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lunedì, dicembre 29, 2014

La rinuncia

Esiste una vita biologica e fisica e una vita "umana" ben più elevata. Non mi sto riferendo a atti eroici, a grandi imprese, benché spesso anche queste possano conferire una dignità e una nobiltà alla vita di alcune persone che le fanno elevare a un rango universale e storico. Ma anche in ambito artistico e meno visibile si può imboccare la strada per una vita più vera, più reale, più interiore e allo stesso tempo più in relazione all'universo e quanto e quanti ci stanno attorno. Purtroppo pur essendo presente in tutti gli umani, la componente predisposizionale riveste un ruolo importante, per cui una gran parte di persone non ci prova nemmeno, non ne sente il richiamo e non si trova nelle condizioni ambientali e sociali per sentirne il richiamo. Poi, però, ci sono le persone che si trovano nelle condizioni giuste: ambiente, comunità sociale, stimoli culturali, ecc., ma... si rinuncia! Sia chiaro, è una difesa. Entrare nella spirale della verità è una incognita, un passo verso un destino ignoto che già sappiamo che non saranno solo gioie, ma anche dolori, anzi, sappiamo prima di tutto che saranno dolori, e forse, solo forse, gioie. In fondo chi ce lo fa fare? Qualunque sia la nostra situazione di vita, possiamo credere che il percorso verso la perfezione possa migliorarla significativamente? Dipende da come consideriamo questa situazione. In genere sì, chi si avventura per questa strada lo pensa, lo crede, per darsi forza e coraggio. Spesso la frustrazione, il desiderio di rinuncia si affacciano prepotentemente. Ovunque ci affacciano "nemici", persone che vorremmo da un lato convincere, dall'altro "sopprimere" per la loro superficialità, per la loro irrinunciabile e imcomprensibile lotta contro le nostre posizioni. Eppure è così, non c'è alternativa. L'unico stimolo importante riguarda una visione della vita che sfugge, e cioè la rinuncia, sì, ma ai bisogni materiali, egoici, apparenti ed effimeri, per entrare nella gioia di un momento, per sentire che qualcuno è entrato con noi nel regno della libertà. Quando finalmente il nostro canto si sarà libeato da ogni ostacolo (ogni tipo di ostacolo) non lo si vive più come "canto", come impegno fisico e mentale per portare a termine una performance, ma come comunione, come raccogliere in un gesto astratto tutti i presenti, rapirne l'attenzione e farli trascendere dal tempo fisico. Non so se questa prospettiva possa essere sufficiente per far scegliere chi si trova sul crinale tra fare arte e fare successo (tentarci), ovvero rinunciare agli allori o rinunciare alla vita. Vedo, sento tante persone, molte delle quali occupano posti importanti nell'opionione pubblica, che vivono una vita più apparente che reale, si nutrono del successo giornalistico, delle medaglie, dei diplomi e dei premi, ma che hanno evidentemente rinunciato al grande passo, quello che li avrebbe condotti a fare realmente arte, quella verso cui erano portati, eletti, eppure si sono accontentati dell'effimero. E quante persone li invidiano! Lui è lì e io sono qui. Come se quello fosse realmente il traguardo della vita. E anche queste parole possono suonare come un ingenuo tentativo di nascondere l'invidia e la frustrazione di non aver saputo o potuto raggiungere un analogo traguardo. Si tratta sempre di scelte, si tratta di sapersi valutare; la cosa più difficile, a volte tremenda, è proprio il dire: io sono capace fare questa cosa a questo livello, non so fare questa cosa, so fare solo molto modestamente quest'altra. A volte è dura ammetterlo con le cose che più ci piacciono, che più ci appassionano e ci coinvolgono, ma se non c'è trasparenza verso sé stessi, non la si può impiegare neanche verso gli altri.

Leggevo all'interno di una discussione una critica al tentativo di mettere in campo criteri per valutare una prestazione e allo stesso tempo guidarci verso una esecuzione all'insegna del vero. Il soggetto a un certo punto diceva che la perfezione poteva risultare noiosa; non solo, ma di fronte a una approfondita disamina di questi, l'interlocutore rinunciava al confronto, dicendo: ognuno ha la propria filosofia di vita. Cioè, replico io, costui ha rinunciato alla vita! Si accontenta dell'illusione. Ma non lo biasimo, se la sua scelta è questa, e non è giusto insistere. Da un certo punto di vista chi ha intrapreso questo studio vede tanti presunti artisti come "zombie" che vagano senza meta, senza criteri, senza bussola, sonnambuli (un noto pianista e ahinoi anche direttore d'orchestra ce l'ha che l'inteprete è come un sonnambulo! ecco, sono d'accordo, è un sonnambulo che ha rinunciato a svegliarsi, sta troppo bene in quel mondo dove pensa che possa far quel che vuole e nulla possa accadergli) e lui che possiede quei criteri non poterli esprimere a una platea più ampia e che potrebbe far contenti tanti. E' giusto provarci, occorre perseveranza, ma a volte è anche giusto rinunciare.

venerdì, dicembre 26, 2014

Interagire con l'ambiente

Una caratteristica di musicalità matura, non necessariamente riservata al cantante, ma del tutto indispensabile per questo tipo di artista, riguarda l'interazione tra sé e l'ambiente. S'è detto già che è necessario ascoltare la propria voce nel luogo in cui ci troviamo, una condizione non facile da raggiungere intanto perché l'udito deve svilupparsi e poi perché siamo alquanto disturbati dalle vibrazioni interne.
Sul fatto che la voce debba risuonare esternamente è, per questo blog, tema ormai persino logoro (per quanto le ripetizioni non saranno mai abbastanza), ma c'è una dimensione su cui forse non mi sono dilungato abbastanza o che, perlomeno, non ho approfondito sufficientemente.
Cosa significa voce fuori? Dobbiamo prima di tutto toglierci dall'idea di "mandare" la voce fuori. Se ci poniamo nella condizione di far uscire la voce, ci sarà sicuramente un errore, un difetto, perché per "mandare" occorre anche un punto di partenza, e questo punto, ovunque sia, sarà interno, e questo creerà fatalmente una spinta, una pressione, un impulso, uno schiacciamento da dentro (che può essere da sotto o da dietro) a fuori (che può essere verso l'alto o verso il davanti). Pertanto sarà già una conquista notevole giungere a percepire che la voce, qualunque sia la vocale o la sillaba d'attacco, nasce esternamente, senza colpi, senza spinte, ma come se si iniziasse a parlare semplicemente. Questa non è detto sia la condizione finale e ottimale. Pur sentendo la voci fuori, ci può ancora essere un legame, un "cordone ombelicale" con la dimensione interna, con la muscolatura, la fisicità. Il punto di arrivo sarà, con una fiducia davvero straordinaria al proprio fiato, "osservare", "udire" la propria voce nell'ambiente avendo azzerato ogni attività e con la certezza che non è rimasto più alcun residuo di legame con il corpo. Esso è diventato come un tubo inerte, che non interagisce e non collabora in alcun modo alla produzione vocale. L'unica attività sarà di tipo mentale, volitivo. Se questo può essere raggiunto più facilmente in un ambiente familiare, potrà risultare difficile in una sala da concerto con pubblico. L'aspetto emotivo e psicologico gioca un ruolo importante. Prima di tutto, ripeto, fidarsi del proprio fiato educato. Ricordarsi che ogni azione che possa essere attivata per cercare di dare più forza, intensità, timbro, ecc., non potrà che danneggiare il risultato. La calma, la sicurezza di superare ogni ostacolo, avendo conquistata la libertà, saranno i veri cavalli vincenti. Naturalmente, sia ben chiaro, non ci si deve convincere di avere raggiunto questa condizione ma deve essere vero, cioè se ne deve prendere coscienza piena, avvalorata dalle parole del maestro (se lo è veramente).
Faccio ancora qualche precisazione. Qualcuno potrebbe osservare: una volta che la voce è nata fuori dal corpo, rimane staticamente lì? E come la si può modulare dinamicamente?
Consideriamo sempre che le parole sono limitate, insufficienti e anche pericolose, quindi questa argomentazione la tratto come informazione orientativa, ma ricordiamoci che è sempre e solo con l'apprendimento pratico che si può arrivare a comprendere. Il suono nato fuori in genere non necessita di altro perché si "autoalimenta", cioè assume l'aria respiratoria di cui necessita, e niente più, e di cui non ci rendiamo quasi per niente conto. Nella fase avanzata di apprendimento saremo continuamente tentati di risparmiare aria, ci parrà un' "emorragia" di fiato, specie nel centro, dove ci sembra non si debba consumare così tanto fiato. Ma non siamo noi che possiamo razionalmente decidere. E' fondamentale non limitare l'afflusso d'aria, pertanto sempre lasciar scorrere e anzi pensare persino di sprecare più aria del necessario. Seconda cosa: dal momento che il suono nasce esternamente e ci si sposta tra i vari intervalli musicali, che siano ascendenti o discendente, o anche su una stessa nota, su vocali diverse o meno, la sensazione dovrà essere sempre quella di continuare a dar fiato, non fermarsi, non frenare, non diminuire. Sono sensazioni difficili, all'inizio, non ci parrà possibile, ma ricordatevi che è una sensazione illusoria, indotta dal nostro istinto per frenare quelle che per lui è una follia! Dopo poco tempo questa condizione di tubo aperto e vuoto ci apparirà, finalmente, come l'unica possibile e praticabile per cantare esemplarmente (anche perché è l'unica che permette l'annullamento di qualunque scalino o registro). Terza questione: la dinamica, che è prima di tutto una volontà, non è possibile esplicarla, così come l'attacco, in termini di spinta. Se si pensa di intensificare la voce premendo in avanti, è finita, si rientra nei parametri della voce corporea. L'immagine, per quanto io sia contrario alle immagini, che può maggiormente aiutare a chiarire il fenomeno, è quella del palloncino. Se potete immaginare che la voce nata esternamente si traduca in un palloncino, l'aumento e la diminuzione di intensità e volume si traducono in un aumento o diminuzione del volume (guarda caso) di questo palloncino. Quindi non più spinta, ma solo più fiato in una dimensione di maggior AMPIEZZA. Se si pensa di premere, si chiuderanno i condotti. 

mercoledì, dicembre 24, 2014

La realtà sostenibile

Se pensiamo a come potesse essere la vita qualche millennio fa, c'è sicuramente da perdere la testa! Ogni genere di difficoltà esisteva ed era terribile da superare, ammesso che la si superasse, e ogni difficoltà, per quanto piccola, era grande! Quale poteva essere una possibile strada per alleviare gli aspetti più crudi? Avere il potere. Il potere ti dava la possibilità di avere servitori, persone e mezzi che si prendevano cura di te e cercavano velocemente delle soluzioni. A volte questa strada finiva male comunque, anche molto male, però intanto per un certo tempo le cose si erano messe bene. Dall'altra parte abbiamo avuto persone che non hanno cercato il potere, anzi l'hanno disdegnato, ma sono vissute bene lo stesso, anche a lungo. Intanto l'umanità si ingegnava per cercare tutte le possibilità di rendere la vita più... vivibile, cioè uscire dal dolore, dalla sofferenza, dalle pene soprattutto fisiche. Con il miglioramento delle condizioni di vita e quindi un maggior benessere diffuso, è un po' diminuita la necessità del potere. La necessità, sì, ma non il desiderio! Benché tutto si muova in un'ottica di maggior equilibrio, ognuno di noi, sotto sotto, aspira a non dover più andare a pagare le bollette, a svuotare la spazzatura, a imbiancare, ad aggiustare il rubinetto, tagliare l'erba,... andare al lavoro! Si lavora un tot di anni e l'argomento più battuto è: quando vai in pensione!! In questi ultimi anni non so quante volte me l'avranno chiesto, e detto di loro. Ma tutto questo discorso a cosa fa riferimento? Alla realtà! La verità è che quando l'umanità, per lo meno quella cosiddetta occidentale, ha cominciato a vivere con un tenore (non cantante) più elevato, ha cominciato anche a uscire dalla realtà. E' bastato un po' di benessere affinché si cominciasse a delegare tutto il delegabile. La donna delle pulizie, gli spazzini, l'imbianchino, l'idraulico... tutte persone che lavorano (ma a costi sempre più alti, perché sempre più indispensabili) ma soprattutto che ci tolgono le afflizioni quotidiane. Questo èleva sempre più il potere del denaro, perché è grazie ad esso se possiamo vivere in questo livello più piacevole, però questo ci porta in una dimensione sempre più finta, surrogata, e ci porta a disconoscere, cancellare quel mondo vero che ci sta dietro, e nel quale alcune volte, sempre di più, si precipita con grave cruccio e che porta spesso all'omicidio e al suicidio, perché insostenibile, in quanto non voluto. Mi è capitato diverse volte di sentire notizie ai TG di uomini o intere famiglie distrutte per un problema economico temporaneo. Famiglie ritenute "normali", anzi buone, virtuose. Ma impreparate, avulse completamente dalla realtà, illuse dalla possibilità di una vita sempre come sospesa in una dimensione piacevole e confortante. Basta un errore e il disastro si compie.
Ma questo come e cosa c'entra nel blog sul canto? C'entra eccome! In fondo la questione non è molto diversa; la voglia di possedere un talento straordinario, ci porta a perseguire strade di ogni tipo, a dar retta a "maghi", illusionisti, dulcamara d'ogni tipo, pur di poter sperare di avere una voce grande, estesa, agile. Tutte le donne vorrebbero essere la Callas, magari con qualche difettuccio in meno e qualche cosa in più (ad es. una voce più bella) e tutti i tenori Del Monaco o Corelli, i baritoni Bastianini, i bassi Siepi. Alcuni, dotati naturalmente, riescono ad esprimersi con caratteristiche non indifferenti, ma tante tante volte questo desiderio-sogno di una leggendaria, mitica condizione d'altri tempi, li porta a rendere molto meno, a non esprimere realmente le proprie potenzialità, a inquinare, guastare, sporcare quel patrimonio che con più umiltà e capacità di controllo, soprattutto mentale, psicologico, potrebbe portare a risultati straordinari. Anche qui, purtroppo, la caduta nella realtà comporta depressioni dolore, abbandoni, miseria. Esiste anche chi continua a vivere nell'irrealtà, illudendosi di riuscire a ingannare tutti e pervicacemente continuare a gestirsi in un mondo parallelo, grazie al mito, all'aura creatasi con la celebrità, la popolarità. A volte riescono anche a farcela, ma, potremmo dire, a quale prezzo? Beh, non è buona cosa giudicare, quindi ognuno si gestisca come meglio crede, ma il mio stimolo natalizio, sperando di non aver intristito nessuno, è rivolto soprattutto ai giovani e a chi sta iniziando un percorso di vita: cercate di conoscere, vivere, sostenere la realtà. Se lo fate fin da subito potrete camminare con più fiducia, con i piedi per terra, con la certezza che sarà dura, ma non cadrete nella sofferenza e non ci porterete le persone a voi care. Anche il vostro canto dovrà essere ispirato alla realtà. E' vero che il teatro è finzione, ma per poter essere arte deve risultare vero! Quindi più la vostra linea musicale e testuale sarà indirizzata al vero, al reale, più conoscerete la gioia, e soprattutto la farete conoscere agli altri, e questo è il vero successo.

sabato, dicembre 20, 2014

Dentro e fuori

Qualcuno, polemicamente, disse tempo addietro che la voce è fuori e dentro contemporaneamente. La qual cosa è in parte vera, anche se preferisco precisare che all'interno del corpo c'è "suono", mentre la "voce" si manifesta compiutamente solo all'esterno. La discussione su questo tema ritengo sia in gran parte vana; a noi interessa educare e perfezionare la voce, dunque del suono ci interessa poco, se non quel tanto che basta per informarsi sulla nascita e quanto avviene affinché questo si trasformi in voce semplice, prima, voce esemplare poi. Ciò cui faccio riferimento con il titolo "dentro e fuori" si riferisce a un dentro ideale, spirituale, del pensiero, mentre il fuori è realmente il fuori di noi, dove la voce può esaltarsi come manifestazione stessa del pensiero, e non come semplice attributo fisico meccanico. Dobbiamo toglierci il più possibile da questa condizione forzata, altrimenti la libertà del canto sarà sempre difficile. Quando finalmente riesco a guidare qualche mio allievo a rendersi conto di un suono libero, scorgo la felicità ma anche il timore che nasce da questa nuova dimensione in cui è entrato. Sembrano mancare riferimenti, guide, appigli, ma anche leve, pedali e pulsanti che consentano di esercitare azioni sulla voce, come intensificare, addolcire, scurire, modificare, insomma, il prodotto vocale. La soluzione è la più semplice, banale, possibile, e cioè PENSARE, VOLERE. Il pensare e volere devono essere totalmente sganciati dalla fisicità; ciò che si vuole non è legato a "non chiudere la gola", ad esempio, o "non spingere". Queste brutture sono frutto di un secolo scarso di ragionamenti profondamente erronei, di condizionamenti razionali e di interferenze scientifiche, oltretutto molto spesso... pseudo! Non sarà la ragione che ci può condurre a un canto espressivo, a cantare alla nostra sfera sentimentale, a incantare gli animi e la parte più umana e divina di ciascuno di noi, dunque non si può passare da quella strada. La libertà è una strada difficile, ma soprattutto che ci pone in atteggiamento guardingo e timoroso. Il maestro serve a condurre, per l'appunto, per mano, facendo constatare che il terreno è solido, che non si cade, non si sprofonda e che con un po' di coraggio e di fiducia i primi risultati, validi ma magari un po' incerti, traballanti e non pienamente sonori, lo divengono in poco tempo. Dunque per il "dentro" si faccia sempre e solo riferimento alla componente animica, e il fuori allo spazio intorno a noi, un grande spazio, in cui però non ci si perde, e che noi possiamo riempire non di voce bruta, ma di un fiato sottile e infinito, dolcemente ma inesorabilmente sonoro e ricco.

giovedì, dicembre 18, 2014

Difetti al quadrato

C'è qualcuno, la cui voce - non reale ma editoriale - è parecchio divulgata, che suggerisce che per contrastare la spinta che molti allievi esercitano nel tentivo di cantare con molto volume, si può ricorrere al difetto opposto, cioè la nasalizzazione, perlomeno temporaneamente.
Per intanto sarebbe da analizzare se veramente si tratta di un difetto opposto. Secondo me no, per niente. La spinta è una forza che per varie cause, in questo blog più e più volte analizzate e descritte, procede dal basso verso la laringe e quindi verso l'alto. Nasalizzare non significa affatto non spingere! Semmai l'azione opposta, contraria, è lo spingere verso il basso, quindi l'affondo! Nasalizzare è un'azione che si può fare spontaneamente e consiste nel lasciar scendere il velopendolo in modo che il suono possa transitare attraverso le coane, i forellini di comunicazione posteriori, nelle fosse nasali. Vi si dedicò con molto entusiasmo il baritono Gino Bechi, il quale non mi pare abbia superato i vent'anni di carriera proprio per la spinta esagerata verso le fosse nasali.
Ma in fondo siamo sempre alle solite. Come ho più volte spiegato, la tecnica consiste nel cercare degli escamotage, in assenza di coscienza, che permettano di superare una determinata difficoltà. Non essendoci cognizione di quanto si sta facendo, del perché e delle possibili conseguenze, la difficoltà o difetto potrà sembrare superata perché l'istinto ha concesso un più ampio margine di concessione, ma in un tempo più o meno lungo, tornerà a farsi sentire e a riprendersi il concesso, in quanto non ha realmente assimilata come propria quella certa azione, nel nostro caso il canto, e vi si opporrà appena le forze fisiche, che impongono l'azione, cominceranno a venir meno. Nasalizzare, come affondare, tirare, spingere, alzare, ecc., sono tutte facce della stessa medaglia, cioè metodi incoscienti, aggiustamenti privi di reale cognizione di causa. Il difetto temporaneo è sempre presente, perché la perfezione è il risultato finale, e l'insegnante sa che deve tollerare il mantenimento di determinate difficoltà mentre forma l'allievo; si tratta di scegliere i difetti meno gravi in attesa che si sviluppino le qualità che permettono il superamento di ogni difficoltà e difetto. La nasalizzazione, come l'affondo, non rientrano e non possono rientrare tra i difetti consentiti, anche se chi li ha in modo rimarcato e spontaneo, li conserverà per qualche tempo, ma l'insegnante ne sottolineeerà sempre la necessità di eliminazione in modo anche da far constatare all'allievo le caratteristiche del difetto stesso in modo che proceda anche autonomamente alla sua eliminazione. Figuriamoci se si può pensare di inserire in un allievo che non ha quel difetto una simile procedura! Significherebbe aggiungere difetti a difetti. Possono esserci casi, piuttosto singolari, dove il permanere "testardo" di un certo difetto, richieda una qualche correzione "non ortodossa", più che altro come tentativo di velocizzare i tempi, ma sempre nell'ambito di una fonazione leggera, ampia, gradevole e consapevole.

lunedì, dicembre 15, 2014

Revision delle revisioni 3

Qualche altra annotazione: spesso si tende a rallentare il finale. Questo si può fare ma occorre anche qui un criterio, e il criterio è legato alla tensione. Su un brano di così ridotte dimensioni e di così effimera tensione, sia musicale che testuale, un rallentando è del tutto fuori luogo, quindi al massimo si può fare un appena accennato ritenuto.

Altra cosetta (si fa per dire!): il legato.Se è corretta la grafica usata dall'edizione revisionata, non c'è, nel canto, alcun segno di legatura. Quelle che vedete qui le ho aggiunte io. Con questo non si può pensare minimamente che questa pagina possa essere eseguita in modo staccato; a parte comunque il legato espressivo, non dimentichiamo che esiste un legato implicito grazie al quale il senso delle parole e delle frasi rimane integro e sempre intelleggibile.

Revision delle revisioni 2

Dunque, un cantante, vuoi professionista che buon amatore, con una certa esperienza pubblica, stimato, applaudito sinceramente, a un certo punto decide di dedicarsi all'insegnamento. Sa che dovrà forgiare dei giovani; certamente dovrà consentir loro di potersi esprimere vocalmente in modo disinvolto, libero, e di comunicare musicalmente a un livello perlomeno buono. Quindi, dopo le prime lezioni di preparazione, di conoscenza, ecc., comincerà ad affrontare le prime paginette di musica. Ad esempio i primi studi del Vaccaj. Il compositore Nicola Vaccaj fu un apprezzato compositore e un ricercato insegnante di canto sia in Italia che all'estero, e compose questo "metodo pratico di canto italiano per camera in 15 lezioni" nel 1833. Negli anni 80 del 900 venne ripubblicato in una edizione revisionata da un noto insegnante di canto. Sulla breve premessa concordo sostanzialmente con quanto scritto. Non so quanto la realizzazione abbia seguito le intenzioni. Facciamo subito un esempio. Nella prima arietta "manca sollecita" il revisore aggiunge poche righe al commento dell'autore, tra le quali mi piace sottolineare le seguenti: "... durante l'ascesa alla nota più acuta del pezzo si avrà cura di osservare la più assoluta immobilità e rilassatezza dell'apparato oro-faringeo al fine di realizzare un canto sul fiato ideale. L'attacco sulla nota iniziale della quartultima battuta potrà essere eseguito sia sul f che sul p a seconda delle possibilità espressive dell'esecutore." Convengo con quanto dice in seguito, cioè che nonostante l'apparenza è un brano difficile.
Rimango basito di fronte a tre sollecitazioni: "assoluta immobilità e rilassatezza dell'apparato oro-faringeo", "realizzare un canto sul fiato ideale", "l'attacco ... potrà essere eseguito sia forte che piano". Dunque, secondo l'esperto docente, si può immobilizzare e nel contempo rilassare l'apparato oro-faringeo, e questa è la condizione per realizzare, si badi bene, alla prima lezione, l'ideale canto sul fiato. Come pensa e come potremmo noi da queste poche righe cogliere qualcosa di autenticamente utile e significativo? Se pensa che un allievo possa leggere e poi realizzare in modo calligrafico questo suggerimento è come minimo un ingenuo e un visionario, se invece pensa che debba essere l'insegnante personale a mettere l'alunno nelle condizioni di poter esprimere al meglio delle possibilità del momento l'esecuzione del brano, allora il commento è non solo superfluo ma anche fastidioso, perché un insegnante esperto già sa quel che deve fare, e non è detto che ricalchi quanto scritto dal revisore, che a questo punto diventa un punto di contrasto e quindi di possibile confusione per l'allievo. Adesso veniamo al brano vero e proprio, cioè la seconda arietta, "semplicetta tortorella". Sinceramente io non capisco cosa è stato fatto. Contrariamente alle normali edizioni critiche, qui è tutto scritto normalmente, cioè non ci sono legende per farci comprendere se è stato aggiunto qualcosa di mano del revisore, ad esempio legature tratteggiate. Ho provato a cercare in rete edizioni diverse e ne ho trovate due, una del tutto identica anche sul piano delle indicazioni espressive, quindi anche legature, e una invece molto più ricca, quindi... non si sa. Bel lavoro!
Ora, quale potrebbe essere invece un ruolo fondamentale nel lavoro di riedizione di un lavoro storico, ancor più se di carattere didattico? Dare quelle indicazioni di natura MUSICALE che non tutti gli insegnanti di canto possiedono (ma chi le possiede!!?), e che non si scontra e non contrasta con la sua "competenza", ma anzi la integra e completa. Ad esempio è piuttosto normale, per non dire sistematico, che ci siano stereotipi, tipo accenti fuori luogo, cantilene, legature improprie. Ad esempio, è abitudinario mettere gli accenti in questo modo:
Qui saremmo nel paleozoico dell'insegnamento musicale, eppure lo si sente benissimo fare da gente che canta da anni. Il 6/8 è un tempo non facilissimo, perché ha una forte tendenza alla cantilena. Si tratta di non avallare questa tendenza, se non si tratta di una nenia. Se anche non si va in contraccento, come nell'esempio, anche accentare tutti i tempi in battere è comunque sbagliato. Quanti insegnanti e allievi (e magari pure revisori...!) si soffermerebbero a osservare che il brano parte in levare, sul 4° tempo? E' strano? No, Vaccaj, molto semplicemente, si rende conto che il primo accento tonico è sulla "é" di semplicétta (mi raccomando, la "é" con accento acuto, cioè stretta), e correttamente fa coincidere questo accento con il primo accento musicale, cioè il primo battere possibile, sulla seconda battuta. Quindi il brano deve iniziare piano e andare a cadere sul battere successivo, dopodiché diminuire sensibilmente il "-tta" finale. Ma anche qui siamo alla preistoria! Qual è la frase? E' "semplicetta tortorella", e non dobbiamo pensare che ogni parola debba rivelare prepotentemente il proprio accento; tra queste due, è evidente che l'accento più importante cada sulla "è" di "tortorèlla" (se osservate le minime, c'è la scaletta fa sol la, quindi il la è la più acuta, così come successivamente c'è una scaletta discendente do-si-la-sol). Il geniale revisore, proprio al contrario di quanto ho esposto, suggerisce di accentare leggermente i tempi deboli!!!! cioè rovinare totalmente il pezzo! e, ancor peggio, ci invita a non fare crescendi e diminuendi. Ma sì, tutto uguale, evviva!! e notare che non c'è ombra di legatura!! Nuovamente la seconda frase parte in levare; quale importanza può avere un "che"? nessuna, quindi sarebbe palesemente antimusicale partire da un forte. Mi pare abbastanza chiaro che la frase tenda al "-ri" di "periglio". Per esemplificare graficamente la dinamica dell'esecuzione, devo ricorrere a una doppia fila di forcelle; in pratica all'interno di due crescendi, il primo un po' più trattenuto, il secondo più esplicito, dobbiamo fare dei piccoli diminuendo al fine di non incorrere in accentacci su sillabe atone.
Si potrebbe, invece, instaurare una simmetria decisamente inopportuna:
In questo modo la terza frase ripartirebbe da zero ed ecco la reiterazione ciclica che toglierebbe qualunque interesse al brano.
Un grosso pericolo è anche costituito dalle simmetrie; in questo caso una simmetria c'è, però il fatto che la seconda frase parta da una nota più alta e con un suo piccolo accento, mette al riparo da questa eventualità. Altra questione è costituita dalla durata delle note. In genere gli allievi che non hanno una forte musicalità innata, tendono ad accorciare i tempi deboli e spessissimo "rubano" tempo, cioè arrivano prima del dovuto al battere successivo, creando buchi e/o sfasamenti con il pianista, per cui bisognerà agire sulla pronuncia ben distesa delle sillabe in levare (-pli; to; non; pe); un discorso fondamentale riguarda alcuni pronomi ricorrenti come "mio", "suo" "tuo", che finiscono spesso e volentieri per diventare "miò", "tuò", "suò". L'insegnante non deve demordere dal fermare SEMPRE l'allievo e fargli cantare correttamente mIo, tUo, sUo, ecc., allungando anche oltre misura la vocale tonica, fin quando diventerà spontanea.
Guardate quanto ho già scritto, e non sono ancora a niente! Un Vaccaj revisionato per bene, dovrebbe avere dimensioni triple, rispetto al volume edito. Adesso, se esaminiamo il testo, ci rendiamo conto che la frase non ha senso, manca un pezzo; infatti adesso abbiamo: "per fuggir dal crudo artiglio, vola in grembo al cacciator". L'autore riprende la frase musicale iniziale. Inizierà con lo stesso "piano" iniziale? Ovviamente no, la tensione è cresciuta, sia da un punto di vista musicale che testuale. La terza frase, "vola in grembo...", è scritta una terza sotto la simmetrica seconda frase, la qual cosa potrebbe risultare strana, perché la tensione dovrebbe aumentare significativamente. Ma è evidente che Vaccaj, che era musicista esperto, si rende conto che la brevità dell'aria rischia di farlo morire subito, e non c'è ancora sentore di climax, quindi scende al fine di preparare una "salita" più efficace ed evidente, prima della conclusione. Il punto massimo coincide con l'aspra figura dell'artiglio, sulla nota più acuta del brano, dove cadrà anche il forte più acceso, seppur non mai esagerato. La quarta frase, che riparte dalla stessa nota più acuta, sarà poco meno forte di quella, perché dobbiamo scendere gradualmente per far stemperare la tensione. Ricordiamo che il brano musicale si contraddistingue da tre punti, inizio, fine e punto massimo, ovvero nascita, morte e articolazione tensiva; la parte fino al PM è la fase implicita, da qui, con l'occhio rivolto al PM, si passa alla fase esplicita, fino alla fine. Facciamo ancora notare alcune cose, che qui non rivestono un'importanza somma, ma sono sempre da tenere d'occhio. Le RIPETIZIONI, soprattutto musicali. Qui abbiamo la seconda e la sesta battuta uguali, però, come dicevo, non nascono problemi perché abbiamo già indicato la necessità di crescita in entrambi i casi. Quindi abbiamo le IMITAZIONI. E qui siamo pieni! testuali ma soprattutto musicali e anche speculari. Praticamente è tutta un'imitazione! Nelle imitazioni occorre individuare la proposta e la risposta; la risposta, risultando la parte PASSIVA del gruppo andrà a "meno", cioè con un'intenzione dinamica meno forte. Infine, forse, abbiamo le CHIUSE, cioè le conclusioni delle frasi, che vanno sempre a meno, se non ci sono accenti, ma anche in quel caso l'intenzione deve sempre essere quella di attenuare. Ora pubblicherò su un'altra pagina l'intero spartito con le indicazioni dinamiche che ho evidenziato.

venerdì, dicembre 12, 2014

Revision delle revisioni

Escono in commercio periodicamente volumi di testi musicali storici, vuoi opere, vuoi manuali, corredati da commenti e aggiunte critiche. Fino a qualche anno fa c'era una motivazione economica perché l'elaboratore o revisore attendesse a questa attività, in quanto poteva usufruire di quote di diritti d'autore quando il brano veniva eseguito in pubblico con quella specifica elaborazione. Da qualche anno mi risulta che questa speculazione è stata tolta (per fortuna). C'è sempre un guadagno, limitato però al solo compenso che l'editore decide di sborsare a un revisore per una particolare edizione. In questo senso si giustificano le celebri edizioni critiche delle opere di Verdi o Rossini, commissionate dalle fondazioni esistenti e facenti capo ai grandi compositori. In genere l'edizione critica come funziona? Si prende, se c'è, l'autografo originale, nonché tutte le prime edizioni, a stampa o manoscritte, le annotazioni eventualmente riscontrate e quant'altro ritenuto degno di nota, persino nella corrispondenza. E', in sostanza, una operazione in gran parte grafica; il "musicologo" subentra per dare priorità alle scelte, eventualmente segnalando con diverse modalità, segni talvolta persino di opposta tendenza (in certe versioni in una frase ci può essere un crescendo e in altra, nello stesso punto, un decrescendo oppure un legato e uno staccato, ecc.). Quindi molto spesso si porta in evidenza che dalle carte emerge che determinate frasi non hanno una chiara e univoca scrittura, anche se non si sa se tali contraddizioni appartengano all'autore o ad altri. Alla fine c'è da chiedersi se tali edizioni siano davvero utili, perché dietro questi "maneggiamenti" non ci sono mai criteri esposti. In alcuni particolari casi, come i libri di studio, questa attività può avere un particolare e importante rilievo. A cosa servono gli studi? Per tutti gli strumenti esistono centinaia di libri che portano appunto il nome di "studi" ed hanno sempre un carattere eminentemente tecnico, cioè non "musicale". Credo che pochissime persone colgano la valenza di questa critica. Sappiamo che nel rapportarsi allo strumento ci sono difficoltà non indifferenti; le dita di un pianista, il coordinamento tra le mani, la rapidità, ecc. I vari insegnanti, nel tempo, hanno elaborato degli esercizi che insistendo e proponendo vari tipi di soluzione, come una diteggiatura, una posizione, un movimento, ecc., hanno creato metodi che sono considerati validi. Questo ok, ma... è un procedimento "musicale"? Di solito no, è pura tecnica. Questo è un male, perché l'allievo confonderà la tecnica con l'arte, cioè riterrà che risolvendo i problemi tecnici, cioè facendo bene i passaggi virtuosistici, difficili, farà musica. Ma non è così! Non è così a meno che l'insegnante personale non ci metta una pezza illustrando e poi pretendendo che ogni esercizio venga suonato con criteri musicali oggettivi e condivisi. La questione riguarda ovviamente anche il mondo del canto. Un celebre testo, il Vaccaj, un bel po' di tempo fa è stato pubblicato con una revisione da parte di un celebre insegnante. Prima di ogni studio il revisore ha inserito un proprio commento, di carattere tecnico. Ma... gli allievi che studiano canto, hanno veramente bisogno di quei consigli tecnici, che in realtà ben poco effetto possono avere su chi poco sa di voce, mentre possono creare confusione se contrapposti a quanto dice l'insegnante personale, mentre ben altro peso potrebbero avere consigli di natura strettamente musicale, tipo orientare le ripetizioni, individuare il fraseggio e come realizzarlo, ... insomma, come fare di un brano un'unità. Anche nei libri scolastici questo genere di insegnamenti sono totalmente assenti, e se consideriamo che la maggior parte degli insegnanti di musica ben poco sa in merito, come pensiamo che la musica possa avere un florido futuro?
In un prossimo post esemplificherò quanto esposto commentando, come credo vada fatto, un esercizio del Vaccaj.

martedì, dicembre 09, 2014

Il trattato - respirazione - 14

Una civiltà progredita porta con sé una respirazione che è relativa alla civiltà in atto, cioè una respirazione carente, perché l'uomo adagiandosi nel benessere tende ad impoltronirsi. Abbiamo osservato che la respirazione comune o naturale è sempre carente o difettosa quando questa viene usata per alimentare i suoni
Una osservazione tanto semplice quanto acuta e importante. Le condizioni di vita umane mutano nel tempo, perché l'uomo tende a creare benessere, e il benessere porta a una diminuzione dell'impegno fisico, e di conseguenza la respirazione, che, insieme all'alimentazione, fornisce energia all'attività, risulta più carente rispetto al passato, e di questa carenza ce ne accorgiamo maggiormente proprio in quelle attività come il canto dove il respiro non è solo di tipo fisiologico ma riveste un ruolo ben più pregnante.
e quanto più noi cerchiamo di impegnarla a superare il difetto, tanto più essa lo accentua perché non supera l'istinto ma lo pone in condizione di organizzarsi in difesa e ne accresce la resistenza.
Come già in diverse occasioni sottolineato, la tecnica, e soprattutto una tecnica meccanica non solo non può risolvere realmente alcun difetto, ma lo pone in condizione di sviluppare maggior resistenza. Se apperentemente sembra di aver superato i problemi, si deve alla tolleranza dell'istinto, cioè sarà questione di tempo, ma essi appariranno.
E' vero che la reazione sviluppa l'azione, ma solo entro i limiti di concessione istintiva. Ciò favorisce ma anche inganna certi soggetti rispetto ad altri, sia perché le costituzioni fisiche sono diverse, sia perché vi sono condizioni ambientali diverse, sia perché vi sono aspetti congeniti o sensori, specialmente uditivi; condizioni tutte, queste, che si allacciano, poi, a una certa disponibilità 'vocale più o meno spiccata.
Quanto scritto vale per tutti, siamo tutti sottoposti alle stesse leggi, ma allo stesso tempo ci possono essere diversità anche spiccate; questo trae in inganno, perché ci si sente dei privilegiati (e in un certo senso è vero, ma non si è invulnerabili!).
Diventa ovvio che per abbinare il perfetto al perfetto è indispensabile unire l'educazione per la formazione dei due apparati: uno, quello VOCALE O FONICO che deve diventare appropriato ad ogni soggetto, libero in tutta la sua azione, cioè libero da ogni e qualsiasi impedimento; l'altro, l'apparato RESPIRATORIO, deve sganciarsi dalla sua abituale funzione e trasformare la propria meccanica in azione fonica.
Qui abbiamo uno dei concetti chiave espressi mirabilmente dal m°. Più si percorre la strada del canto artistico e più ci si avvede di come questi pensieri siano veri, reali, condivisibili. 
Tutta la gamma dei suoni possibili deve diventare talmente libera da costituire un flusso mentale svincolato da ogni e qualsiasi esigenza istintiva. Deve diventare, cioè, un perfetto "archetto" che opera sulle corde vocali, agendo su di esse in rapporto alla perfetta esigenza di ogni richiesta di suono, affinché non intervengano deformazioni organiche di nessuna specie. Ne consegue che non si può insegnare a cantare e a ben formare lo strumento vocale scrivendo, così come non si può insegnare a ben respirare teoricamente. Se fosse sufficiente, per ben cantare, studiare testi sul canto o di anatomia e fisiologia, il problema sarebbe di facile soluzione o non si presenterebbero affatto.
Infine un pensiero critico, che non è da sottovalutare:
Il nostro intento è di orientare, ma spesso temiamo di andare ad accrescere la già tanta confusione esistente.

giovedì, dicembre 04, 2014

Tira e spingi

Si verificano, nel corso dell'apprendimento, due fenomeni opposti: la spinta e il trattenimento della voce. A cosa sono dovuti, cosa causano e come affrontarli?
Si può restare perplessi di fronte alla coesistenza di due fenomeni di opposta tendenza, eppure questo dobbiamo constatare e dobbiamo anche ricercarne le cause, se vogliamo poterne annullare gli effetti negativi senza creare tecnicismi che solo apparentemente potrebbero superare i problemi ma in realtà rischiando di dilartarli. Sulla spinta per la verità ci siamo già dilungati. Da un lato c'è una tendenza abbastanza comprensibile di ogni soggetto che cerca di ingrandire e intensificare la voce. La soluzione non può essere certo quella di tirare indietro o spingere verso il basso!!! L'unica soluzione degna di nota consiste nel parlato, cioè pronunciare, poi intonando, con la semplicità del parlato quotidiano. Questo rende scettici molti perché non possono immaginare che il parlato possa svilupparsi fino a diventare una grande e sonorissima voce. Ma questo può essere un problema superabile dal maestro che esemplifica. L'altra causa della spinta è ben più spinosa, e consiste nella reazione istintiva, come ho scritto a sazietà, e dunque su questo non mi dilungo.
Ora esaminerò il trattenimento, che è un difetto persistente e subdolo. Ci sono molte e variegate ragioni, caratteriali, personali, nei primi tempi, e solo più avanti ne subentrano altre di tipo fisiologico-istintivo. La timidezza, la vergogna, la paura (questa è di tipo emotivo-istintivo), tendono a far trattenere il suono, e quel che è peggio è che rendendosene conto il soggetto comincia a spingere! Per cui ci si trova in una contraddizione in essere, cioè lo stesso soggetto che oppone resistenza e preme per vincerla. Anche questo difetto si può affrontare in buona parte col parlato semplice, naturalmente ampliandone la tessitura a tutta la gamma posseduta, il che, come si può facilmente immaginare, non è per niente semplice, specie per le donne (che in effetti non hanno bisogno di estenderlo oltre un mi-fa4). Cosa succede in un certo momento? Che l'equilibrio che si va a instaurare tra le masse (suono e aria di alimentazione) permette la creazione (e anche sensazione) di quel "tubo vuoto" o gola aperta e "morta" che l'istinto non accoglie volentieri perché si potrebbe creare uno svuotamento troppo repentino e violento dei polmoni. Ecco che qui, dunque, subentrano i concetti di "sostegno del petto" (inteso come torace, non come registro) e respirazione artistica. La capacità del soggetto di non mettere in pressione l'aria polmonare, che ne causerebbe una fuoriuscita troppo impetuosa e la chiusura glottica, e che, peraltro, non deve per nessun motivo ricreare la condizione di trattenere, è quella meravigliosa condizione di perfetto equilibrio o galleggiamento aereo (non galleggiamento vocale, che, pur essendo un'ottima e interessante sensazione, è più comune e non necessariamente priva di difetti) che permette una vocalità artistica, ovvero la possibilità di un'autentico parlar cantando, perfettamente intonato, purissimo, diffusivo, effusivo, piacevole, sonoro, penetrante e malleabile, cioè in grado di potersi esprimere, sempre con efficace sonorità, dal sospirato al fortissimo, dal chiaro allo scuro, su tutta la gamma, senza più scalini. Puntiamo alla semplicità, che è sicuramente la strada migliore, anche se con questo mi rendo conto di aver detto molto poco... o troppo!

lunedì, dicembre 01, 2014

Senza massa...

Come può un fotone proiettarsi alla massima velocità possibile? eliminando la massa. E' una disquisizione puramente filosofica, o mentale, ma comunque importante. Quello che appare dalla pubblicistica sul canto degli ultimi anni, riguarda considerazioni sul suono vocale inteso come una massa mobile (metti qui o là, spingi, tira, alza, premi, gonfia, allarga; quando non è rivolto al suono è rivolto ai muscoli, il che è forse persino peggio). Questo ha un fondamento di verità, perché il suono è una massa, e come tale ha un peso. L'errore che si fa, comprensibilmente, è il tentare di muovere, di gonfiare, di proiettare, ecc., questa massa, la quale non è la voce, ma è solo sé stessa (suono), e il suo ruolo si esaurisce nel contrapporsi alla massa aerea che la produce. Questa contrapposizione, come già illustrai ne "le masse contrapposte", determina quell'equilibrio pneumofonico che permette quel galleggiamento laringeo grazie al quale si elimina ogni fatica e consente al cantante di parlare intonato. La concentrazione, la volontà del vocalista cantore, deve orientarsi verso un altro obiettivo, che è rappresentato dalla pronuncia che si forma esternamente, e quindi si può avere (non necessariamente, meglio se non c'è) la sensazione di avere due elementi aventi tra di loro una relazione ma allo stesso tempo distanti e indipendenti, cioè la parola, fuori-avanti, e il suono, interno (sensazione che dovrà sparire totalmente, a favore unicamente della parola)
E' bene ripetere e precisare che sulla punta, all'esterno, non ci sta "un" suono, ma solo la pronuncia più esatta e corretta, che richiede una costante e ben dosata alimentazione, la quale non può essere determinata dal cantante, ma è implicita nella produzione stessa e andrà perfezionata con l'esercizio, grazie all'esempio e ai suggerimenti del maestro. La questione fondamentale, però, resta quella della massa. Il movimento della massa è causa del sollevamento del fiato dalla propria base, quindi lo spoggio, ovvero la cosiddetta "cucchiaiata", cioè il "giro" in zona oro-faringea, che provoca indietreggiamento, opacizzazione, ingolamento. A parte il parlare avanti, fuori, potrà giovare proprio il ritenere che la giusta vocalità sia "senza massa", quindi senza peso, e grazie a questa assenza materiale possa scorrere, fluire, spandersi, nell'ambiente circostante a grande velocità, correre, ma anche riempire e incantare, come un sottile ma inebriante profumo. In fondo è sempre un volare, come ho già espresso nel post precedente.