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domenica, ottobre 26, 2014

Pronuncia e amplificazione

Perché tante persone che si occupano di canto lirico restano dubbiose se non contrarie o addirittura ostili all'ipotesi di un'educazione vocale, quindi respiratoria, basata sulla pronuncia? Checché ne dicano i sapientoni, tutti i trattati antichi sul canto e il suo perfezionamento passano attraverso dizione, parola, "acconciatura" della bocca. Dunque come si spiega questo allontanamento dalla fonte principale e "madre" dell'arte vocale? E' abbastanza semplice, riflettendoci un po'. A partire dalla fine dell'Ottocento e via via sempre più salendo lungo il Novecento, il ruolo della gola, degli spazi oro-faringei, è stato sempre più oggetto di interesse e coinvolgimento da parte dei cantanti e delle scuole di canto, soprattutto a causa della continua osservazione da parte degli studiosi scientifici del fenomeno canto, che non hanno studiato (forse perché non ne hanno modo) il fenomeno vocale nella sua unicità e complessa unitarietà, ma nelle sue parti singole e staccate, concentrandosi in particolare sul funzionamento della laringe. E' avvenuto quindi che l'interesse dei cantanti e degli insegnanti si è spostato dal risultato (cioè l'emissione) alla meccanica produttrice, e tradendo, in fondo, proprio un principio naturale, cioè che l'uomo ha già in sé le potenzialità per raggiungere un canto ideale, quindi andando a modificare volontariamente spazi e posture interne, si demolirà sistematicamente un complesso già perfetto nella relazione tra le parti, solo da sviluppare nella sua componente amplificante e musicale. Ma il problema, per l'appunto, che tutti inseguono maniacalmente, è l'amplificazione. Come è noto per molto tempo [parliamo sempre di tempi recenti, però], sempre a causa delle superficiali analisi scientifiche, si pensò che il sistema migliore per amplificare la voce fosse quello di inviarlo nelle "cavità superiori", cioè seni nasali, sfenoidali, frontali, ecc., definendo questa pratica "immascheramento" del suono. Celletti ne era il sommo diffusore. Una congerie pasticciata di teorie e analogie col mondo strumentale meccanico assolutamente in contrasto con ogni bio-logica e ogni semplice osservazione di come funzioniamo e come siamo fatti. Fu, tra l'altro, il motivo di rottura con il mio primo insegnante, che a suon di incitazioni a mettere il suono in alto, tra gli occhi, nella fronte e così via, mi suscitò una domanda: ma da dove esce? E la risposta non poté che lasciarmi basito: "dagli occhi, dalla pelle, ecc."
Se cominciamo a escludere che la voce possa uscire dalla bocca, già siamo su una cattiva strada. Ma anche ammettendo ciò relativamente a "suoni" astratti, il principio va in frantumi quando ci si pone nella necessità di articolare le parole. Come si fa a pronunciare una parola (e la pronuncia non può fare a meno dei movimenti delle parti orali: labbra, lingua, mandibola...) quando il suono che la sostiene è in un altro posto, cioè, secondo costoro, nelle "cavità superiori"? Vivono da divorziati, separati in casa? No, questa teoria cominciò presto a far acqua - nonostante sia fortemente sostenuta ancor oggi da molti cantanti di quell'epoca - che non hanno sentito che è caduto il muro di Berlino - e gli stessi foniatri tornarono sui propri passi dicendo che il suono nel naso non va bene - e nonostante alcuni addirittua sostengano che la voce deve risuonare nel naso!  - anche perché le stesse pareti di quegli spazi tendono ad assorbire il suono. I tanti cantanti nei masterclass in cui propinano queste idee e gli insegnanti ancora in auge che scelgono questa strada, devono per forza sottostimare la pronuncia, tecnicizzando la voce esclusivamente sulle vocali e "uniformando" (mon Dieu) le vocali internamente (in pratica sulla U) e di fatto uccidendole, e di conseguenza uccidendo il canto.
Si tornò in molti casi a indicare la bocca e le zone dentali superiori come corretto punto focale del suono vocale. Ma questo non soddisfaceva molti che cercavano di raggiungere il massimo potere amplificante, e non sembrava questa una soluzione né rapida né intellettualmente valida. Ciò che sembrava mancare in questa modalità era la presenza di spazi proporzionati al risultato: uno strumento è valido se possiede una proporzionata cassa di risonanza amplificante. Visto che l'idea degli "spazi superiori" sembrava non adeguarsi al funzionamento complesso dello strumento vocale, si andò verso quello più prossimo, cioè lo spazio faringeo o, nel migliore dei casi, quello oro-faringeo, cioè, "parlando come magnamo": bocca e gola. Questi SONO spazi, quindi che ci sarebbe da fare? "Allargarli al massimo", han cominciato a dire; più spazio c'è più la voce si amplifica. Qui si innesta la strada in parte già percorsa dagli eredi di Garcia, il quale osservò che nel colore oscuro la laringe scendeva e lo spazio sopraglottico si ampliava. Allora fu tutt'uno coniugare il colore oscuro alla voce ampia e sonora. Il che è vero, almeno in parte, perché il colore oscuro provocando un sensibile abbassamento della laringe, consegue anche un abbassamento del diaframma e quindi un drastico appoggio, che procura suoni forti e timbrati. Il che non significa che essi siano "i più" sonori e vocalmente validi, anzi, non lo sono affatto, ma questo è un risultato commercialmente valido, perché in poco tempo soddisfa i palati più a buon mercato, i malati di ego-narcisismo e così via. Non tanto dissimile è la scuola cosiddetta dell'affondo, che ottiene risultati ancora più maiuscoli mediante spinte verso il basso, che da un lato aumentano l'appoggio diaframmatico, dall'altro, con l'abbassamento della laringe, provocano una dilatazione del faringe, quindi un maggior spazio in gola.
A parte le tantissime obiezioni che si possono fare a tutte queste tecniche, due ci premono: innanzi tutto la semplice osservazione che la dilatazione volontaria degli spazi oro-faringei provoca scurimento del suono, perché è una legge fisica che a maggior spazio corrisponde un colore sonoro più scuro. Questo è stato by-passato imponendo l'assurdo concetto che la lirica vuole suoni scuri, e in particolare le voci drammatiche. Andate a guardare le cronache musicali del 1900: Tamagno era considerato il più grande tenore drammatico dell'epoca; ascoltate la voce di Tamagno nelle registrazioni rimaste e considerate che questo tenore cantava abitualmente opere come Guglielmo Tell, e poi traetene qualche considerazione. Si pensa che la scuola del Garcia abbia di fatto dato vita alla stagione del colore oscuro, ma non è vero, infatti dopo oltre mezzo secolo le voci imperanti cantavano tutte ancora con perfetta dizione e colore chiaro. Questo perché oggi si vuole "interpretare", come al solito, il pensiero dei trattatisti antichi senza considerare i riscontri pratici. L'altro inganno è stato l'incolpevole Caruso, che ci ha lasciato soprattutto un patrimonio discografico in cui sentiamo quasi sempre un tenore scuro e dove il repertorio è prevalentemente di forza, o drammatico. Ma chiunque conosce un po' la storia del canto sa che Caruso era un tenore lirico di grazia, dotato di un accento drammatico (che è altra cosa) formidabile, e che trovò nella registrazione discografica, anche pionieristica, un mezzo fantastico di esaltazione di sé stesso, con un uditorio sterminato e oltre i limiti del teatro, infatti alcuni ruoli non li affrontò, o solo sporadimente. Caruso cantava con timbro chiaro e ottima dizione, come tutti i suoi coetanei, ma ciò che nel 90% dei casi per un cantante è una tragedia, cioè un'operazione chirurgica in gola, per lui si dimostrò una miniera d'oro! A causa dell'operazione e di un ispessimento dei tessuti che ne conseguì, il suo timbro si scurì naturalmente; questo ebbe un felicissimo esito soprattutto in sede discografica, perché la sua voce risultava molto più drammatica e ricca di quanto non avvenisse in teatro, pur mietendo grandi successi, giustamente, perché era un "animale da palcoscenico", dotato di una grande forza teatrale; da quel punto di vista il suo successo non avrebbe avuto particolari differenze se non ci fosse stata l'operazione di mezzo, ma l'incredibile successo dei suoi dischi portò a quella notorietà mondiale che ne fece un divo incontrastato (e ricchissimo). Dall'altro canto provocò, come sempre in questi casi, l'imitazione da parte di chi voleva replicare quei risultati di notorietà. Persino un tenore formidabile come Martinelli, che aveva ben poco da invidiare al collega, cercò artificialmente di scurire il proprio timbro. E di qui, pertanto, non da Garcia che non c'entra niente, iniziò la rincorsa al popolare e vincente colore scuro, entro cui si inserirono i vari Del Monaco e Domingo, che, in particolare nel primo caso, ben poco hanno a che spartire con Enrico. Seconda cosa, connessa con la prima: siamo di nuovo da capo: se non era pensabile coniugare il suono "in maschera", cioè risonante, formato, nelle cavità superiori, non diversamente avviene tra una pronuncia che è fondamentalmente avanzata e una volontà di gestione volontaria degli spazi posteriori, quindi la pronuncia e la dilatazione degli spazi interni (anche semplicemente per rilassamento), non possono coesistere "pacificamente".
Siccome sto nuovamente scrivendo un poema, sospendo qui e riprendo in un altro post.

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