo e applichiamo anche alla nostra disciplina. L'inizio di ogni giornata canora deve essere attentamente vagliato, se la si vorrà concludere positivamente. Evitare di cantare subito arie, specie se particolarmente impegnative. Può essere un buon sistema trovare un'aria o romanza leggera, "comoda", che, ben conosciuta e studiata, possa anche fare da allenamento. Ciò che deve essere ben chiaro è che non si deve pensare di "riscaldare la voce". Anzi, la cosa migliore è cercare di dimenticare che si ha una voce! Ciò che va sviluppato è solo e unicamente IL FIATO. Certo, usando la voce, ma avendo solo presente che il fiato giunge sin sulle labbra, sui denti anteriori, e occorre far sì che fluisca, che scorra continuamente senza trattenimenti e senza spinte, senza ostacoli, senza artifici, dalla bocca. La leggerezza è fondamentale nei primi momenti. Se i primi esercizi o vocalizzi o arie mettono in moto i muscoli faringei, potrebbero nascere subito problemi che possono influire molto negativamente nel prosieguo della giornata e le cose potrebbero essere gravi se è un giorno in cui si deve fare concerto. Inoltre è sempre bene ricordare che all'inizio è buona norma riposarsi spesso, lasciar "sedimentare" il fiato. Come abbiamo già scritto più indietro, inoltre, è ottima regola fare esercizi completamente senza voce.

sabato, maggio 08, 2010

Dolce sentir...

Sarà bene ribadire che chi studia il vero Belcanto, cioè quello dell'antica scuola italiana, si troverà a un certo punto col problema che gli sembrerà di non sentirsi più, e quindi di pensare di cantare molto piano (spesso si ha addirittura l'impressione che stia cantando... qualcun altro!!). Questo può anche portare a spingere. Il motivo per cui avviene questo è presto detto: il suono essendo proiettato con forza sui denti superiori e fuori della bocca, farà diminuire di molto quel "rimbombo" interno che, propagandosi tramite le trombe di Eustachio all'orecchio interno, dà a tutti una falsa percezione di suono intenso. Alcune persone si convincono di avere una grande voce perché ottenebrate da un "uragano" di suono tra bocca gola e naso. Ovviamente non è così, e infatti la nostra scuola dice, tra le prime cose, che non si educa solo la voce, ma anche l'orecchio: quello esterno, però, che si affinerà a sentire il proprio timbro, i propri pregi e difetti così come quelli altrui. Nella fase di passaggio dal suono interno a quello esterno, è fatale che l'allievo faccia resistenza e si opponga alla perdita di quel "rumore" cui è molto affezionato. In questo caso diciamo che l'acustica della stanza ha una certa importanza, perché se il suono si avverte nello spazio esterno potrà compensare quella perdita che potrebbe indurlo a spingere. E' anche bene, però, che la stanza non sia eccessivamente risonante, perché in questo modo non si colgono più le differenze tra suoni di fibra e suoni realmente sul fiato, quindi ci deve essere un sufficiente livello di assorbimento.

lunedì, maggio 03, 2010

La voce che corre

Differenza tra un cantante, anche bravo, "tecnicizzato" e un cantante - artista? Quante volte avete sentito dire: il bravo cantante fa vibrare tutto il corpo. Come dire che non c'è solo la laringe, il diaframma, ecc. E ok, va bene, ma alla fine della fiera cosa conta veramente? che sia tutto il corpo a cantare? No, l'artista è come se escludesse il corpo dal canto. Ciò che fa, è mettere in vibrazione l'aria dell'ambiente in cui opera. Più riesce in questa operazione, più la voce "corre", e tutto il teatro vibrerà. Quindi l'allievo cantante dovrebbe evitare di "pompare", e cercare di fare il "vocione", e spingere e gonfiare... non serve a niente, consuma un sacco di energia, imbruttisce, irrigidisce, limita... quando si canta nell'aria esterna, impiegando il minimo delle energie (che però non sono... niente, eh, sia chiaro!), renderà il canto vario, espressivo, modulabile, intenzionale, libero! Ma si può capire questo concetto!?? (e capire... significa fare, diceva, giustamente, il Maestro).

Sospirar che giova?

Ho già parlato in passato dell'utilità del canto sospirato, che possiamo considerare la base della voce. Qualcuno pone la domanda sull'utilità di un canto che non coinvolge la vibrazione delle corde. Intanto non è detto che le corde non siano coinvolte, dipende. Ma questo è secondario. Quando il fiato, per una qualsiasi causa fisiologica si trasforma in suono, esso vibra e quindi assume una maggiore pressione. Questa è una causa sufficiente a ritenerlo idoneo per l'educazione vocale. Incredibilmente anche il suono sospirato può essere spinto, trattenuto ecc., e quindi è un mezzo ideale per educare in quanto non stimola la reazione dell'istinto.