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giovedì, giugno 28, 2012

Dalla base alla punta

Ritengo possa essere chiarificatore, specie per chi si affaccia per le prime volte a questo blog e si pone le domande essenziali sulla voce e il canto, questo specchietto che poi cercherò di inserire anche quale contributo grafico.
Una delle domande più frequenti in chi si interessa o si occupa di canto riguarda la differenza che può esistere tra il parlato e il canto, specie quello operistico. In genere le risposte sono piuttosto evasive, confuse, generiche, e la peggiore di tutte riguarda quella misteriosa "voce impostata" che segnerebbe il discrimine tra questi due atteggiamenti vocali. Per qualcuno, quindi, esisterebbe la possibilità di un parlato "naturale" e un parlato "impostato", base del canto operistico. Questa posizione, molto diffusa e popolare, genera false credenze ed equivoci molto gravi in relazione alla vera essenza della voce. Pensare che possano esistere atteggiamenti "commutativi" da un tipo di voce a un altro è un errore concettuale che può avere conseguenze molto negative nello studio del canto. Prima di iniziare l'illustrazione dell'argomento fondamentale, faccio un cenno sulle imitazioni. Nell'epoca della televisione, sono diventati celebri alcuni importanti imitatori. Lo storico Alighiero Noschese, poi Loretta Goggi, Gigi Sabani, Panariello e molti altri. Abbiamo dunque persone che riescono ad assumere le stesse caratteristiche vocali di altri. La forza dell'imitazione non sta tanto nel riuscire a replicare perfettamente il timbro vocale, quanto nell'esaltare alcuni aspetti caratteristici a scopo ironico; a parte questo non si può non rimanere stupiti da alcune voci doppiate in modo quasi identico. Questo è dovuto alla straordinaria elasticità e motilità orofaringea, che consente al suono di base di acquisire particolari inflessioni o di inibirle, prendere colori, risonanze, densità armoniche in grado di plasmare un vero arcobaleno di possibili diversi suoni. Questa ricchezza, però, è una risorsa di tipo espressivo e spettacolare, non è da ascrivere all'arte vocale propriamente detta, in quanto non è la manifestazione della propria personale, soggettiva originalità ma è un'abilità imitativa, di osservazione e replica che inibisce i caratteri peculiari, che sono la cifra fondamentale dell'Arte vocale.
La voce parlata va suddivisa in diversi livelli. Il primo livello lo possiamo definire di "parlato semplice"; è quello che si esplica quotidianamente con amici, colleghi e parenti, e si contraddistingue per fluidità e si dipana grossomodo attorno a una nota fondamentale con variazioni piuttosto contenute. Naturalmente a questo livello non entrano in gioco le emozioni. Quando ci si arrabbia, o si contiene il nervoso, o si è in preda a gioia, malinconia, dolore, ira, amore, ecc. ecc. i parametri vocali cambiano sensibilmente in rapporto al grado di coinvolgimento emotivo. Al livello di parlato semplice, corrisponde un canto? Sì, quello che si definisce "canticchiare". Siamo in casa, senza particolari pensieri, magari facciamo qualche attività materiale, tipo riordinare, e... canticchiamo, una canzone, un'arietta. Non ci si pongono problemi di alcun genere, si può essere anche stonatissimi, non ci importa l'essere ascoltati. Quando si è in preda a forti stati d'animo, difficilmente si canticchia; lo si fa, talvolta, in condizioni di tristezza, di dolore, di malinconia, a volte in preda a una gioia, ma questa condizione si riversa più sull'aspetto musicale che non su quello strettamente vocale. Alcune forme emotive forti e ricorrenti, come può essere la depressione o il nervoso o stati di rabbia frequenti, possono portare all'insorgere di patologie vocali per deficiente o eccessiva pressione aerea causata dalla scarsa o iper attività diaframmatica o comunque della muscolatura respiratoria.
Successivamente abbiamo un parlato più impegnato quale può essere quello di chi parla in pubblico o comunque, frequentemente, con una certa cura e un volume non esiguo, come ad esempio insegnanti, cronisti, presentatori. Sono utilizzazioni della voce che richiederebbero già un certo periodo di studio, per la pronuncia, l'espressione ma anche l'usura. E come mai quest'ultima necessità? Perché già aumentando il volume e la cura del parlato, si va a "stuzzicare" la reazione organica, perché richiede un utilizzo più intenso del fiato e del diaframma. A questo livello una buona predisposizione è sufficiente, però sappiamo di molte persone che hanno incontrato problemi, in qualche caso anche di una certa gravità. Allo stesso livello ci può essere il canto popolare.
Salendo ancora di un livello, abbiamo il parlato "recitato", quello degli attori, che già richiede un periodo di educazione piuttosto lungo. L'attore, storicamente, deve parlare a diversi gradi di volume, intensità, colore, ecc., senza amplificazione e potersi sentire perfettamente. Il buon attore deve anche riuscire a riprodurre le voci dei diversi stati d'animo, quindi percorrere livelli di intensità variabilissimi, dal sospiro al grido, anche prolungato, e deve poter giungere al termine delle recite (a volte lunghissime) senza denunciare particolari stati di stanchezza vocale. Se consideriamo anche l'impegno della memoria e dell'azione scenica, rendiamoci conto quale sia l'energia da impiegare per professare tale attività! A un livello simile possiamo paragonare un canto di notevole impegno, anche se non ancora quello operistico, ma possiamo pensare a cantanti che fanno lunghi ed estenuanti tour, lunghe serate e canti che impegnano una estensione ragguardevole, o magari cantanti di musical.
A questo punto i livelli di parlato non musicale sono finiti, e arriviamo a un punto di incontro tra un ulteriore livello di parlato e l'applicazione musicale, che è appunto il canto artistico, o operistico, che possiamo, quindi, definire come il più elevato e impegnativo uso della parola, che deve, per l'appunto, il suo elevatissimo livello di difficoltà, all'uso dell'intera gamma disponibile musicalmente.
Per concludere, sintetizziamo la risposta: non esistono reali differenze tra parlato e canto, ma successivi "scalini" di difficoltà, e ogni scalino rappresenta un maggiore impegno del fiato (e conseguentemente del diaframma) e questo provoca una reazione istintiva, perché solo il parlato semplice può essere definito istintivo; ogni gradino, a partire da una voce emotivamente impegnata, suscita spinte e pressioni da parte del fiato reagente che creano difetti e difficoltà crescenti. Non esistono tecniche per cantare o parlare a livelli superiori, perché non sono apprendimenti artigianali quelli che servono per realizzare con il proprio corpo opere artisticamente valide, ma è necessaria una disciplina che nello sviluppare il fiato necessario all'alimentazione di suoni esemplari, si proietti anche oltre la barriera delle difese esistenziali onde debellare quelle reazioni insite, a diversi gradi, in ognuno di noi. Ciò che comunque deve apparire chiaro e indispensabile, è la cura e lo sviluppo perfetto della parola a partire da quella parlata, perché essendo il livello già accettato, compreso, dall'istinto, sarà la base di partenza per qualunque successivo grado di miglioramento. Chi, invece, ritiene che ciò che va sviluppato sia esclusivamente un suono vocale, ha perso di vista una verità talmente lampante ed evidente, da apparire come certe chiavi di risoluzione di gialli, dove l'oggetto è ed è sempre stato davanti agli occhi di tutti, ma nessuno ha avuto occhi (e testa) per vederlo. E' una realtà molto difficile da accettare per tanti, perché, come diceva Schipa, superando il centro, il parlato diventa tremendamente difficile da sostenere, e quindi la strada più semplice resta piegarsi a suoni impuri, intervocali, spoggiati, inflessioni gutturali, nasali, velari, ecc. Naturalmente è comprensibile, perché chi o cosa può spingere una persona a sottoporsi a una disciplina estenuante, con quali promesse, quali reali prospettive? Nessuna, considerando che poi è la mediocrità che impera, però esiste sempre una intuizione, specie da parte delle persone semplici, che può rivelare il vero artista. E comunque chiunque segua questa strada, anche se non vorrà o potrà raggiungere un traguardo estremo, potrà contare su una validità di educazione vocale superiore a qualunque tecnica.

mercoledì, giugno 20, 2012

Il vero che s'allontana

Fino alla fine del XIX secolo la musica si poteva ascoltare solo dal vivo. L'unico mezzo di riproduzione già inventato era il piano a rulli, che sicuramente già toglieva molto all'esecuzione "hic et nunc", ma comunque si ascoltava sempre un pianoforte che suonava. I primi dischi non solo erano analogici, cioè riproducevano l'onda sonora tale e quale, ma questa veniva impressa direttamente dall'esecutore; non c'erano filtri o barriere. Possiamo discutere per giorni sulla modestia dei mezzi ove si realizzava l'incisione, sui modi e su mille altre cose sicuramente negative, ma ciò di cui possiamo essere certi è che la voce attraverso un conduttore metallico arrivava sul supporto e lasciava direttamente la propria impronta sonora. Questo credo sia un aspetto su cui si ragioni poco; giorni fa, ascoltando De Lucia, notavo che si sente in questa voce un "palpitare" vivo e fremente, che raramente ho avuto modo di sentire. Magia del grande tenore, ma anche del fatto che nonostante tutto la sua voce, in mezzo a mille rumori e fruscii, arriva a noi quasi in modo diretto. Già il passo successivo, cioè la registrazione elettrica, comporta una serie di passaggi e filtri che tolgono un'enorme fetta di verità al suono originale, e mette tutto nelle "mani" di cavi e apparecchiature, nonché tecnici, che non sono più in grado di restituirci il vero suono iniziale, qualunque cosa si faccia, si dica o si pensi. E, di conseguenza, ogni passo successivo - come la stereofonia - ci allontana dal vero. Il digitale, poi, uccide gran parte del suono, perché non è in grado di recepire e fissare sul supporto tutta l'ampiezza armonica e inoltre trasforma più volte l'immagine originale, criptandola e decriptandola. La "pulizia", la mancanza di quei difetti che tanto impensierivano i vecchi ascoltatori di dischi e cassette, cioè i "tac" e i fruscii dello scorrimento del nastro, certi ondeggiamenti di velocità, molte distorsioni nelle frequenze, sono oggi assenti nei file digitali, nei cd e dvd, ma a qual prezzo? Che avesse ragione Verdi: "facciamo un passo indietro e sarà già un progresso"?

domenica, giugno 17, 2012

La paura degli acuti

Un problema importante e molto frequente che assilla molti cantanti e in particolare i tenori, è la paura degli acuti. Indugiare, esitare, rimanere indecisi e troppo cauti in qualunque zona della gamma può già portare a suoni errati o comunque modesti; se fatto nel settore acuto, porta a suoni sicuramente problematici e se fatto sugli estremi acuti, facilmente a suoni orribili se non a stecche o stonature. Naturalmente all'indecisione sugli acuti ci si mette anche la vera e propria paura di sbagliare e di steccare, e questo porta fatalmente a un risultato scadente. L'unica vera arma contro la paura è la sicurezza, la padronanza, ma il fatto è che la paura si esplica, pur in forma meno accentuata, anche a lezione. Questo può portare a due soluzioni istintive: trattenere o trovare una strada alternativa, che dia più sicurezza. Trattenere è una soluzione un po' più da dilettanti, e il risultato sarà sgradito al pubblico, perché porta a suoni falsettanti, poco sonori e incisivi e alla fine può incorrere anche nella stonatura. La strada alternativa è, pertanto, la soluzione più gettonata, e può essere di varia qualità: ingolare, portare il suono indietro ma in zona velare, nasaleggiare... L'ingolamento, specie se clamoroso, è nuovamente un po' da dilettanti, ma oggigiorno lo si sente fare anche in teatri importanti; il suono indietro è invece meno evidente a orecchie non bene educate, che anzi possono ritenere validi quegli acuti, specie se il soggetto è dotato di un buon volume. Il nasaleggiamento può avere diverse gradualità; se clamoroso è nuovamente un trucco (o operazione inconscia) da dilettante, ma fior di cantanti l'anno usato in modo accorto, appena accennato, magari solo in attacco e via subito, e/o magari solo su certe vocali o in certi punti della gamma (tipo acuti, o zona passaggio), sicché pochi se ne avvedono, o anche nel caso, lo considerano un vezzo e non un grave difetto. La vera soluzione sta in alcuni passaggi essenziali: prima di tutto educare il fiato/diaframma a alimentare i suoni gradatamente, iniziando dal centro; secondo, ricordarsi di due cose: che gli acuti sono un rinforzo del falsetto, quindi alleggerire il suono in modo che la corda possa entrare nell'atteggiamento "sottile", eventualmente dare quel "tocco di colore" che permetta un migliore appoggio (grazie al maggior peso), ma senza dimenticare che il settore acuto è il registro della voce gridata! Sembra di dire un'eresia, ma in fondo gli acuti (ma questo vale anche per alcune note di petto delle donne) sono gridi che grazie allo sviluppo qualitativo del fiato e giusto assetto diaframmatico diventano sempre più gradevoli, ricchi e modellabili per intensità, colore, volume. Se non si impara anche a vincere la paura del grido, cioè se non si ha il coraggio di buttare la voce, questa rimarrà sempre imprigionata e il ricorso all'artificio del suono intubato, raccolto e "girato" in gola, continuerà a essere la soluzione facile e sicura. Questo non porterà mai a quegli acuti franchi, pieni, squillanti, anche "martellati" che sentiamo ancora nelle registrazioni di Lauri Volpi o Tamagno o diversi altri. Per alcuni ci può essere anche un istinto, ma è piuttosto raro. Per tutti gli altri, specie chi è un po' timido, bisogna anche buttarsi, che è un consiglio che, con le dovute cautele, va seguito un po' su tutta la linea del canto, considerando che questo tipo di professione richiede comunque coraggio, un po' di svalderia. Coraggio adunque...!

sabato, giugno 09, 2012

Il sesto senso

Da un sito internet:
Il sesto senso è quell´istinto che aggiusta la rotta dei nostri comportamenti, che ci fa evitare gli ostacoli, bloccarci quando vorremo partire, voltarci all´improvviso mentre attraversiamo la strada, ma è anche ciò che ci fa sentire conosciute persone mai viste, prendere decisioni contro ogni logica. È l´intuizione rapida che collega in una frazione di secondo elementi distanti e fa dire ad Archimede "Eureka" e a Sherlock Holmes "Elementare, Watson".
In un altro sito scrivono: "Secondo voi L'intuito è il nostro sesto senso? secondo me sì..." e poi una pioggia di illazioni, alcune anche piuttosto interessanti, che però non sto a riportare, tranne questa: "ognuno di noi nasce con "doti" (qualcuno direbbe crismi) legati a quando eravamo "uniti" nella luce. ognuno di noi tali "doni" li porta con se quando nasce e le sviluppa in vita (evoluzione) ma di mezzo ci stanno l'ego... e l'Io...". Si può andare avanti a lungo a trovare blog e forum dove si narra di percezioni straordinarie. Poi ecco qualcosa di inatteso: "La bravura in matematica da adulti non si apprende sui libri, ma e' una dote innata." La scienza ha già catalogato un "senso del numero". Ancora: "Il cervello può "sentire" le calorie nel cibo indipendentemente dai meccanismi del gusto, [...] I ricercatori [...] hanno scoperto che il sistema cerebrale della ricompensa è attivato da una sorta di "sesto senso". Un altro sito parla di un sesto senso "magnetico", ovvero una proteina presente nella retina umana sensibile ai campi magnetici. Si potrebbe proseguire; ad esempio molto spazio viene dedicato a una ricerca americana che asserisce che nelle persone cieche si può sviluppare un sesto senso tale per cui riescono a evitare gli ostacoli anche in un percorso sconosciuto (mai visto il film "furia cieca"?). In genere si dice che le persone a cui manca o viene a mancare un senso importante, come la vista, amplificano gli altri sensi (ad esempio l'udito), ma adesso si parla addirittura di sesto senso. Dunque, se leggiamo attentamente, dobbiamo arrivare alla conclusione che di sensi ne esistono a dozzine (effettivamente già gli stessi cinque sensi, a rigore, sono molti di più). La domanda da farsi è: come nascono e come si sviluppano i sensi? Osservazione: se è vero, come è vero (vedi la citazione nel post sull'istinto) che l'uomo è l'ultimo anello dell'evoluzione e come tale ha ereditato qualcosa da tutte le specie animali precedenti, salvo averlo atrofizzato o minimizzato, i sensi sarebbero forse centinaia (pensiamo solo a come si muovono, come cacciano, come si orientano, molti pesci o uccelli). Ma, restando anche solo ai cinque sensi comuni, è evidente che ogni specie animale ha un grado di sviluppo diverso. Addirittura in una stessa razza animale un senso può essere più o meno sviluppato a seconda della "specializzazione". Mi riferisco ad esempio alla vista o all'odorato dei cani, che può variare tantissimo da un cane "da tana" a uno da caccia, o da punta, da combattimento o da guardia. Proverbiale è la vista dell'aquila, a fronte di quella, sempre proverbiale ma in negativo, della talpa. Alle persone piace molto il mistero, l'arcano, e quindi l'idea di un "sesto senso" che ci fa intuire, presagire, profetare, ecc., è molto intrigante, e non si fa caso, invece, a situazioni che, seppur ritenute straordinarie, difficilmente vengono associate a un senso. Facciamo il punto sulla musica, dunque, che è il nostro campo. Quanti, riferendosi a Benedetti Michelangeli, invece che a Arrau o Dinu Lipatti, ritengono che avessero un "senso pianistico"? Non ricordo di averlo mai visto scritto o sentito dire. Ma chiunque si occupi di musica pianistica sa quanto unico sia stato il "tocco" di Michelangeli, o il fraseggio e la dinamica di Lipatti. Dunque, questa rarità, nonostante le migliaia di pianisti in circolazione, a livelli stratosferici, perché non viene riconosciuta come senso? Fare un milione di note in un tempo brevissimo, come scrivere a macchina, cosa che oggi preoccupa maggiormente le aspiranti celebrità della tastiera, in fondo non è così difficile, probabilmente ci riuscirebbe anche una scimmia ammaestrata; ma riuscire, con coscienza, a graduare infinitesimamente il colore o la dinimica di una frase musicale è qualcosa che va molto oltre le pur eccelse doti della stragrande maggioranza dei pianisti. Quindi, come può esistere una vista d'aquila o un udito da gatto o da cane, può esistere una raffinata educazione delle dita, oltre che dell'udito, che permetta di produrre suoni celestiali con uno strumento meccanico. E perché questo senso non dovrebbe coinvolgere la voce? Se esistono uccelli di varie fogge in grado di emettere canti di mirabile bellezza e sonorità, perché tale dote non dovrebbe riguardare anche l'uomo? Tornando alle prime citazioni che ho postato, notiamo due parole: istinto e doti. Esiste un legame tra sensi, istinto e doti? In effetti è così; l'istinto, oltre a controllare le funzioni base della nostra vita vegetativa, controlla i sensi, non solo e semplicemente quelli conosciuti e attivi, ma anche quelli nascosti e dormienti, ed è anche in grado di farne nascere dei nuovi. Qualunque parte mobile del nostro corpo è in condizioni di svilupparsi oltre le normali funzioni conosciute fino a un livello inimmaginabile. Quando e perché? Come condizione essenziale perché ciò avvenga è necessaria una esigenza che vada oltre i normali bisogni esistenziali, ovvero sarebbe necessario un mutamento dell'ambiente esistenziale tale per cui l'uomo, per poter sovravvivere, necessiti dello sviluppo di un nuovo senso. Se ad esempio improvvisamente, pur mantenendosi le attuali condizioni vitali, venisse a mancare la luce, l'uomo dovrebbe sviluppare altri sensi, come l'udito e addirittura un senso radar. Alcuni possiedono già un "dono", una predisposizione particolare (cioè nel loro caso l'istinto ha tenuto le "briglie allentate"), e se la caverebbero meglio e più in fretta di altri; altri riuscirebbero, con l'applicazione, la volontà e lo studio, a sviluppare più o meno questi sensi, molti altri soccomberebbero. Questo vale per tutto. L'istinto è sensibile ai bisogni della specie e del singolo. I bisogni della specie sono contenuti nella memoria storica. Questa è fondamentale per la sopravvivenza di ogni specie. Perché un certo animale caccia certi altri animali? Perché la tartaruga marina, pur in assenza dei genitori, appena uscito dall'uovo va verso il mare e non a zonzo per la spiaggia? E lo stesso vale per migliaia di altre situazioni; evidentemente perché esiste una memoria storica nel cervello istintivo che, fin dalla nascita, guida determinate azioni e comportamenti ai fini della sopravvivenza la più ampia possibile di ogni soggetto ai fini della perpetuazione della specie. Anche l'uomo ha dei comportamenti che possono risultare incomprensibili; paure, riserve, fiducia, ecc., nei riguardi di cose e luoghi, che appaiono strani considerando che possono non averli mai visti e conosciuti, e il motivo di tali comportamenti risiede appunto in quel confronto che la mente svolge di continuo con quanto contenuto nella memoria storica (una parte è anche dedicata alla memoria infantile). Queste memorie non sono trasparenti e coscienti, sono fissate nel profondo, quindi è logico che si ritenga incomprensibile e misterioso ogni comportamento non legato alla razionalità, ma in realtà è razionale, solo che manca alla coscienza e alla pubblica ragione il termine del raffronto. Dunque, l'istinto, che non è da considerare un meccanismo rigido e automatico, ma una mente vera e propria, ha in sé anche i "bottoni" per poter attivare i sensi non attivi o addirittura nuovi. Ovviamente il primo input per poter addivenire a questo incredibile risultato è quello del bisogno, dell'esigenza. Teoricamente dovrebbe essere un bisogno esistenziale, vitale, il che è piuttosto raro (questa è la spiegazione del perché il m° Antonietti ha raggiunto quel livello di arte e consapevolezza, che lui stesso arrivò a comprendere, segno, per l'appunto, di un grado di coscienza strepitosa), ma questo è anche un elemento che può esistere in noi indipendentemente dal contesto esterno. Quando parliamo di "doti", solitamente ci riferiamo alla capacità di svolgere una certa attività anche senza particolari studi, o comunque con molta maggiore facilità rispetto a molti altri (quindi si definisce: capacità istintiva), mentre raramente si parla di doti verso chi, possedendo o meno queste notevoli capacità innate, sente una spinta forte a dedicarsi a una o più attività e fare di tutto e di più per riuscire a conquistare una capacità eccelsa in quella disciplina. Il fatto che queste due doti spesso non vadano di conserva, crea delle situazioni spiacevoli: persone di grande competenza ma poco o nulla popolari e particolarmente piacevoli nell'esternazione di quell'Arte, altre dotate di grandi mezzi ma che restano alla superficie e spesso perdono anche quei doni (ad es. i bambini prodigio). Per poter accedere all'arte è indispensabile la prima caratteristica, cioè il bisogno interiore di promozione a un livello di conoscenza elevato. Questo bisogno però si scontra con un altro, pesantissimo, ostacolo, anch'esso riportato in una citazione sopra: l'ego. E', in fondo, anch'esso una propaggine del nostro istinto, perché noi dobbiamo considerare che l'istinto in fondo basa il proprio funzionamento su pochi semplici elementi; uno di questi, ed è quello che più ci ostacola, è il minimo impegno. L'uomo, in ogni cosa, è guidato a fare la minor fatica, a consumare il meno possibile. Sembra un paradosso, ma l'uomo lavora, contrariamente a tutte le altre specie, per faticar meno! L'uomo produce oggetti e servizi che servono a lavorare e faticare meno; infatti, rispetto al passato, noi abbiamo sempre più macchine e orgazzazioni che hanno fondamentalmente lo scopo di procurarci minor fatica. Siccome questo potrebbe condurci a una atrofizzazione, siamo anche spinti a fare attività fisica, ma nonostante ciò i problemi della sedentarietà sono evidenti e piuttosto seri. L'ego è una sorta di istinto che ci porta a esaltarci per determinate azioni proprie magnificandole come esaltanti e riuscendo, proprio in virtù di questa intima convinzione, a convincere molti altri, ovviamente in condizioni di ignoranza piuttosto evidenti.
Abbiamo quindi da una parte un istinto che ci ostacola nel canto perché questo è visto come una minaccia per la respirazione e una fatica inutile perché non utile alla vita e sopravvivenza della specie, dall'altra parte abbiamo una esigenza interiore (magari non tutti, ma insomma, se si studia canto con volontà e desiderio...) di promuoverci artisticamente a un elevato livello e quindi potremmo attivare quella potenziale possibilità insita in ogni specie vivente di sviluppare un nuovo senso, che nel nostro caso sarebbe il senso fonico. Se riusciamo a superare il grosso ostacolo dell'ego, questa possibilità può entrare nel novero dei requisiti di un individuo e a quel punto sarà fatale un indebolimento e quindi una sparizione degli ostacoli posti dall'istinto, avendo egli riconosciuto una esigenza esistenziale nel canto, e quindi avendo assunto "dalla sua parte" il canto, che a quel punto non avrà più bisogno di allenamento, perché venuti a mancare i presupposti stessi dell'allenamento, che sono quelli di mantenere una condizione che di solito non resta, perché è l'istinto che si riprende il concesso. L'unico elemento che deve essere riportato alla giusta condizione sarà sempre il fiato, perché ogni volta che si smette di cantare l'istinto lo riporta alle condizioni minime necessarie, sempre per il minimo consumo, ma resta un esercizio di pochi minuti.

domenica, giugno 03, 2012

Tito Schipa docet...

Dal poco che sappiamo, sembra che Schipa non sia stato un insegnante straordinario come potrebbe far pensare la sua formidabile emissione e carriera. Ci si dedicò solo per poco tempo a fine carriera, forse più per necessità che per volontà, anche se dell'intenzione di aprire una scuola ne accennò frequentemente fin dagli anni d'oro. Dopo la ri-lettura della sua biografia curata dal figlio - che a parte tutto consiglio perché è anche un libro molto piacevole e appassionante benissimo scritto - traggo il pensiero che per noi Schipa è stato anche un ottimo insegnante se non altro per due motivi: l'esempio magistrale documentato in centinaia di registrazioni che se non possono restituirci che una pallida idea di cosa sia stato questo superbo cantante in teatro (ma comunque, da cosa diceva il M° Antonietti, che ebbe la fortuna di sentirlo, decisamente più riconoscibile e fonogenico di molti altri) sono comunque una guida formidabile verso un canto realmente artistico, nobile, elegante, privo di gola, di effettacci, di spinte, di volgarità, e invece straordinaria emissione sul fiato di enorme impatto sonoro in qualunque realtà. Il secondo motivo sta nelle poche parole che conosco dette da lui in diversi contesti su cosa sia il canto. Non so se esistano dichiarazioni e commenti più lunghi ma tre frasi a mio avviso sarebbero da scolpire sui muri di qualunque aula ove si insegna il canto: quella tratta da un film interpretato da Alberto Rabagliati (1), quella che colpì e illuminò Magda Olivero, in più occasioni riportata (2), e quella citata in un'intervista, e che riporterò più sotto (3). Schipa ebbe un maestro severo e intransigente, Alceste Gerunda, un ottimo preparatore e sostenitore, Emilio Piccoli, ma sopratutto un'intelligenza musicale, una capacità di intuire e di resistere allo stimolo di gonfiare, spingere ingrossare, pompare, che è davvero ammirevole e forse la sua più grande virtù, se consideriamo i calibri accanto a cui cantò soprattutto nella prima parte della carriera, e i ruoli che affrontò spavaldamente e con successi inimmaginabili (si pensi solo al trionfo stellare in Tosca al San Carlo di Napoli o in Sicilia quando non era ancora nessuno - e che lo portarono di colpo nell'olimpo dei più grandi del tempo, e sappiamo di chi si trattava...). Dunque, le frasi magiche furono:
1)
2) "Le parole sono piccole. Le vocali si formano sulle labbra. Cadono sulle labbra ed è il fiato che le fa correre".
3)"...appena la voce tende a salire nei registri acuti non c'è cantante sia pur bravo, a pronunciare chiaramente... Nei registri acuti il cantante per poter emettere suoni sicuri e gradevoli, ricorre a "impostazioni" speciali della voce che non lo costringono a sillabare: cerca, cioè, d'evitare alla gola le contrazioni della parola e si riduce a vocalizzare. Imprescindibile necessità meccanica... Nella musica moderna l'ugola è trattata come un qualsiasi strumento e se da questo con la meccanica si può trarre i suoni che si vogliono, non si può fare altrettanto con l'ugola."
Cosa si può aggiungere a tale limpida visione di cos'è il canto e dei suoi mali? Purtroppo c'è da aggiungere una cosa... che richiede milioni di parole e ancor non bastano! Il maestro fa sintesi, "laserizza" i concetti, ma la cosa più difficile è insegnare, cioè arrivare al risultato incredibilmente difficile di sostenere la parola fin sugli acuti (oh, ma guarda, questo concetto è proprio quello che i saccenti e i sapientoni che credono di aver capito qualcosa di canto leggendo qualche vecchio trattato senza aver alcuna coscienza di cosa sia realmente il canto contestano...). Se Schipa pensava di poter insegnare facendo parlare musicalmente anche sugli acuti, sono tristemente consapevole che sarà andato incontro a cocenti delusioni, non per nulla un altro che ci provò, avendo doti da vendere, Giuseppe Di Stefano, doveva proprio imbattersi nel muro che si erge quando si cerca di commutare le funzioni fisiologiche in artistiche senza una disciplina opportuna. Purtroppo di Gerunda sappiamo troppo poco per poter dire se avesse o meno conquistato un'arte nel canto e nell'insegnamento tale da poter mettere Schipa nelle condizioni che sappiamo, o se si sia trattato solo di una fortunatissima combinazione. Quel che sappiamo è che Schipa studiò molto e giunse a una consapevolezza se non altro di cosa E' il canto se non di come si arriva a possederlo, che è prerogativa di spiriti tenaci e votati al martirio, come forse solo Antonietti c'è stato; più passa il tempo, più verifico questa triste realtà. L'uno e l'altro hanno compreso come nei gialli più intriganti e appassionanti tipo Il codice Da Vinci, che la verità non è necessario andarla a cercare in chissà quali tecniche, in chissà quali scoperte scientifiche, ma è esattamente di fronte a noi, dove è sempre stata e dove tutti hanno potuto vederla e girarci attorno per milioni di anni. Appunto perché così in mostra, nessuno, o quasi, crede che sia così. Ma anche questa semplicità e ovvietà nasconde la necessità di un tempo incredibilmente lungo per appropriarsene, di strategie, concentrazione, intelligenza, volontà, psicologia e tenacia certosine per conquistarla. Caratteristiche decisamente fuori da questo tempo, ma chissà...
Un'ultima annotazione, che mi lasciò esterrefatto quando la appresi. Pochi anni fa è stata pubblicata un'opera omnia del patrimonio registrografico di Schipa. Molti inediti, curiosità... ma in mezzo a queste perle, una in particolare mi ha colpito: un cd di esercizi; pubblicato in america "imparate a cantare con Schipa", anticipa un po' quelle dispense che si trovano in edicola o nei negozi di musica della serie "suonare la chitarra (o altro strumento) facilmente". Sull'utilità di queste lezioni resto ovviamente più che scettico, perché senza controllo ognuno può fare ciò che vuole pensando di fare bene, e invece andare incontro a errori clamorosi. Ma ciò che colpisce sono gli esercizi! La maggior parte sono del tutto identici a quelli già proposti dal m° Antonietti. Sono del tutto sicuro che il nostro nulla sapesse in merito a questa uguaglianza di intenti (incredibile il "bro bro", che assegno spessissimo ai miei allievi), ma sono la riprova di una coscienza artistica universale. E infine, ascoltando questi esercizi eseguiti dal sommo Schipa, ancora una volta non posso che esclamare: che bravo!

sabato, giugno 02, 2012

A leva di pompa o a manico di secchio?

Tornando per un momento alla respirazione e più precisamente a quella che noi indichiamo come "integrazione respiratoria", cioè quella fase successiva all'iniziale, quando le reazioni e le spinte organiche possono essere vivaci e deleterie ed è quindi possibile passare a una respirazione più idonea all'alimentazione di suoni vocali, notiamo che la respirazione toracica, detta "costale" - senza necessariamente giungere a quella che indichiamo come artistica eccellente o galleggiante - può essere eseguita in due modi, che sono noti con le terminologie usate nel titolo. Se pensate a un vecchio pozzo con la sua pompa a leva, credo non sia difficile cogliere l'analogia tra, appunto, la leva e il sollevamento dello sterno. Con questo tipo di meccanica, il torace tende a sollevarsi e a "carenarsi" cioè appuntirsi in avanti, il che vuol anche dire che tende a stringersi lateralmente. Se poi, invece, pensate a un normale secchio e a come si muove il manico, vincolato ai due lati, si comprende, in analogia, come tutta la gabbia toracica possa sollevarsi senza avanzamenti e restringimenti. In quest'ultimo modo, i punti di interesse risultano essere le ascelle, che si comportano come i punti di ancoraggio del manico. Questo secondo modo di atteggiarsi è secondo noi più corretto e funzionale all'emissione vocale, in quanto si favorisce quella posizione dei polmoni a "pallone da rugby" che facilita molto la respirazione "rubata" e riduce gli appoggi che invece risultano ancora evidenti col primo sistema, dove oltretutto si va a premere troppo in zona epigastrica, mentre con la respirazione a manico di secchio si utilizzano in particolari i muscoli dentati laterali, che danno anche minori problemi di compressione degli organi interni.