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giovedì, ottobre 31, 2013

Verso l'ignoto

Quante volte, durante una lezione o anche durante il canto, l'esecutore si sente insicuro, intimorito, percepisce i suoni come "strani", non sa capire se sono giusti o sbagliati, prende una certa decisione su come eseguire una certa nota o vocale, perché avverte una resistenza oppure perché prevede che continuando in certa direzione rischia di "aprire", distorcere, forzare, sguaiare, ecc.? Credo spessissimo, continuamente. Che cosa è questa sensazione, e come va valutata? Possiamo dire che in genere si mescolano e si stratificano diverse esperienze, però alla base c'è un concetto universale, e cioè la distanza tra ciò che è conosciuto e ciò che è sconosciuto. Esiste una importante letteratura sull'esplorazione, che possiamo sintetizzare come la forza di alcuni uomini di affrontare l'ignoto. Possiamo comprendere meglio, ci suggestiona maggiormente e  conmprensibilmente, l'avventura di Cristoforo Colombo nel superare le colonne d'Ercole e navigare in mare aperto con una meta ideale ma incerta rispetto a chi supera determinate resistenze di ordine filosofico, religioso, ecc., ma il concetto è lo stesso. Chi prova a fare un suono vocale e, sulla base di una guida e una particolare educazione respiratoria, trova un "vuoto", una libertà mai provata, si sentirà più o meno come Colombo, in mare aperto, con una destinazione ignota ma ferma nella propria volontà, e la forza di reazione di girare la prua e tornarsene nel conosciuto è sempre presente finché non si avranno segnali confortanti. Intendiamoci, talvolta la linea che passa dal giusto "artistico" all'errore clamoroso non è così netta. Cerco di spiegarmi citando due casi storici. Schipa e Gigli sono stati due cantanti eccelsi sul piano vocale; in questa sede tralasciamo altri aspetti. Gigli, un po' per il tipo di repertorio affrontato e un po' per gli studi, è stato un filo meno magistrale di Schipa sotto l'aspetto dell'emissione. Gigli era consapevole di questa leggera limitazione e infatti dichiarò di non voler insegnare in quanto rischiava di far "aprire" i suoni agli eventuali allievi. Il fatto è che anche Schipa cantava "aperto", ma dunque in cosa consiste la differenza? Detto in due parole, possiamo definirla una differenza respiratoria, però dobbiamo esplicitarla meglio, se no contribuiamo a fare confusione. Come abbiamo già espresso in post precedenti, non c'è una motivazione così cogente per cui nel settore acuto non si possano fare i suoni con lo stesso colore con cui si eseguono nel centro. Mi riferisco in particolare alla vocale A, che quasi tutti i cantanti tendono ad arrotondare ad O. Il problema è presto detto: rarissimamente si presentano situazioni per cui una persona è dotata di un fiato tale da supportare una A, o qualunque altra vocale, con la stessa ampiezza che possiede nel centro, ammesso che in quella gamma sia valida, senza subirne delle conseguenze, cioè senza che questi suoni si presentino gravemente difettosi, e, anche in questi rarissimi casi, il conto arriverà comunque prima o poi. Le scuole del 900 avanzato, poi, hanno contribuito a deteriorare la situazione imponendo obbligatoriamente l''oscuramento del passaggio, senza chiarire (ma bisognava che fosse chiaro a chi adottava questo metodo) che l'oscuramento NON E' un metodo, o tecnica, ma una risorsa per superare determinati ostacoli, e deve essere utilizzato con grande consapevolezza e misura. E' del tutto normale che, in soggetti ancora poco esperti, avanzando verso le note acute, determinati suoni, e in particolare la A, che richiede parecchio fiato gestendo molto spazio, il suono risulti "aperto", detto in senso negativo. Cosa significa? Che il suono diventa sguaiato, gridato, fisso, povero di armonici, forzato, fibroso ecc. Tecnicamente può essere considerato "di petto", ma qui la questione si complica. Come mai nel campo della musica "moderna" molti cantanti eseguono acuti anche fino al do4 di petto senza particolari conseguenze? E qui torniamo anche al caso Gigli. Questo è, nuovamente, l'ABC dell'arte canora, ma ripetiamo e ripetiamo, perché non sarà mai abbastanza chiarito e divulgato questo concetto. Sappiamo esistere due modalità di vibrazione della corda che si definiscono popolarmente petto e falsetto. Esistono campi di emissione nei due registri che possiamo definiri propri e impropri, nonché un campo improprio e anche pericoloso. I due registri sono sovrapposti, ma una disciplina artistica, come la nostra, annulla i registri conoscendo il perché e il percome esistono i registri e può educare una respirazione/voce a rimuovere le cause che li generano. Lasciamo stare questo aspetto, che è un obiettivo straordinario. In base alla portata vocale di ciascun soggetto, la gamma di suoni propri e impropri può essere diversa. Mi spiego: una voce di ampia portata, come in genere è quella dei cantanti lirici, non riesce a sopportare il "peso", o intensità, di una voce in registro di petto oltre due-tre semitoni oltre la opportuna nota di passaggio. Ci sono, invece, voci di modesta e modestissima portata, come sono in genere le voci dei cantanti di musica leggera o moderna, che tanto fanno uso di amplificazione artificiale, le quali sorreggono senza particolari problemi lunghe estensioni, anche oltre il do4, senza subire gravi conseguenze (ricordando però che il petto oltre il re4 diventa effettivamente pericoloso, oltre che improprio). La zona oltre il punto di passaggio possiamo definirla impropria nel senso che è più opportuna l'emissione in cosiddetta corda "sottile", o falsetto, ma la respirazione per ottenere un uso ottimale del falsetto richiede molto tempo, perché (e ancor più il settore definito "testa", oltre il re4) NON E' un tipo di modalità di emissione naturale (essendo una corda istintivamente presente per GRIDARE), in quanto non prevede l'articolazione, cioè solo per una ristretta gamma e in campo femminile, salvo eccezioni, il falsetto viene utilizzato per parlare. Questa condizione fa sì che giungendo in zona centro acuta, la sensazione di chi canta sia quella di entrare nel "grido", il che non è sbagliato, però occorre comprendere se parliamo di grido proprio o improprio! Il grido di petto è da considerarsi una forzatura, quindi è improprio, mentre in corda "sottile", o falsetto, il grido diventa appropriato. Giustamente si dirà che il buon canto non è grido, e qui entriamo nella carenza respiratoria. Non essendo il grido una necessità di ampia durata né di particolare qualità, la respirazione è limitata al minimo indispensabile, pertanto per poter cantare, cioè elevare il grido, così come il parlato in zona centrale, a emissione artisticamente valida, è necessario educare il fiato a quello scopo. Nel caso di Schipa l'educazione respiratoria era tale per cui poteva emettere tutte le note del settore acuto senza necessità di oscuramento, e risultano quindi coerenti con il colore del centro (c'è un principio fisico per cui più i suoni sono acuti più sono chiari),  e con un solitamente inavvertito cambio di registro; nel caso di Gigli, pur con un'educazione vocale esemplare, questa condizione non era così perfetta e risolta, per cui qualche fa# e sol3, nei momenti di concitazione, poteva risultare non alimentata in modo magistrale e quindi risultare "aperta", cioè un po' sguaiata (e da qui nacque anche un concetto, assai discutibile, di canto "verista" su cui Celletti ha intessuto gran parte della propria letteratura critica). Una condizione possibile quando la si usa con discernimento e occasionalità. Bisogna anche considerare che Gigli in genere utilizzava la respirazione diaframmatica, che non era ideale per risolvere quella condizione. L'ho fatta un po' lunga, mi auguro comunque di aver aperto qualche spiraglio in più! Ho un po' deragliato da quelli che erano i miei intendimenti iniziali, ma approfondirò in seguito.

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