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giovedì, ottobre 30, 2014

Della Natura umana

La voce non ha bisogno di "tecniche" per essere educata, non essendo uno strumento "meccanico", ma frutto del pensiero, della creatività, dell'intuizione, della fantasia. Tutt'al più è necessario uno studio, che possiamo definire tecnico, per l'esercizio e l'apprendimento del linguaggio stilistico-musicale.

Natura: il sistema totale degli esseri viventi, animali e vegetali, e delle cose inanimate che presentano un ordine, realizzano dei tipi e si formano secondo leggi. 

La semplice immagine a sinistra ci ricorda la suddivisione generalmente accettata: regno inanimato e regno dei viventi, suddiviso in animale e vegetale. La vignetta, nello spazio "animale" non inserisce l'uomo, mentre analoghi grafici presenti in internet, soprattutto a scopo didattico, lo prevedono. Qui già si potrebbe porre un interrogativo. Prima di rifletterci facciamo un'altra domanda: cosa sta fuori da questo insieme? Ovviamente ci sta tutto ciò che ha realizzato l'uomo fin dalla sua apparizione: oggetti, invenzioni, ma anche modificazioni della natura stessa, come gli incroci di piante e animali e quindi anche tutto ciò che rientra nell'arte, sia nell'accezione esteriore, quindi il manufatto, qualora lo sia, sia - fondamentalmente - il pensiero che sottende. La successiva domanda è: a quale insieme appartiene la natura più ciò che sta fuori, cioè l'opera umana? Mi permetto di suggerire: alla Conoscenza. Ognuno però può portare le proprie argomentazione a sostegno di tesi diverse. Detto ciò torno alla questione della posizione dell'uomo in questo insieme. Che faccia parte della Natura e del regno animale, non c'è dubbio. Ma può darsi che egli stia a cavallo di due ambiti? A mio avviso sì; se tutto ciò che sta fuori dell'insieme "natura" è frutto dell'uomo, mi pare piuttosto logico che anche l'uomo, almeno in parte, appartenga a questo settore, che rientra peraltro nel più vasto ambito della Conoscenza. Il riferimento alla Natura Umana, pertanto, può verosimilmente far capo alla specificità di un Essere che pur appartenendo in gran parte al regno animale, possiede un quid (che possiamo sintentizzare in "pensiero") che gli permette di interagire e anche modificare alcuni aspetti dei regni naturali e di produrre, o meglio, creare, opere concrete ma anche del solo pensiero, che vanno a collocarsi in un ambito extranaturale, che talvolta chiamiamo 'artificiale', altre oggetto d'arte o d'artigianato, o del pensiero, ecc. Molto spesso la collocazione in un ambito in un altro assume un valore dispregiativo o qualificante. Se dico che un oggetto è "artificiale", in genere ne sottolineo un aspetto di distacco dall'uomo e dagli altri elementi della natura. Se dicessi che un quadro è "artificiale", sicuramente verrebbe preso come una critica negativa, mentre un qualunque oggetto o frase, se dicessi che è un'opera d'arte, lo valorizzerei molto. Eppure, a ben pensarci, le due cose collimano, ma qualcuno potrebbe dire che l'arte è "naturale". E perché? Si potrebbe dire che lo è perché frutto dell'uomo, che è un essere naturale, ma a questo punto o tutto ciò che è fatto dall'uomo rientra nel naturale, oppure no. Alcune operazioni possono rientrare nella naturalezza, cioè tutto ciò che non è orientato a modificare temporaneamente o permanentemente le caratteristiche di ciò che esiste. E infine possiamo dire che l'uomo, almeno in piccola parte, fuoriesce dall'insieme del regno animale della natura, in quanto ha compiuto modificazioni permanenti su di sè. Il fatto che tramite l'assunzione di farmaci e pratiche di vario genere possa vivere più a lungo di quanto non accadesse anche solo pochi anni fa, possa guarire da malattie e incidenti, possa svolgere attività superiori ai propri mezzi, come spostarsi su terra, mare cielo, comunicare a grandi distanze, ecc., lo pone al di fuori di quel quadro.


Se fate una rapida ricerca su google in relazione a "natura umana", vi si apriranno un numero considerevole di link. E' un campo molto ampio e tocca gli ambiti più disparati e soprattutto si inserisce in un dibattito alquanto acceso. A me non interessa in questa sede entrare in merito al dibattito, però ci sono questioni che riguardano molto da vicino il canto, dunque non posso astenermi dal fare qualche considerazione.
Comincerò con una visione un po' generale delle scuole di canto. L'approccio delle scuole all'insegnamento della vocalità è di due tipi, (di cui uno scisso): tecnicismo e naturalismo; l'approccio tecnicistico può essere di tipo sensorio o meccanicista. Altro dato da mettere sul piatto: il naturalismo.

Raccordandoci con la premessa, la domanda è: può esistere un canto realmente "naturale"? No, il canto è frutto del pensiero; la stessa parola è in relazione con la quota "conoscitiva" dell'uomo, non con la sua appartenenza al regno animale, o, anche fosse, si tratterebbe di un canto assimilabile a quello animale, bello o brutto che sia (e il solo fatto di qualificare ci pone in ambito sopranaturale). Poniamoci in un'ottica più possibilista e proseguiamo.
L'antitesi tra scuole tecniche e naturali non ha ragione di esistere se non definiamo meglio cosa si intende con canto naturale. Nell'opinione pubblica legata in qualche modo (o per fruizione o per attività amatoriale o professionale) al mondo del canto, la terminologia "canto naturale" è generalmente riferita a un canto spontaneo, dove non vi è stato nel tempo alcun apporto di tipo educativo o correttivo. Potremmo dire, quindi, un canto basato sul semplice parlato intonato su una melodia. Possiamo riferirci per esempio al canto in chiesa, sia assembleare che dei semplici cori parrocchiali privi di una scuola. Il passaggio di un canto siffatto a un procedimento educativo di qualsivoglia genere, vuoi per migliorare una dizione affetta da evidenti cadenze dialettali, vuoi per fornire una più efficace respirazione di base, è da considerare tout cour un trascendimento della cosiddetta naturalezza, perché anche la semplice attenzione che un insegnante induce in un cantante rispetto al proprio modo di emettere la voce, lo pone in una condizione per cui non si sentirà più libero (e pur non essendolo comunque!) di esprimersi vocalmente con naturalezza. Le asperità, le imprecisioni tonali, le storture testuali, le difficoltà di tessitura, di fusione con altri strumenti o cantanti, di cui un soggetto è all'oscuro, e che lo pongono in una condizione di tranquillità e di relativo piacere, vengono rapidamente meno, perché ogni errore segnalato diventerà una ossessione. Soprattutto, una volta apertosi il vaso di pandora, il soggetto si sentirà in grave imbarazzo per tutto ciò che commette e che sempre più vivrà come un dispregio alla cultura musicale e canora. Fortunatamente questi soggetti si sentono sufficientemente confortati dal fatto che, frequentando adesso una scuola, auspicano di colmare queste lacune e di potersi inserire più responsabilmente e pertinentemente in quel mondo. Scuola di canto naturale è una contraddizione in termini; se c'è una scuola, il canto non può più essere naturale, dunque si tratterà di un canto che evita determinate strade, quelle meccanicistiche e sensoriali, e questo è già buono, ma qualcosa dovrà fare e questo qualcosa "sviluppa", corregge, modifica, interviene sul suono naturale e di conseguenza lo porta a livello superiore (si spera) con una aumentata presa di coscienza di ciò che era e di ciò che è diventato. Anche questo fattore di consapevolezza (che è informazione ma anche sviluppo conoscitivo) si pone a un livello sopranaturale.
Con questo possiamo giungere al nocciolo della questione. Dal momento che l'uomo non si accontenta, per determinati scopi e in determinati ambiti culturali, di ciò che la natura ha fornito, metterà in atto delle azioni allo scopo di raggiungere un livello superiore di soddisfazione proprio e altrui, non dettato semplicemente da caratteri di esteriorità e piacere sensoriale, ma di soddisfazione e appagamento interiori. Qui entra in gioco la natura UMANA. Se noi parliamo in termini generici di natura e facciamo rientrare l'uomo in questo insieme, lo consideriamo parte di un tutto eco-biologico all'interno di un sistema formato da esseri ed elementi inanimati ed esseri viventi in un (fragile) equilibrio interattivo. In questo quadro non esiste e non può esistere alcuna funzione artistica, che avrebbe peso zero su questa bilancia, non apportando e non togliendo niente al sistema. Ecco che quindi, e fin dall'antichità, si è dovuto far ricorso a un termine specifico "natura umana" per indicare una singolarità, una peculiarità dell'uomo non condivisa e non trasmissibile geneticamente e non riproducibile in altri esseri e in altre forme meccaniche. Allora se diciamo che il canto appartiene alla NATURA UMANA, ecco che ci ritroviamo e tutto torna a posto. Purtroppo questo concetto non trova tutti unanimementi concordi, non è chiaro e noto a tutti, e a non tutti è chiaro cosa ci sta dentro e cosa no.

Ultima cosa: in che posizione si trova il famoso istinto, che la mia scuola di canto individua come principale causa della difficoltà al raggiungimento di un risultato vocale esemplare (ma che non ha niente a che vedere con il concetto di natura "matrigna")? A questo punto è semplice: l'istinto è a tutti gli effetti un elemento appartenente alla Natura, non alla natura UMANA, cioè non rientra nella sua sfera l'attività che il soggetto compie al di fuori della sua appartenenza al regno animale, cioè ciò che è frutto ed espressione del pensiero, della creatività e della Conoscenza al di fuori dell'ambito dell'ecosistema e quindi è fatale e normale che lo ostacoli per deficit di informazioni. Se noi forniamo dati utili, ecco che anche l'istinto comprenderà e permetterà ciò che non poteva sapere, ma lo può fare anche grazie al fatto che il canto esemplare è presente in una natura POTENZIALE (non so se abbia qualche riferimento a una non meglio definita "seconda natura" di cui ho scorto tracce in internet), cioè una condizione "dormiente", perché non utile alla condizioni attuali dell'uomo, ma che potrebbe svegliarsi in una condizione imprevedibile ma non impossibile.

domenica, ottobre 26, 2014

Pronuncia e amplificazione 2

CONTINUAZIONE DEL POST PRECEDENTE, DA LEGGERE PRIMA...

Come in molti casi, la storia della voce e del canto e l'intuizione artistica ci portano a comprendere qual è la verità di un canto esemplare, e cioè di NON CERCARE una soluzione artificiale, pseudo scientifica, intellettualistica del problema amplificante, ma consentire al nostro corpo di svolgere i compiti cui è preposto senza interferire. Da qui si potrebbe pensare un mio avvicinamento o adeguamento alle scuole "naturalistiche". Il mio pensiero in merito è sempre stato molto chiaro: il canto non è naturale, ma lo è POTENZIALMENTE. Il canto non serve alla vita "animale" dell'uomo, come non serve alcuna arte, che devono, pertanto, essere conquistate disciplinando il corpo o la parte del corpo a quella determinata pulsione artistica. Questa dichiarazione non deve essere arbitrariamente intepretata come un avvicinamento a teorie meccaniciste, scientifiche o variamente tecnicizzate, peraltro mi sento di dichiarare che, nella discussione, in fondo sono più "naturalista" dei naturalisti. Infatti il mio punto di vista, ovvero della mia scuola, è che è una conoscenza profonda di come siamo fatti, di quali motivazioni stanno alla base delle difficoltà nell'affrontare una determinata attività, delle osservazioni storiche anche di tipo pubblicistico e registrografico, che portano alla soluzione che consiste nel permettere al nostro corpo di modificare i propri comportamenti nei riguardi di una nuova necessità e non nel pretenderla coercitivamente; la soluzione naturale non è quella di estorcere dal nostro corpo dei risultati forzati, di dare il 150%, ma al contrario, di stimolare uno sviluppo GIA' PREVISTO, presente, ma occulto, non manifesto perché non gradito dal nostro sistema di funzionamento che non ama modificare o aumentare l'impegno complessivo o di parte dei propri apparati. Dunque, cosa c'è di più naturale, nell'uomo, della parola nel manifestare la voce? Niente, perchè il "vociferare", cioè emettere suoni inarticolati è proprio delle altre specie animali. Se gli animali possono emettere suoni di grande intensità e capacità diffusiva, perché la natura avrebbe moderato, limitato questa possibilità nell'uomo nel donargli una possibilità in più, quella del parlato? Se vogliamo credere nella superiorità dell'uomo rispetto le altre specie, non possiamo non credere che questa sua prerogativa, il parlato appunto, non abbia un valore, una qualità ma anche una potenza "in sé" superiore che gli permetta come e più di ogni altro animale di farsi valere in ogni condizione. E' quello che, senza forzature, desumiamo dalle registrazioni e da scritti e pensieri lasciati da valenti maestri del passato; poco ci riguardano invece quelli di personaggi anche celebri che non si sono contraddistinti per il loro carattere didattico e della diffusione di un pensiero artistico.
Il pensiero che ci conforta è che la parola ha in sé un potenziale sia di significato che di significante in grado di richiamare l'attenzione di chi ascolta. Manca la disciplina per lo sviluppo, la quale NON PUO' passare per altre strade, quindi, riportandoci all'inizio del post precedente, non è come si produce il suono ciò cui bisogna prestare attenzione, ma cosa abbiamo come risultato. Pensare di mettere insieme volontariamente la parola con l'amplificazione, non può portare che a un "divorzio", una divisione, uno scollegamento tra l'uno e l'altro. Siamo dotati di un apparato che è nel contempo articolatorio e amplificante, se io voglio o penso di esaltare in qualche modo il secondo, distruggerò il primo e viceversa. Questo per dire che anche la cura della parola non è casuale o esaltatrice di effetti, perché come giustamente si osserva, si può giungere a declamazioni, a schiacciamenti, a storture foniche e semantiche del tutto inappropriate. Quindi, per concludere: la parola è parola, ed è su quella che si deve basare la disciplina. La pronuncia è AVANTI, e non è possibile, è sbagliato, deleterio, non bio-logico, pensare o tentare di pronunciare correttamente, nel canto come in altre attività cercando un'amplificazione in altri luoghi, siano essi "la maschera", la gola, il torace o dove altro si possa pensare. La parola si amplifica da sé, in quanto frutto di un processo evolutivo che non possiamo credere essere limitativo. L'amplificazione della parola nel canto è il massimo che l'uomo possa esercitare vocalmente, ed è già compresa nell'uomo, occorre esercitarla, e quindi svilupparla, con pazienza e tenacia NON CERCANDO, NON COSTRUENDO, NON SPINGENDO o GONFIANDO, ma con la semplicità, la pazienza e soprattutto TOGLIENDO da essa tutti gli errori, le distrazioni, le enfasi, le storture di un'accentazione impropria, gli "arrotondamenti", i biascicamenti, le "uniformazioni" che altro non sono che maldestri escamotage per cercare strade facili (non semplici) per risultati rozzi o incompleti. Solo persone prive di pregiudizi e buona disposizione all'ascolto e al dialogo possono imboccare questa strada. Le altre è meglio che seguano altri percorsi.

Pronuncia e amplificazione

Perché tante persone che si occupano di canto lirico restano dubbiose se non contrarie o addirittura ostili all'ipotesi di un'educazione vocale, quindi respiratoria, basata sulla pronuncia? Checché ne dicano i sapientoni, tutti i trattati antichi sul canto e il suo perfezionamento passano attraverso dizione, parola, "acconciatura" della bocca. Dunque come si spiega questo allontanamento dalla fonte principale e "madre" dell'arte vocale? E' abbastanza semplice, riflettendoci un po'. A partire dalla fine dell'Ottocento e via via sempre più salendo lungo il Novecento, il ruolo della gola, degli spazi oro-faringei, è stato sempre più oggetto di interesse e coinvolgimento da parte dei cantanti e delle scuole di canto, soprattutto a causa della continua osservazione da parte degli studiosi scientifici del fenomeno canto, che non hanno studiato (forse perché non ne hanno modo) il fenomeno vocale nella sua unicità e complessa unitarietà, ma nelle sue parti singole e staccate, concentrandosi in particolare sul funzionamento della laringe. E' avvenuto quindi che l'interesse dei cantanti e degli insegnanti si è spostato dal risultato (cioè l'emissione) alla meccanica produttrice, e tradendo, in fondo, proprio un principio naturale, cioè che l'uomo ha già in sé le potenzialità per raggiungere un canto ideale, quindi andando a modificare volontariamente spazi e posture interne, si demolirà sistematicamente un complesso già perfetto nella relazione tra le parti, solo da sviluppare nella sua componente amplificante e musicale. Ma il problema, per l'appunto, che tutti inseguono maniacalmente, è l'amplificazione. Come è noto per molto tempo [parliamo sempre di tempi recenti, però], sempre a causa delle superficiali analisi scientifiche, si pensò che il sistema migliore per amplificare la voce fosse quello di inviarlo nelle "cavità superiori", cioè seni nasali, sfenoidali, frontali, ecc., definendo questa pratica "immascheramento" del suono. Celletti ne era il sommo diffusore. Una congerie pasticciata di teorie e analogie col mondo strumentale meccanico assolutamente in contrasto con ogni bio-logica e ogni semplice osservazione di come funzioniamo e come siamo fatti. Fu, tra l'altro, il motivo di rottura con il mio primo insegnante, che a suon di incitazioni a mettere il suono in alto, tra gli occhi, nella fronte e così via, mi suscitò una domanda: ma da dove esce? E la risposta non poté che lasciarmi basito: "dagli occhi, dalla pelle, ecc."
Se cominciamo a escludere che la voce possa uscire dalla bocca, già siamo su una cattiva strada. Ma anche ammettendo ciò relativamente a "suoni" astratti, il principio va in frantumi quando ci si pone nella necessità di articolare le parole. Come si fa a pronunciare una parola (e la pronuncia non può fare a meno dei movimenti delle parti orali: labbra, lingua, mandibola...) quando il suono che la sostiene è in un altro posto, cioè, secondo costoro, nelle "cavità superiori"? Vivono da divorziati, separati in casa? No, questa teoria cominciò presto a far acqua - nonostante sia fortemente sostenuta ancor oggi da molti cantanti di quell'epoca - che non hanno sentito che è caduto il muro di Berlino - e gli stessi foniatri tornarono sui propri passi dicendo che il suono nel naso non va bene - e nonostante alcuni addirittua sostengano che la voce deve risuonare nel naso!  - anche perché le stesse pareti di quegli spazi tendono ad assorbire il suono. I tanti cantanti nei masterclass in cui propinano queste idee e gli insegnanti ancora in auge che scelgono questa strada, devono per forza sottostimare la pronuncia, tecnicizzando la voce esclusivamente sulle vocali e "uniformando" (mon Dieu) le vocali internamente (in pratica sulla U) e di fatto uccidendole, e di conseguenza uccidendo il canto.
Si tornò in molti casi a indicare la bocca e le zone dentali superiori come corretto punto focale del suono vocale. Ma questo non soddisfaceva molti che cercavano di raggiungere il massimo potere amplificante, e non sembrava questa una soluzione né rapida né intellettualmente valida. Ciò che sembrava mancare in questa modalità era la presenza di spazi proporzionati al risultato: uno strumento è valido se possiede una proporzionata cassa di risonanza amplificante. Visto che l'idea degli "spazi superiori" sembrava non adeguarsi al funzionamento complesso dello strumento vocale, si andò verso quello più prossimo, cioè lo spazio faringeo o, nel migliore dei casi, quello oro-faringeo, cioè, "parlando come magnamo": bocca e gola. Questi SONO spazi, quindi che ci sarebbe da fare? "Allargarli al massimo", han cominciato a dire; più spazio c'è più la voce si amplifica. Qui si innesta la strada in parte già percorsa dagli eredi di Garcia, il quale osservò che nel colore oscuro la laringe scendeva e lo spazio sopraglottico si ampliava. Allora fu tutt'uno coniugare il colore oscuro alla voce ampia e sonora. Il che è vero, almeno in parte, perché il colore oscuro provocando un sensibile abbassamento della laringe, consegue anche un abbassamento del diaframma e quindi un drastico appoggio, che procura suoni forti e timbrati. Il che non significa che essi siano "i più" sonori e vocalmente validi, anzi, non lo sono affatto, ma questo è un risultato commercialmente valido, perché in poco tempo soddisfa i palati più a buon mercato, i malati di ego-narcisismo e così via. Non tanto dissimile è la scuola cosiddetta dell'affondo, che ottiene risultati ancora più maiuscoli mediante spinte verso il basso, che da un lato aumentano l'appoggio diaframmatico, dall'altro, con l'abbassamento della laringe, provocano una dilatazione del faringe, quindi un maggior spazio in gola.
A parte le tantissime obiezioni che si possono fare a tutte queste tecniche, due ci premono: innanzi tutto la semplice osservazione che la dilatazione volontaria degli spazi oro-faringei provoca scurimento del suono, perché è una legge fisica che a maggior spazio corrisponde un colore sonoro più scuro. Questo è stato by-passato imponendo l'assurdo concetto che la lirica vuole suoni scuri, e in particolare le voci drammatiche. Andate a guardare le cronache musicali del 1900: Tamagno era considerato il più grande tenore drammatico dell'epoca; ascoltate la voce di Tamagno nelle registrazioni rimaste e considerate che questo tenore cantava abitualmente opere come Guglielmo Tell, e poi traetene qualche considerazione. Si pensa che la scuola del Garcia abbia di fatto dato vita alla stagione del colore oscuro, ma non è vero, infatti dopo oltre mezzo secolo le voci imperanti cantavano tutte ancora con perfetta dizione e colore chiaro. Questo perché oggi si vuole "interpretare", come al solito, il pensiero dei trattatisti antichi senza considerare i riscontri pratici. L'altro inganno è stato l'incolpevole Caruso, che ci ha lasciato soprattutto un patrimonio discografico in cui sentiamo quasi sempre un tenore scuro e dove il repertorio è prevalentemente di forza, o drammatico. Ma chiunque conosce un po' la storia del canto sa che Caruso era un tenore lirico di grazia, dotato di un accento drammatico (che è altra cosa) formidabile, e che trovò nella registrazione discografica, anche pionieristica, un mezzo fantastico di esaltazione di sé stesso, con un uditorio sterminato e oltre i limiti del teatro, infatti alcuni ruoli non li affrontò, o solo sporadimente. Caruso cantava con timbro chiaro e ottima dizione, come tutti i suoi coetanei, ma ciò che nel 90% dei casi per un cantante è una tragedia, cioè un'operazione chirurgica in gola, per lui si dimostrò una miniera d'oro! A causa dell'operazione e di un ispessimento dei tessuti che ne conseguì, il suo timbro si scurì naturalmente; questo ebbe un felicissimo esito soprattutto in sede discografica, perché la sua voce risultava molto più drammatica e ricca di quanto non avvenisse in teatro, pur mietendo grandi successi, giustamente, perché era un "animale da palcoscenico", dotato di una grande forza teatrale; da quel punto di vista il suo successo non avrebbe avuto particolari differenze se non ci fosse stata l'operazione di mezzo, ma l'incredibile successo dei suoi dischi portò a quella notorietà mondiale che ne fece un divo incontrastato (e ricchissimo). Dall'altro canto provocò, come sempre in questi casi, l'imitazione da parte di chi voleva replicare quei risultati di notorietà. Persino un tenore formidabile come Martinelli, che aveva ben poco da invidiare al collega, cercò artificialmente di scurire il proprio timbro. E di qui, pertanto, non da Garcia che non c'entra niente, iniziò la rincorsa al popolare e vincente colore scuro, entro cui si inserirono i vari Del Monaco e Domingo, che, in particolare nel primo caso, ben poco hanno a che spartire con Enrico. Seconda cosa, connessa con la prima: siamo di nuovo da capo: se non era pensabile coniugare il suono "in maschera", cioè risonante, formato, nelle cavità superiori, non diversamente avviene tra una pronuncia che è fondamentalmente avanzata e una volontà di gestione volontaria degli spazi posteriori, quindi la pronuncia e la dilatazione degli spazi interni (anche semplicemente per rilassamento), non possono coesistere "pacificamente".
Siccome sto nuovamente scrivendo un poema, sospendo qui e riprendo in un altro post.

lunedì, ottobre 20, 2014

Ancora i registri? Ma basta!!

Nel blog sono presenti numerosi post riguardanti i registri, però ho pensato di fare una sintesi (non tanto breve, per il vero) alla luce anche di alcune discussioni in rete (che, stavolta, non mi riguardano direttamente).

Partiamo dall'affermazione che il passaggio di registro non esiste, secondo alcuni.
La domanda che dobbiamo porci è: cosa sono i registri, perché, eventuamente, ci sono, e quindi cos'è o cosa potrebbe essere il "passaggio".

Geniali uomini in passato hanno costruito strumenti musicali meccanici, cercando in molti casi di avvicinarsi all'emissione umana. Alcune caratteristiche, come l'articolazione, non sono neanche state minimamente avvicinate; in mancanza di questo sono state esaltate alcune caratteristiche che negli strumenti risultano più facilmente esperibili, con adeguata tecnica, come l'agilità e l'estensione (e in questo caso si è cercato di avvicinare l'emissione umana a quella strumentale).

L'altra cosa che non è mai stata avvicinata è la produzione mediante una sola corda (o coppia); tutti gli strumenti a corda ne possiedono diverse, in quanto è inconcepibile poter suonare melodie di una certa complessità con una sola corda (Paganini lo faceva, virtuosisticamente, ma in un'ambito limitato e solo a scopo spettacolare). Anche gli strumenti a fiato, pur basandosi su altri procedimenti, come gli armonici, possiedono diversi fondamenti.

Questo significa che sia gli strumenti a corda che a fiato possono eseguire alcune note in più posizioni; il "mi cantino" si trova a vuoto sulla prima corda del violino (o della chitarra) ma anche sulla seconda, terza e quarta corda, in posizioni più acute. Naturalmente cambiando la corda (che sarà più spessa su quelle più basse) o il fondamentale su cui trovare l'armonico, cambieranno anche le caratteristiche del suono ottenuto. A queste diversità di colore e di carattere, viene dato l'appellativo di "registro" che spesso si sposa a classi canore (la terza corda della chitarra ad es. viene definita "tenore"), per cui una certa melodia l'autore stesso prescrive che venga eseguita su una certa corda dello strumento ("aria sulla IV corda"), invece che in una posizione consueta, per dare a quel passo un carattere o colore particolare.

Prima domanda: nella voce umana è possibile produrre stesse note in "posizioni" diverse, cioè con caratteri o colori diversi? Sì, credo che tutti lo riconoscano, dunque il termine registro, pur essendo un termine acquisito dalla tecnica strumentale, quindi improprio, è giustificato.

In cosa consistono questi registri? Nel tempo sono state individuate tre metodologie di classificazione: una  più antica basata sulle sensazioni corporee (da cui "petto" e "testa") o di carattere (da cui "falsetto"); un'altra basata su movimenti cartilaginei (rotazione cricoidea), un'altra basata sulla postura cordale (corde sottili o spesse, bordo, muscolo vocale, ecc.).

Queste classificazioni sono realistiche ma incomplete, perché non sono relazionate all'elemento fondamentale di produzione, cioè il fiato! E' nel momento della produzione del suono, cioè nel momento in cui il fiato incontra le corde, che ogni tipo di classificazione si giustificherà, cioè la laringe ruoterà, vibrerà il bordo anziché il muscolo vocale, o si avvertiranno le vibrazioni in testa anziché nel torace, ecc.

Questa scuola concepisce il ruolo dei registri esclusivamente in relazione all'azione respiratoria. Prima di proseguire, però, dobbiamo ri-porci una domanda fondamentale: perché esistono i registri nella voce umana?
Non sembrerebbe molto logico che la natura preveda la possibilità di eseguire diverse altezze tonali in diverse posizioni, che è più un'esigenza meccanica, cui l'uomo, in ambito organologico, non ha ancora saputo rimediare. La questione, ancora una volta e naturalmente, riguarda proprio e fondamentalmente la respirazione!

Il fiato, in quanto funzione vitale primaria, necessita di un'energia costante durante la giornata lavorativa, specie se l'attività richiede un impegno fisico rilevante. Il sistema di funzionamento animale, per propria difesa, fa sì che tutto ciò che non è rilevante o ciò che non è in azione per un certo periodo di tempo, venga "spento" o ridotto ai minimi termini. Un arto che non è usato per un certo tempo (ad es. una gamba o un braccio ingessato) tenderà ad atrofizzarsi e richiederà, per il riuso, un periodo di fisioterapia. Il fiato ha un "minimo" necessario a cui si riduce ad es. di notte o nei periodi di degenza, ad es., ma anche quando l'attività lavorativa non è particolarmente intensa.

Mantenere in uso le corde vocali attive e toniche per circa due ottave o più, come richiede un'attività canora artistica professionale, necessiterebbe da parte del nostro fisico un esborso energetico troppo intenso, per cui è fatale che il nostro sistema riduca l'azione del fiato nei riguardi dello strumento vocale al minimo necessario, per cui vengono salvaguardate le azioni indispensabili, quindi l'alimentazione di una gamma relativa alla ristretta gamma del parlato e una limitata gamma per poter gridare, in quanto necessaria azione di difesa, offesa e richiesta di aiuto, ecc. Questo significa che l'uomo possiede POTENZIALMENTE un solo tipo di vibrazione cordale in grado di sostenere un canto OMOGENEO di qualità per circa due ottave, ma questa condizione è inibita dalla mancanza di una respirazione idonea, non necessaria all'uomo. Alcuni soggetti possono avere, per fortunato privilegio, la possibilità innata di poter cantare già naturalmente su un'ampia gamma, soprattutto per una dote fisica genetica, ma di eccezione si tratta e su cui non è saggio far grande affidamento.

A questo punto dobbiamo constatare che i registri vocali nella quasi totalità delle persone esistono; non ha molta importanza come si chiamano, ma dobbiamo considerare che quelli veri sono sempre e solo DUE. Sul fatto che si sentano in testa o in petto l'interesse è solo documentario, così come se la laringe si inclina o meno. Quello invece che ha rilevanza è la postura cordale, non in quanto dato fisico, ma in quanto RELATIVO ALLA RESPIRAZIONE, ovvero ALL'ALIMENTAZIONE. Infatti le due situazioni in cui si trovano le corde vocali nell'una e nell'altra condizione (chiamiamoli alla vecchia maniera Petto e Falsetto) richiamano una qualità alimentante diversa!

Le corde vocali nella condizione del parlato comune (ovvero registro di petto) si trovano in una postura rilassata, tant'è che la semplice pressione aerea le pone in una posizione convessa, cioè inarcate verso l'alto (in assenza di pressione aerea si trovano in posizione concava, cioè rivolte verso il basso - nel video presente sul sito ho spiegato male questo passaggio, me ne scuso). Quando ci si trova in questa condizione il bordo della corda praticamente non partecipa, mentre vibra la muscolatura vocale interna alla corda stessa.

Nella posizione di voce gridata (ovvero registro di falsetto) il bordo della corda si tende in virtù non più della muscolatura interna alle corde ma grazie a quella esterna alla laringe (e di qui la necessità dell'inclinazione). Il fatto di tendersi, significa offrire una resistenza molto maggiore al flusso dell'aria, rispetto al registro di voce parlata, per cui l'azione respiratoria non è la stessa, per cui ne consegue che, da un punto di vista spontaneo, naturale, i due registri nella quasi totalità dei casi non sono uguali in quanto richiedono un'alimentazione diversa.

Le due, diciamo, meccaniche, cioè corda tesa e corda convessa, che vengono anche definiti corda sottile (falsetto) e corda spessa (petto), percorrono entrambe un'ampia zona della gamma vocale, più spostata verso il basso quella di petto, più spostata verso l'alto quella di falsetto, ma con una quantità notevole di suoni che appartengono ad entrambe le corde (si va da un 60% nelle donne [ma anche meno nei soprani leggeri acuti], persino al 100% in alcune voci maschili), per cui è possibile fare le stesse note di petto O di falsetto (o come preferite chiamarlo), pur con colori diversi.

Se esistono note in duplice posizione e se ci sono note più proprie della prima corda (note centro-gravi) e più proprie della seconda (centro-acute), significa che eseguendo una scala ascendente a un certo punto dovrò passare dalla prima alla seconda, e discendendo dalla seconda alla prima. Questo è ciò che viene comunemente definito "passaggio di registro". Qui subentrano le classiche domande: dove va eseguito e come.

Facciamo un passettino indietro: abbiamo esposto che le due corde necessitano di alimentazioni diverse in quanto diversamente atteggiate. Questo però comporta dei problemi: nel momento in cui la pressione aerea deve aumentare per porre in vibrazione la corda maggiormente tesa, questo produce una ribellione da parte del diaframma che mal sopporta un aumento considerevole di impegno. C'è anche un altro motivo: la respirazione umana oltre che per l'ossigenazione del sangue serve anche come collaboratrice in azioni fisiche, quali il sollevare pesi e anche solo rialzarsi, mantenere una corretta posizione diritta e alcune azioni fisiologiche (si può facilmente sperimentare che durante alcune di queste azioni il parlare è molto difficoltoso). Il nostro istinto confonde facilmente l'impegno del canto con quello dello sforzo fisico, che comporta la chiusura glottica e il sollevamento del diaframma, per cui ci si trova, specie all'inizio dello studio, con la gola chiusa e la laringe alta, sospinta dalla pressione sottoglottica. Da ciò ne deriva che quando si prova a compiere il passaggio di registro, a causa dell'aumentato impegno respiratorio, il suono si spoggia, va indietro o addirittura non riesce. Qui nascono dunque i problemi molto seri per alcuni che iniziano lo studio del canto senza essere in possesso di doti privilegiate, ma possono nascere o apparire problemi anche per chi riesce, che diventano seri nel corso del tempo se non vengono affrontati efficacemente.

Si dice che il colore oscuro fu una "invenzione" di metà Ottocento, di cui si fece portavoce in particolare Garcia. La questione secondo me è stata male intepretata. Noi dobbiamo scindere due aspetti: le vocali scure e il colore oscuro. Se è vero, come è vero, che è possibile pronunciare le vocali in colore chiaro e in colore oscuro, e su questo possiamo convenire che fu una risorsa esplicitata dopo la metà dell'Ottocento, è altresì vero che esistono naturalmente vocali scure (come la U) e vocali chiare (come la I), e di queste si fece uso ampiamente anche nei secoli precedenti.

La vocale scura, così come l'oscuramento, produce un abbassamento naturale della laringe; questa posizione, che non richiede la volontà da parte dell'esecutore di una particolare azione fisica, contrasta la spinta sottoglottica da parte del diaframma, dunque è possibile eseguire un passaggio di registro laddove non risulta agevole o addirittura impossibile in colore chiaro, per cui il giovin tenore che sul fa grida emettendo una A, e la voce tenderà a spezzarsi proseguendo, avrà buone probabilità di riuscita se al posto della A pronuncerà una O o una U. Però non è detto e affermo subito, a scanso di equivoci, che questa NON E' LA soluzione. E' una strategia e una possibile soluzione transitoria.

Dunque l'emissione di una vocale scura o di una vocale (anche chiara) oscurata (che NON E' un'intervocale), può considerarsi una manovra tecnica per aggirare un ostacolo, onde permettere il passaggio di registro ove questo non avviene facilmente o non avviene per niente. ATTENZIONE! Non si deve confondere, come purtroppo si fa in una grande quantità di scuole, l'oscuramento con la "cucchiaiata", cioè fare una sorta di conato di vomito che fa "girare" il suono in gola, oscurato o meno. Questo non c'entra niente, la vocalità deve comunque essere libera per poter addivenire a un risultato che non sia pessimo!

Dove questo è bene che avvenga, cioè su quale nota? La questione è meno facile ma ha una sua logica, che si basa sull'equilibrio. Noi dobbiamo considerare che il do#4 per tutte le voci è da considerarsi l'ultima nota PROPRIA ove possa ancora avvenire una sovrapposizione dei registri, cioè fin qui è possibile, per quanto difficile e inopportuno, emettere note SIA di petto SIA di falsetto. Oltre diventa una distorsione e una improprietà grave. L'esperienza ha dimostrato che le voci che sfruttano tutta la gamma acuta della voce trovano il miglior punto di equilibrio sul fa3, per cui soprani, mezzosoprani, contralti e tenori avranno buon esito nel passare sul fa3 (prima nota di falsetto). Baritoni e bassi, che non possono sfruttare tutta la gamma del falsetto, abbasseranno rispettivamente di uno e due toni il punto di passaggio (mib3 e reb3). Il contraltino maschio è una voce particolare, che possiede una terza in più del tenore, potendo estendersi, come soprani e mezzosoprani, anche nella gamma che venne definita "di testa" dal Garcia, ove non esiste più sovrapposizione con il petto, ma prosecuzione di falsetto a corda parzializzata. Costui può passare come il tenore sul fa, ma in virtù di questo "prolungamento", molto più impegnativo e intenso di quello sopranile, può giovarsi di miglior equilibrio passando sul fa#3.

L'azione tecnica meccanica dell'oscuramento permetterà una soluzione altrettanto meccanica del passaggio; col tempo la soluzione dell'oscuramento può diminuire per la tendenza tollerante dell'istinto, che sotto allenamento può concedere più libertà e possibilità. Questa però, come si diceva, non è una soluzione, perché i registri continueranno ad esistere e quando mancherà l'allenamento i problemi sugli acuti si ripresenteranno, senza contare che una soluzione di questo tipo non consentirà mai un canto di qualità. Come ho già anticipato, il problema riguarda la respirazione. Ma non è un problema che si risolve con esercizi respiratori, come molti ingenuamente credono, ma innescando le giuste relazioni tra fiato e strumento.

Le scuole foniatriche, e alcuni foniatri stessi, si fermano ad analisi del "suono" vocale, dimenticando o ignorando che la vocale non è un suono, ma molto di più. Cosa c'è di buono nel registro cosiddetto di petto che non c'è, o non è agevole, nel registro detto di falsetto o testa? E' la pronuncia. Il registro acuto esiste e persiste nell'uomo pressoché esclusivamente in quanto strumento di uso eccezionale, per chiamare aiuto, per imporsi, per cercare di spaventare un avversario, ecc. Tutti caratteri che non richiedono un uso sottile della pronuncia né un timbro particolarmente piacevole né un utilizzo prolungato. Provando a "parlare" nella zona acuta ci si troverà immediatamente di fronte a problemi seri, persino insormontabili. Questo molti possono pensare che sia dovuto alla meccanica dello strumento, ma non è affatto così, anche perché la meccanica articolatoria non cambia nei registri. Il problema è dovuto, guarda caso, alla respirazione. La nostra respirazione fisiologica, se pur sviluppata, non è comunque adatta e in grado di sostenere l'impegno richiesto da una pronuncia valida, vera, su tutta l'estensione. Per questo motivo possiamo dire che esercitandosi nella perfetta pronuncia nella tessitura oltre la gamma del parlato consueto, si stimolerà lo sviluppo respiratorio su tutta l'estensione. Questa azione non solo permetterà di eliminare il passaggio di registro, ma eliminirà tout cour i registri, perché in questo modo si arriverà alla formazione di quella "corda unica" potenzialmente presente in noi, di cui si è detto all'inizio.

In teoria potrei chiudere qui, ma in realtà questa semplice dichiarazione non solo non è facile, ma potrà presentare aspetti di difficoltà straordinaria, perché il nostro corpo si troverà comunque investito da un impegno fisico ancor più accentuato rispetto all'emissione di semplici suoni "simili" alle vocali. Perché pensate che di moltissimi cantanti, specie nelle donne, non si capisca un tubo di quanto dicono, pur magari emettendo suoni di notevole bellezza (vedi Sutherland)? Perché è più facile, l'istinto non avversa più di tanto questo tipo di emissione e per il pubblico odierno, che ama più il suono (che non significa niente) del testo, va bene così. Dunque se anche a voi va bene così, non esercitate la parola pura, rimanete su suoni anonimi; viceversa dovrete però considerare che i problemi che si presenteranno saranno notevoli; non posso ripercorrerli qui e non posso parlare delle soluzioni se no questo post vince ogni record di lunghezza, nonostante si tratti di una sintesi, e comunque ne ho parlato in molti capitoli, cui rimando.

PS: dimenticavo una curiosità: alcuni, che non hanno capito niente dei registri, sono riusciti a confondere questi con le posizioni del suono, cioè hanno confuso il suono cosiddetto in maschera con il suono di testa, e il suono di petto con... ? niente! cioè hanno ritenuto che il suono corretto è il suono di testa, che secondo loro è in maschera, mentre con suono di petto intendono un suono "basso", non "immascherato" quindi difettoso, ingolato o non so che altro. Lo dicevano ad es. la Barbieri e la Simionato, affermando che loro non hanno mai cantato di petto (mentre l'hanno fatto eccome, come ben conferma la Gencer), ma ovviamente intendendo che loro tenevano il suono "alto" anche sulle note basse. Pensate un po' come persino professioniste affermate e le cui parole vengono prese come oro colato possano dire strafalcioni! In questo ovviamente sono state in ottima compagnia, perché nel mondo del canto si è detto davvero di tutto e di più, e infatti cialtronaggini simili le pensava, diceva e scriveva anche Rodolfo Celletti, creando un gran caos!

martedì, ottobre 14, 2014

Il trattato - 12

Sono molti coloro che cercano la voce o il superamento di certe difficoltà di testo o di tessitura anziché la ragione per cui una voce deve essere educata, e ciò è causa di frequenti inconvenienti che portano fatalmente ad insuccessi più o meno accentuati. Se lo strumento è perfetto, la natura dà il meglio di sé e quindi anche la voce più bella che lo strumento possa dare, migliorando indiscutibilmente la qualità "istintiva". Il problema voce non deve esistere, il canto deve diventare automatico, cioè una seconda natura che risponde incondizionatamente alle esigenze dell'interprete.
La singolarità di questa scuola è partire dai "perché" e dare risposte, non arbitrarie o "fumose", ma basate su intuizioni legate a fondamentali aspetti della natura umana. Voler superare le difficoltà senza sapere il motivo per cui ci sono, non solo non risolverà i problemi, ma rischia di provocarne l'accrescimento, magari non subito ma in tempi più o meno lunghi.
L'arte non è privilegio di masse, ma di pochissimi soggetti che sono molti meno di quanto si possa pensare. Credere che gli insegnanti possano formare molte di queste eccezioni è un errore, perché i predisposti sono e saranno sempre una percentuale bassissima.
Attenzione perché qui si parla di perfezione, di artisti esemplari, quindi non ci si spaventi di fronte ad affermazioni così radicali; gli ottimi maestri sono e saranno in grado di preparare ottimi cantanti, che non saranno numerosissimi, ma comunque non le poche unità cui accenna il maestro.
Da più parti si sostiene che i metodi per educare la voce sono soggettivi e che ogni maestro applica le proprie esperienze, quindi il proprio metodo. Anche se questo è vero, è altrettanto vero che una percentuale enorme di metodi sono sbagliati, e che gli aspiranti cantanti falciati dalla cattiva scuola si contano a migliaia. 
Purtroppo questa è una realtà sotto gli occhi di tutti, c'è poco da commentare.
Una bella voce e una certa disposizione trae in inganno anche molti insegnanti impre-parati, perché si lasciano lusingare dalle disposizioni più o meno accentuate degli aspiranti. Non è ottenendo un certo temporaneo risultato o reggendo una certa tessitura che si formano i buoni cantanti, anzi, così facendo si creano una infinità di mediocri, che lungo il cammino dell'illusione cadono irrimediabilmente. 
Un commento: se è vero quanto è scritto, e cioè, in sintesi, che molti insegnanti diventano celebri perché hanno la fortuna di ricevere voci già particolarmente versate e dotate, salvo poi non saper realmente disciplinare voci meno privilegiate, è anche vero che questi cantanti possono ritenersi fortunati quando l'insegnante non tocca loro la voce, rischiando di mandare all'aria il buono che c'è, anche se destinato a durare non molto.
Il nostro intento è quello di orientare il lettore verso quel canto che non è compiacenza, ma diletto; e le pagine che seguiranno questa introduzione dovrebbero servire a questo scopo. Chiunque ci seguirà potrà trovare o ritrovare in questo elaborato, che non vuole essere un trattato nel senso classico del termine, molte cose utili, anche se poi, ognuno trarrà dalle nostre pagine ciò che gli sembrerà più o meno conforme alla propria dimensione.

martedì, ottobre 07, 2014

Memoria e coscienza

Il M° Sergiu Celibidache nel 1984 tenne 10 giorni di intensissime lezione al Curtis Institute of Music negli Stati Uniti; in questi giorni un allievo di allora ha postato su internet un piccolo estratto che aveva registrato.
"Prima di iniziare un concerto, se non riesco a svuotare me stesso, sarà la memoria. "So che inizia il corno. So che il ..." No. Questo è contro di me. Sarà materializzare la funzione di memoria. La musica non ha nulla a che fare con la memoria. La memoria è legata al passato. La speranza è legata al futuro. La musica non è collegata a nulla. Si tratta di un processo spontaneo di creazione. L'esecutore crea. Che cosa ha fatto il compositore? Vi ha indicato la via: "Guarda, se si va oltre quelle fasi, questi conflitti, si potrebbe arrivare a questo punto...".
Naturalmente il M° parlava di musica in senso lato e di direzione d'orchestra. Come tantissimi pensieri regalatici da questo grande musicista e pensatore, si presta a interpretazioni alquanto "pericolose", se non vengono correttamente contestualizzate. Solo un folle o un polemico strumentalizzatore potrebbe pensare che Celibidache quando dice "l'esecutore crea" possa riferirsi a una arbitraria libertà intepretativa. Ho deciso di postare questa frase qui perché possiamo trovare analogie nel campo del canto. Il punto focale è la memoria. La memoria cui ci riferiamo solitamente è una memoria fisica, e la potrei definire temporanea, non nel senso che i dati che contiene durano poco, ma nel senso che quei dati sono depositati "in attesa di...". I dati entrano nella memoria grazie ai sensi; noi ricordiamo le cose in quanto le abbiamo viste, sentite, toccate, ecc. Quanto queste informazioni ci appartengono? Non in quanto memorizzate, ma in quanto passate alla coscienza. In essa non entrano le informazioni fisiche, ma il contenuto, ciò che ci ha "toccato" e ha comunicato al nostro io profondo. Vale per ogni arte. Capire l'arte non significa averla "interpretata", ma essere riusciti a cogliere il frammento di verità in essa celato. Dunque le informazioni eventualmente contenute nella memoria, noesi, e che si riferiscono a opere d'arte, risiedono in questo contenitore finché qualcosa permetterà al loro noema, pensiero, contenuto, di passare alla coscienza.
Come avevo già scritto in passato, molti allievi, direi quasi tutti, quando la lezione è particolarmente positiva si preoccupano di "dimenticare" ciò che hanno appreso, e spesso identificano questo qualcosa in sensazioni, azioni, indicazioni. Tutto ciò non serve, anche se è o può essere un piccolo aiuto, ma può anche essere controproducente. Proprio per il fatto che la memoria è fisica e lavora sulla percezione attraverso i sensi, si tenderà a ricordare proprio gli aspetti muscolari e scheletrici, dimenticando che il canto è e deve essere un flusso mentale incondizionato, cioè libero dalle funzioni istintive, pertanto proprio all'opposto del funzionamento mnemonico. Creare non significa, in questi casi, "inventare" qualcosa di nuovo (ma sappiamo come il termine inventare sia sempre discutibile nel nostro campo), ma ri-creare, cioè manifestare un'unità che come tale è stata acquisita alla coscienza ed è possibile quindi ridarla alla luce come se fosse una creazione del momento, come in effetti è perché solo "hic et nunc" è possibile permettere a quella forma d'arte - musicale in questo caso - di poter esprimere la propria verità. Anche nella vocalità e nel canto, l'acquisizione matura dell'unità che si forma dalla relazione delle parti durante la fonazione permetterà al virtuoso di esprimersi al meglio senza "ricordare" ma agendo come in sogno; il flusso a-fisico che dalla coscienza perviene a estrinsecarsi, ci apparirà come una "ispirazione" nostra. E' la grande coscienza, la coscienza umana e divina, entro la quale ci troviamo quando sappiamo collegarci "in rete" con altre forze simili (non entro troppo in particolari perché ognuno deve essere libero di modulare sul proprio pensiero questi concetti, quindi non ci devono essere forzature ideologiche, ma penso che tutti possano ritrovarsi serenamente qualunque sia il loro credo o non-credo).

venerdì, ottobre 03, 2014

Dans la lenteur il y a la richesse...

Una frase che pronuncia Sergiu Celibidache durante una lezione, e ripresa in un video, e che se da un lato fotografa uno dei punti forti della sua poetica, dall'altro gli è valsa una valanga di critiche per i suoi "tempi lenti". Come sempre le parole si prestano a ogni interpretazione e ognuno quindi ne fa l'uso che ritiene più opportuno; qualcuno esalta, altri puntano il dito. Vediamo un po' di che si tratta.
Come nell'altra frase celebre, sull'oggettività esecutiva e quindi contro l'intepretazione, che ha fatto scatenare i commenti da parte di orde di ignoranti, volendo far credere che in quel modo esisterebbe una sola esecuzione attendibile, anche qui si vuol far credere che, secondo Celibidache, bisognerebbe eseguire i brani lentamente.
Prima un'osservazione e una domanda: avete notato che da una ventina d'anni a questa parte c'è una tendenza sempre più ossessiva all'accelerazione dei tempi di esecuzione dei brani? Vi siete chiesti perché? Tra l'altro questa tendenza è stata assunta da molti ascoltatori e critici, ma anche "musicisti" ("salvo il vero") come una "visione moderna" dell'esecuzione musicale, per cui i vari Furtwaengler, Klemperer, ecc. sono considerati i "dinosauri" dell'intepretazione, sepolti ormai sotto la polvere del tempo, mentre le nostre giovani gazzelle loro sì che sanno come va suonata quella musica. Ma la questione non è riservata al genere sinfonico. Ieri ascoltavo alcune registrazioni del "Vien Leonora" dalla Favorita da alcuni baritoni di inizio 900. Esecuzioni di una lentezza impressionante! E quindi si darebbe ragione a quei critici che dicono che una volta si faceva tutto lento. Il che, però, non è vero! Ci sono molti brani, vuoi cantati che suonati, di cui esistono registrazioni, eseguiti a una velocità sbalorditiva. Non è che i nostri nonni dormissero e non avessero il ritmo nel sangue. Mio papà spesso mi diceva che i giovani d'oggi sono tutti addormentati e che ai suoi tempi c'era ben altra vivacità (lo diceva anche con metafore di spirito toscano un po' forti che non sto a riportare). Semplicemente c'era un altro spirito con cui si viveva il tempo musicale.
Molti pensano che Celibidache imponesse i suoi tempi. Non è affatto così, anzi, l'unico riferimento al tempo che ho sentito in un video di una prova, è esattamente al contrario; durante la concertazione della sinfonia n. 1 di Prokofiev fa notare che sono un po' lenti! Dunque, come si raggiunge il tempo "giusto"? Sì, c'è la questione dell'acustica, che è fondamentale, ma da sola non giustifica niente. Ci vuole la "ricchezza". L'orchestra tendenzialmente non ascolta, e fa oggettivamente fatica ad ascoltare il prodotto complessivo, per cui non si rende conto se stanno correndo o stanno arrancando. Ognuno sta un po' sul proprio strumento, su ciò che lo riguarda. Se al direttore va bene ciò che sta avvendendo, sarà schiavo degli umori dell'orchestra. Nei passi difficili si tenderà (ma guarda..!) ad accelerare. Sì, perché nella confusione si avrà maggior agio a nascondere le difficoltà (lo sa chiunque si sia trovato a dirigere un complesso dilettantistico o di non eccelso livello). Laddove ci sono passi lirici ma la qualità del suono dei professori non è eccelsa, si tenderà, nuovamente, a tirare un po' via, se no, specie nei passi a solo, lo strumentista mediocre rischia di essere scoperto! Ma, in particolare, se il direttore non ha niente di particolare, di importante, da chiedere agli orchestrali, sarà inevitabile che l'esecuzione prenda la strada della velocità! Invece se il direttore comincia a far notare pregi e difetti, comincia a chiedere di tirar fuori determinate cose, non perché "lui la sente così", ma perché stanno nell'oggettività del tessuto musicale, ecco che anche la sola attenzione con cui i singoli orchestrali impiegano nell'adempiere a quella necessità, porteranno facilmente a un certo rallentamento. L'ho vissuto io stesso durante un corso di direzione, quando, avendo spiegato che un certo intervallo discendente del tema necessitava una diminuzione del volume, e che il pizzicato dei contrabbassi e violoncelli andava fraseggiato (e non buttato là una nota dopo l'altra tutto uguale), che poi c'era una imitazione che doveva emergere, dopodiché la frase doveva indirizzarsi verso un punto di maggiore enfasi per poi chiudere, ecc. ecc.; ebbene l'esecuzione, che era già stata provata da altri più d'una volta, è risultata molto più lenta, ma non per questo meno interessante, profonda, cioè noiosa! (e non l'ho chiesto esplicitamente io quel tempo). Ecco, il timore della lentezza è quello della noia, ma è giusto solo quando? quando manca L'ENERGIA, ovvero L'ALIMENTAZIONE. Ciò che ho esposto qualche post fa sulle parole. Cos'è l'alimentazione e l'energia nella musica, quindi anche nell'esecuzione di un brano cantato? E' l'interesse, l'attenzione e quindi la concentrazione che insuffliamo in ogni frase, in ogni momento, non disgiunto da quello generale e unitario. I grandi cantanti del primo 900, non erano scemi per cui eseguivano un brano lentamente, rischiando di star senza fiato! Un po' esibizionisti, forse, un po' romanticamente enfatici, probabilmente, ok, ma musicalmente! Cioè il loro obiettivo e scopo era quello di far comprendere e comunicare tutto ciò che c'è in un brano, quindi la "richesse" di cui parla Celibidache, che nel suo caso era un valore ancora più enorme, perché lui ci mette anche la fisica del suono, la psicologia e la filosofia degli intervalli attivi, passivi, estroversi ed introversi, gli armonici, ecc.Quindi, prima di proclamare che un brano è "lento" o "veloce", facciamo tesoro di questi insegnamenti, e consideriamo se stiamo mettendo in luce obiettivamente tutto ciò che il brano, nelle sue varie articolazioni, promette, e non dimentichiamo soprattutto che il tempo non è la velocità! Il tempo di esecuzione di un brano non si misura in secondi, ma nella condizione di riuscire a percepire l'intero brano come fosse un'unità, e quindi di poter cogliere che la fine è la condizione inevitabile per ciò che era stato promesso all'inizio (e quindi non va fisicamente in una sola direzione, ma è costantemente in relazione tra l'inizio e il punto in cui siamo), e che si è sviluppato nel corso del brano mediante contrasti, tensione che si alza e abbassa in modo da alimentare costantemente l'interesse dell'ascoltatore affinché non perda il filo. Se il cantante pronuncia le parole, seppur bene, ma con superficialità, cioè non rendendosi conto di ciò che sta dicendo, della situazione in cui opera, e di come vanno dette le cose anche da un punto di vista musicale, renderà piatto, sterile, vano il suo canto; magari bello superficialmente, ma breve nell'interesse di chi ascolta.